Non importa come mi chiamo. Potrei avere un nome qualunque, banale, di quelli dei quali l’anagrafe è piena oppure uno di quei nomi strani e buffi che prendono piede quando i serial americani hanno successo. Se avessi un nome diverso sarei sempre la stessa e sarebbe sempre la stessa la storia che sto raccontando.
Non ero sposata. Non avevo figli. Ero sola a trentacinque anni e non chiedetemi perchè. Amori sbagliati, amori perduti, amori soffocati: nomi che, quelli sì, sono ancora talmente importanti che basta riecheggiarli per far sanguinare le ferite che mi porto dentro. Eppure non mi piangevo addosso: avevo il mio lavoro da una parte e dall’altra i miei amici ed i miei hobby, che difendevo strenuamente dall’invasione di colleghi che solo perchè non sei sposata e non hai figli si sentono in diritto di rifilarti lavori fino a tarda sera o durante il week-end.
Abitavo al terzo piano di un palazzo in centro, uno di quelli del novecento, ristrutturato dentro e fuori. Un palazzo a quattro piani, quattro appartamenti per piano, di quelli piccoli, bilocali o trilocali, giusto per single come me, che non avevano troppe esigenze. Varcato il portone, un grande cortile al quale accedevano tre scale. La portineria era condivisa. La portinaia era la più classica delle figure che si possono immaginare: donna focosa del Sud, pettegola impenitente che ad ogni domanda che ti faceva spergiurava che lei sapeva tenere i segreti. Suo marito era ufficialmente giardiniere e curava le piante del cortile; di tanto in tanto si cimentava nei piccoli lavori che noi donne single non sapevamo a chi chiedere: imbiancare la casa, sistemare un’anta, spostare un mobile, portare su un divano. Avevano due bimbetti con le calzette sempre giù, che correvano e urlavano nel cortile, proprio nel momento in cui tu volevi dormire. La scalinata era ampia e lunga, in marmo, così come di marmo erano le pareti delle scale. Un marmo beige striato a varie tonalità sul pavimento e sul muro ed una grossa fascia di legno più o meno all’altezza della ringhiera.
All’epoca abitavo in quella casa da circa cinque anni. Mi ero trasferita dal Sud dove ero nata e avevo abitato finchè non mi ero laureata. All’inizio non guadagnavo molti soldi e vivevo in una camera in affitto con alcune studentesse. Poi il salto di qualità, quando la “Grande Banca” mi aveva fatto un’offerta. Avevo visto il mio piccolo mondo aprirsi, quando realizzai che potevo permettermi “il mio appartamento”, anche se solo in affitto. Trasferii le mie cose nel giro di una domenica mattina, qualche valigia piena di vestiti e poche cianfrusaglie di arredo. Impiegai circa sei mesi ad arredare la casa, perchè gustavo il comprare i vari oggetti solo quando ero convinta di non poterne proprio fare a meno. Ricordo che quando lasciai quella casa non c’era più un angolo che non mi ricordasse un viaggio, una persona, un luogo particolare, come se il mio passato si fosse stratificando intorno a me invece di scivolare e sciogliersi via.
Quando firmai il contratto di affitto non avrei mai immaginato quanto sarebbe cambiata la mia vita. Se avessi saputo allora quello che so adesso credo che la mia stilografica avrebbe esitato nel comporre il mio nome su quella carta legale, lettera dopo lettera e avrebbe sbavato e tremato.
Lo incontrai per caso, un venerdì sera che la città era allagata da un temporale estivo ed io rientravo con qualche busta della spesa, stanca e sfatta per aver trascorso il pomeriggio fino alle otto in ufficio. Avevo i capelli in disordine ed un po’ bagnati, tirati su con una pinzetta, il trucco spiaccicato sopra gli occhi, il volto smunto oramai privo di fard. Il tailleur umido e stropicciato non faceva più lo stesso effetto della mattina. Per dirvela tutta, l’impressione che avevo avuto di me guardandomi tra le vetrine illuminate del centro commerciale era stata quella di una ragazza sciatta e insignificante.
Lo incontrai proprio quella sera, una di quelle sere che pensi di voler solo arrivare a casa, non incontrare nessuno e sprofondare nel letto a dormire fino a mezzogiorno del giorno dopo. Al contrario di me, lui era perfetto, in giacca e pantalone nero, camicia bianca e farfallino nero ed aveva sceso le scale in modo disinvolto e silenzioso, proveniente dal quarto piano, proprio nel momento in cui io ero abbassata verso il pavimento dell’ascensore, la borsa con la tracolla che continuava a cadermi dalla spalla impicciandomi le mani, le maniglie delle quattro borse della spesa che non volevano saperne di incastrarsi nelle mie dita e, quando ci riuscivano, si infilavano sotto gli anelli facendo male. In quella posizione un po’ fantozziana indietreggiai, spingendo con il sedere la porta dell’ascensore che minacciava di chiudersi, e mi bloccai solo quando vidi due scarpe lucide dietro di me ed i risvolti di un pantalone da uomo, mentre su, ai piani alti di quella figura, un suono simile ad una risata accompagnava la mia uscita trionfale dall’ascensore. “Ma no, non adesso...” pensai tra me e piano piano, nonostante l’accenno di un colpo della strega alla schiena, gli dimostrai che malgrado tutte le apparenze, appartenevo anche io alla specie dell’Homo Erectus.
Vi sarà capitato qualche volta di essere – come diceva mio padre – “malmostoso”, una parola che già di per sé evoca questo malore interno, questo fluido un po’ liquido, nerastro, in continuo fermento. E vi sarà capitato qualche volta – quando eravate in questo stato – di incontrare uno sguardo, che come una spugna aveva in sè il potere di lavare via quell’umore appiccicaticcio e malevolo per regalarvi un sorriso.
Fu così, come nei migliori film d’amore americani, come nella tradizione delle favole di Walt Disney (o della Pixar, dovrei dire?), che i miei occhi spaziarono dai piedi – che ad occhio dovevano calzare il quarantadue – alle gambe lunghe la cui muscolosità si lasciava solo immaginare dietro il pantalone nero, alla vita stretta ed alle spalle larghe. E finirono per incastrarsi sul viso più bello che io avessi mai potuto immaginare di incontrare, non solo in quella serata umida e triste, ma in tutta la mia vita. Il colore della pelle dimostrava che trovava il tempo per le lampade o era appena tornato dalle vacanze. La barba aveva appena subito una sconfitta dalla lama di un rasoio e si era ritirata sottopelle. Il naso puntava dritto all’insù e si collocava piccolo e discreto tra i due occhi grigi più belli che avessi mai avuto la possibilità di incrociare. A coronare il tutto capelli biondo principe, ciuffo compreso, sbuffato verso l’alto con un movimento veloce del labbro. Avete mai visto “Vi presento Joe Black”? Qualcuno di molto simile al misterioso e temibile compagno di Bill Parish era davanti a me, piccola fiammiferaia che aveva perso oramai anche l’ultimo fiammifero, per poter sperare di accendere una luce nella sua vita.
Certe fortune capitano una volta sola nella vita, direte.
No! Vi dico io. “Quella” fortuna mi capitò anche altri giorni, perchè il “signore” abitava esattamente al piano di sopra del mio dal giorno prima e sembrava single, celibe, libero... capite?
Io mi chiedo adesso cosa io avessi fatto di così male in tutta la mia vita, fino ai miei trentacinque anni, per meritare una disgrazia simile. So che molte di voi staranno lanciando anatemi e vorranno inveire contro di me, ma vi posso giurare che avere un essere simile al piano superiore e incontrarlo praticamente ogni giorno non può che essere alla fine considerata una disgrazia.
Perchè? Nessun problema la mattina, quando sei truccata, curata nei minimi particolari, con i vestiti stirati e in ordine e apri la porta e senti che qualcuno sta scendendo le scale: allora sei libera di girarti e sfoggiare il migliore sorriso del mondo, provare ad attaccare bottone cercando di rinfacciargli che la sera prima ha avuto ospiti e ha fatto tardi – mentre tu morivi dalla voglia di salire su e chiedere se potevi autoinvitarti alla festa. Hai certo le forze per scendere le scale con il tacco a spillo altezza dieci fingendo una disinvoltura che non è reale ed infine salutarlo con un sorriso sperando che ti chieda se sei libera la sera... Questi incontri sono davvero sporadici...
(Attenzione, sentite la musica di sottofondo? Non vi ricorda l’ultimo tragico Fantozzi?)
Ebbene sì... va sempre a finire che lo incroci quando hai aperto la porta in tuta, con i capelli bagnati e ricci – perchè non avevi voglia di asciugarli e passarli sotto la piastra – con il cestino dell’umido in mano, dal quale volano via un po’ di insetti perchè come al solito ti sei dimenticato di buttare il sacchetto con la frutta da una settimana.
Oppure lo incroci quando hai tolto le lenti a contatto per lavarti i capelli, ma devi precipitarti giù a riaccendere il contatore visto che hai acceso phon e lavatrice insieme e non hai il contratto “BIG” – del resto che ti serve a fare il contratto “BIG” se sei da sola? – e allora ti togli velocemente le lenti a contatto ma non vedi nulla e devi fare finta di vederci e scendi uno scalino dopo l’altro come se fossi Wanda Osiris che scende la scalinata, piano, lentamente e lui ti chiede: “Tutto bene?” e tu “Sì, grazie, ho solo male ad un piede...”
Eppure un giorno successe quello che non mi aspettavo, anche se è inutile dirvi che un po’ ci speravo...
Era una domenica di quelle che sei un po’ svogliata ma ti tiri comunque fuori dal letto, indossi la prima tuta che trovi, infili i pattini e decidi di andartene in giro per il Parco di fronte a casa. Successe mentre stavo chiudendo la porta e sinceramente quella volta non pensavo – come ogni volta – di incontrarlo. Ero ancora assonnata ed avevo finito il caffè, perciò avevo pensato di prendermelo al bar. Avevo il mio marsupio attaccato in vita, vi infilai le chiavi dopo avere chiuso la porta e mi girai sovrappensiero, trovandomi a cinque centimetri dal suo viso e dal grigio dei suoi occhi.
- Scusa... che sb.. che sbadata! - balbettai
- Ma dai, pattini?
- Sì... da.. da quando ero piccola...
- Sto andando a correre. Vuoi venire con me?
La mia testa disse di sì, mentre il cervello ancora cercava di svegliarsi ed il cuore era già partito, destinazione Paradiso. Eppure non avevo “i grilli in testa”, quella mattina davvero non pensavo a niente. Era successo così per caso e sempre per caso continuò. Fu così che quella domenica mattina pattinai per più di quattro ore, mentre lui correva e camminava e riprendeva a correre e camminava ancora, al punto che il giorno dopo non riuscivo nemmeno a muovere le gambe per scendere dal letto. Lui era davvero bello... il sole poi riusciva ad illuminare i suoi occhi in modo speciale, colorandoglieli di un po’ di azzurro. Sembrava così distante da me, dalla figura che avevo sempre immaginato come il mio principe. Era radioso, sprizzava felicità, allegria. E davanti al laghetto mi baciò, così, senza dire nulla... Stava correndo e ad un certo punto si fermò e mi tirò a sè e spiaccicò le labbra contro le mie, infilandomi la lingua in bocca e frugandomi con passione.
No, mi dicevo forsennatamente in testa mentre mi baciava... i principi non si presentano in questo modo... devono misurarti la scarpa e vedere se è della tua misura e per il primo bacio devi aspettare il giorno delle nozze, perchè lì si chiudono tutte le favole e non sai mai cosa succede dopo.... finchè mi arresi al suo abbraccio.
Inutile dire che la mia vita cambiò. Cambiò come può cambiare la vita di un rospo dopo che è baciato dalla principessa e diventa principe anche lui. Solo che qui era il principe che aveva dato il bacio e il rospo ero io. Non riuscivo a capacitarmi di quello che era successo, ma soprattutto non mi capacitavo del fatto che lui non si facesse sentire. Mi sembrava di essere tornata adolescente, ferma davanti al telefono muto, mentre lo implora di squillare e quando squilla resta delusa pronunciando le fatidiche parole “Ciao mamma... sì sto bene... tu e papà?”, perchè si sa che i genitori hanno quel sesto senso che li porta sempre a chiamare quando aspetti un’altra telefonata o quando mangi.
In queste situazioni la fantasia si scatena: sarà malato gravemente e non riuscirà ad alzarsi dal letto nemmeno per telefonarmi... sarà rimasto bloccato in ascensore... sarà andato via per lavoro... sarà... Certo, sarà un milione di cose diverse, finchè non lo vedi rientrare con una bella bionda al suo fianco, in pantaloncini bianchi, che mostra due gambe che la loro rotula arriva al tuo ombelico ed un sedere da brasiliana che ti rassicura sul fatto che Dio non è stato giusto con te.
Allora inizi a pensare: ma allora, io? E da lì a un secondo la fantasia riprende a scatenarsi: sarà sua sorella, è bionda come lui! Scopri dopo due giorni dalla portinaia che è sua moglie svedese appena rientrata in città dalle vacanze in patria.
Cosa vuoi dirgli? Nulla... in fondo tra di noi c’era stato solo un bacio e un bacio non è impegnativo...
No! Porca miseria, un bacio è un bacio: un bacio è un apostrofo rosa tra le parole “ti” e “amo”, un bacio è la promessa di un amore, un bacio è lo scambio più bello tra due anime... Non si bacia una qualunque, non si bacia la tua vicina del piano di sotto solo perchè ti fa pena sui suoi pattini con le gambette magre un po’ rachitiche e la pelle che comincia a raggrinzirsi... perchè in fondo ha trentacinque anni la tua vicina, non venticinque come quella bionda là che ti sta accanto.
Non so come abbia fatto a innamorarmi di lui per così poco, se poco è un bacio.
Non lo so. Innamorarmi è una parola grossa, ma come si chiama quel nodo allo stomaco che mi prendeva appena aprivo il portone di casa e speravo di incontrarlo? Come si chiama quella sensazione di vuoto che sentivo dentro di me quando chiudevo la porta di casa e non l’avevo incontrato? Come chiamavo quella frizzante energia che sentivo in me e che mi faceva presagire che sarebbe successo qualcosa e che si spegneva dopo ore quando c’era oramai la certezza che non sarebbe successo nulla? Non so come chiamarla, eppure sentivo tutto ciò nel cuore. Incrociare i suoi occhi quando capitava mi faceva ancora provare un tuffo al cuore. Correvo quando ero per strada e lo vedevo entrare nel portone non faceva solo venire il fiatone, ma mi riempiva di qualche strano borbottio allo stomaco. Passare le ore allo spioncino di casa per vederlo scendere non era normale. Allora cosa ero? Pazza, innamorata?
Mi ero lasciata illudere e non mi restava che leccarmi le ferite. Speravo solo che non sanguinassero troppo, anche se ero conscia che il sangue usciva copioso più per orgoglio che per dolore. E sapevo che ferita dopo ferita in fondo le cicatrici creano una barriera inviolabile persino al più perseverante degli innamorati.
Ora ho cinquanta anni. Il mio principe l’ho trovato una mattina in un bar. Lui era lì che lavorava ed io ero entrata a prendere un caffè, dopo una notte passata in ufficio: anche allora confermai la vecchia abitudine di fare gli incontri importanti della mia vita quando ero paragonabile più a uno straccio che a un fazzoletto di seta. Ho anche due splendidi figli, un maschio ed una femminuccia, che mi ricordano nella loro adolescenza quando forti siano le sensazioni dei primi amori e quanto ti restino dentro, più tu cerchi di cacciarli via.
Non mi manca nulla. Ho una famiglia, un bel lavoro e una discreta situazione economica. Eppure io non ho mai smesso di ripensare a quella domenica mattina, a quel giorno in cui il mio piccolo cuore fu travolto da una passione che era insensata – come tutte le passioni – e sprofondò in un amore che sarebbe stato indelebile, una emozione di quelle che ti entrano dentro e non le distruggi nemmeno violentandoti l’anima, un dolore che sai di non poter mai cancellare, ma solo coprire con garze che ogni tanto devi bagnare perchè si imbevono di sangue che sgorga continuo da quella ferita. Lui per me è stato questo. Non l’ho più visto. Non l’ho più cercato e del resto non avrei mai più osato, dopo che la portiera mi aveva detto che era sposato.
Se solo avessi saputo la verità... se solo avessi saputo allora - e non quindici anni dopo - che in realtà quella bionda mozzafiato era davvero sua sorella, se solo lui avesse osato scendere giù a chiedermi perchè non mi facessi viva, invece di chiamare in continuazione ad un numero di telefono che era sbagliato, perchè la portiera non sapeva leggere e scrivere bene...
Se solo avessimo avuto un po’ più di coraggio entrambi...
Taci. Ovunque tu sia. Lo so. E’ inutile che urli dal profondo che non serve a nulla chiedersi ora "cosa sarebbe successo, 'se solo'...". Lo so che tutto questo non può cambiare il passato, nè cambiare il futuro.
Eppure, nel presente, questo solo ricordo mi scalda il cuore.
Quando firmai il contratto di affitto non avrei mai immaginato quanto sarebbe cambiata la mia vita. Se avessi saputo allora quello che so adesso credo che la mia stilografica avrebbe esitato nel comporre il mio nome su quella carta legale, lettera dopo lettera e avrebbe sbavato e tremato.
Lo incontrai per caso, un venerdì sera che la città era allagata da un temporale estivo ed io rientravo con qualche busta della spesa, stanca e sfatta per aver trascorso il pomeriggio fino alle otto in ufficio. Avevo i capelli in disordine ed un po’ bagnati, tirati su con una pinzetta, il trucco spiaccicato sopra gli occhi, il volto smunto oramai privo di fard. Il tailleur umido e stropicciato non faceva più lo stesso effetto della mattina. Per dirvela tutta, l’impressione che avevo avuto di me guardandomi tra le vetrine illuminate del centro commerciale era stata quella di una ragazza sciatta e insignificante.
Lo incontrai proprio quella sera, una di quelle sere che pensi di voler solo arrivare a casa, non incontrare nessuno e sprofondare nel letto a dormire fino a mezzogiorno del giorno dopo. Al contrario di me, lui era perfetto, in giacca e pantalone nero, camicia bianca e farfallino nero ed aveva sceso le scale in modo disinvolto e silenzioso, proveniente dal quarto piano, proprio nel momento in cui io ero abbassata verso il pavimento dell’ascensore, la borsa con la tracolla che continuava a cadermi dalla spalla impicciandomi le mani, le maniglie delle quattro borse della spesa che non volevano saperne di incastrarsi nelle mie dita e, quando ci riuscivano, si infilavano sotto gli anelli facendo male. In quella posizione un po’ fantozziana indietreggiai, spingendo con il sedere la porta dell’ascensore che minacciava di chiudersi, e mi bloccai solo quando vidi due scarpe lucide dietro di me ed i risvolti di un pantalone da uomo, mentre su, ai piani alti di quella figura, un suono simile ad una risata accompagnava la mia uscita trionfale dall’ascensore. “Ma no, non adesso...” pensai tra me e piano piano, nonostante l’accenno di un colpo della strega alla schiena, gli dimostrai che malgrado tutte le apparenze, appartenevo anche io alla specie dell’Homo Erectus.
Vi sarà capitato qualche volta di essere – come diceva mio padre – “malmostoso”, una parola che già di per sé evoca questo malore interno, questo fluido un po’ liquido, nerastro, in continuo fermento. E vi sarà capitato qualche volta – quando eravate in questo stato – di incontrare uno sguardo, che come una spugna aveva in sè il potere di lavare via quell’umore appiccicaticcio e malevolo per regalarvi un sorriso.
Fu così, come nei migliori film d’amore americani, come nella tradizione delle favole di Walt Disney (o della Pixar, dovrei dire?), che i miei occhi spaziarono dai piedi – che ad occhio dovevano calzare il quarantadue – alle gambe lunghe la cui muscolosità si lasciava solo immaginare dietro il pantalone nero, alla vita stretta ed alle spalle larghe. E finirono per incastrarsi sul viso più bello che io avessi mai potuto immaginare di incontrare, non solo in quella serata umida e triste, ma in tutta la mia vita. Il colore della pelle dimostrava che trovava il tempo per le lampade o era appena tornato dalle vacanze. La barba aveva appena subito una sconfitta dalla lama di un rasoio e si era ritirata sottopelle. Il naso puntava dritto all’insù e si collocava piccolo e discreto tra i due occhi grigi più belli che avessi mai avuto la possibilità di incrociare. A coronare il tutto capelli biondo principe, ciuffo compreso, sbuffato verso l’alto con un movimento veloce del labbro. Avete mai visto “Vi presento Joe Black”? Qualcuno di molto simile al misterioso e temibile compagno di Bill Parish era davanti a me, piccola fiammiferaia che aveva perso oramai anche l’ultimo fiammifero, per poter sperare di accendere una luce nella sua vita.
Certe fortune capitano una volta sola nella vita, direte.
No! Vi dico io. “Quella” fortuna mi capitò anche altri giorni, perchè il “signore” abitava esattamente al piano di sopra del mio dal giorno prima e sembrava single, celibe, libero... capite?
Io mi chiedo adesso cosa io avessi fatto di così male in tutta la mia vita, fino ai miei trentacinque anni, per meritare una disgrazia simile. So che molte di voi staranno lanciando anatemi e vorranno inveire contro di me, ma vi posso giurare che avere un essere simile al piano superiore e incontrarlo praticamente ogni giorno non può che essere alla fine considerata una disgrazia.
Perchè? Nessun problema la mattina, quando sei truccata, curata nei minimi particolari, con i vestiti stirati e in ordine e apri la porta e senti che qualcuno sta scendendo le scale: allora sei libera di girarti e sfoggiare il migliore sorriso del mondo, provare ad attaccare bottone cercando di rinfacciargli che la sera prima ha avuto ospiti e ha fatto tardi – mentre tu morivi dalla voglia di salire su e chiedere se potevi autoinvitarti alla festa. Hai certo le forze per scendere le scale con il tacco a spillo altezza dieci fingendo una disinvoltura che non è reale ed infine salutarlo con un sorriso sperando che ti chieda se sei libera la sera... Questi incontri sono davvero sporadici...
(Attenzione, sentite la musica di sottofondo? Non vi ricorda l’ultimo tragico Fantozzi?)
Ebbene sì... va sempre a finire che lo incroci quando hai aperto la porta in tuta, con i capelli bagnati e ricci – perchè non avevi voglia di asciugarli e passarli sotto la piastra – con il cestino dell’umido in mano, dal quale volano via un po’ di insetti perchè come al solito ti sei dimenticato di buttare il sacchetto con la frutta da una settimana.
Oppure lo incroci quando hai tolto le lenti a contatto per lavarti i capelli, ma devi precipitarti giù a riaccendere il contatore visto che hai acceso phon e lavatrice insieme e non hai il contratto “BIG” – del resto che ti serve a fare il contratto “BIG” se sei da sola? – e allora ti togli velocemente le lenti a contatto ma non vedi nulla e devi fare finta di vederci e scendi uno scalino dopo l’altro come se fossi Wanda Osiris che scende la scalinata, piano, lentamente e lui ti chiede: “Tutto bene?” e tu “Sì, grazie, ho solo male ad un piede...”
Eppure un giorno successe quello che non mi aspettavo, anche se è inutile dirvi che un po’ ci speravo...
Era una domenica di quelle che sei un po’ svogliata ma ti tiri comunque fuori dal letto, indossi la prima tuta che trovi, infili i pattini e decidi di andartene in giro per il Parco di fronte a casa. Successe mentre stavo chiudendo la porta e sinceramente quella volta non pensavo – come ogni volta – di incontrarlo. Ero ancora assonnata ed avevo finito il caffè, perciò avevo pensato di prendermelo al bar. Avevo il mio marsupio attaccato in vita, vi infilai le chiavi dopo avere chiuso la porta e mi girai sovrappensiero, trovandomi a cinque centimetri dal suo viso e dal grigio dei suoi occhi.
- Scusa... che sb.. che sbadata! - balbettai
- Ma dai, pattini?
- Sì... da.. da quando ero piccola...
- Sto andando a correre. Vuoi venire con me?
La mia testa disse di sì, mentre il cervello ancora cercava di svegliarsi ed il cuore era già partito, destinazione Paradiso. Eppure non avevo “i grilli in testa”, quella mattina davvero non pensavo a niente. Era successo così per caso e sempre per caso continuò. Fu così che quella domenica mattina pattinai per più di quattro ore, mentre lui correva e camminava e riprendeva a correre e camminava ancora, al punto che il giorno dopo non riuscivo nemmeno a muovere le gambe per scendere dal letto. Lui era davvero bello... il sole poi riusciva ad illuminare i suoi occhi in modo speciale, colorandoglieli di un po’ di azzurro. Sembrava così distante da me, dalla figura che avevo sempre immaginato come il mio principe. Era radioso, sprizzava felicità, allegria. E davanti al laghetto mi baciò, così, senza dire nulla... Stava correndo e ad un certo punto si fermò e mi tirò a sè e spiaccicò le labbra contro le mie, infilandomi la lingua in bocca e frugandomi con passione.
No, mi dicevo forsennatamente in testa mentre mi baciava... i principi non si presentano in questo modo... devono misurarti la scarpa e vedere se è della tua misura e per il primo bacio devi aspettare il giorno delle nozze, perchè lì si chiudono tutte le favole e non sai mai cosa succede dopo.... finchè mi arresi al suo abbraccio.
Inutile dire che la mia vita cambiò. Cambiò come può cambiare la vita di un rospo dopo che è baciato dalla principessa e diventa principe anche lui. Solo che qui era il principe che aveva dato il bacio e il rospo ero io. Non riuscivo a capacitarmi di quello che era successo, ma soprattutto non mi capacitavo del fatto che lui non si facesse sentire. Mi sembrava di essere tornata adolescente, ferma davanti al telefono muto, mentre lo implora di squillare e quando squilla resta delusa pronunciando le fatidiche parole “Ciao mamma... sì sto bene... tu e papà?”, perchè si sa che i genitori hanno quel sesto senso che li porta sempre a chiamare quando aspetti un’altra telefonata o quando mangi.
In queste situazioni la fantasia si scatena: sarà malato gravemente e non riuscirà ad alzarsi dal letto nemmeno per telefonarmi... sarà rimasto bloccato in ascensore... sarà andato via per lavoro... sarà... Certo, sarà un milione di cose diverse, finchè non lo vedi rientrare con una bella bionda al suo fianco, in pantaloncini bianchi, che mostra due gambe che la loro rotula arriva al tuo ombelico ed un sedere da brasiliana che ti rassicura sul fatto che Dio non è stato giusto con te.
Allora inizi a pensare: ma allora, io? E da lì a un secondo la fantasia riprende a scatenarsi: sarà sua sorella, è bionda come lui! Scopri dopo due giorni dalla portinaia che è sua moglie svedese appena rientrata in città dalle vacanze in patria.
Cosa vuoi dirgli? Nulla... in fondo tra di noi c’era stato solo un bacio e un bacio non è impegnativo...
No! Porca miseria, un bacio è un bacio: un bacio è un apostrofo rosa tra le parole “ti” e “amo”, un bacio è la promessa di un amore, un bacio è lo scambio più bello tra due anime... Non si bacia una qualunque, non si bacia la tua vicina del piano di sotto solo perchè ti fa pena sui suoi pattini con le gambette magre un po’ rachitiche e la pelle che comincia a raggrinzirsi... perchè in fondo ha trentacinque anni la tua vicina, non venticinque come quella bionda là che ti sta accanto.
Non so come abbia fatto a innamorarmi di lui per così poco, se poco è un bacio.
Non lo so. Innamorarmi è una parola grossa, ma come si chiama quel nodo allo stomaco che mi prendeva appena aprivo il portone di casa e speravo di incontrarlo? Come si chiama quella sensazione di vuoto che sentivo dentro di me quando chiudevo la porta di casa e non l’avevo incontrato? Come chiamavo quella frizzante energia che sentivo in me e che mi faceva presagire che sarebbe successo qualcosa e che si spegneva dopo ore quando c’era oramai la certezza che non sarebbe successo nulla? Non so come chiamarla, eppure sentivo tutto ciò nel cuore. Incrociare i suoi occhi quando capitava mi faceva ancora provare un tuffo al cuore. Correvo quando ero per strada e lo vedevo entrare nel portone non faceva solo venire il fiatone, ma mi riempiva di qualche strano borbottio allo stomaco. Passare le ore allo spioncino di casa per vederlo scendere non era normale. Allora cosa ero? Pazza, innamorata?
Mi ero lasciata illudere e non mi restava che leccarmi le ferite. Speravo solo che non sanguinassero troppo, anche se ero conscia che il sangue usciva copioso più per orgoglio che per dolore. E sapevo che ferita dopo ferita in fondo le cicatrici creano una barriera inviolabile persino al più perseverante degli innamorati.
Ora ho cinquanta anni. Il mio principe l’ho trovato una mattina in un bar. Lui era lì che lavorava ed io ero entrata a prendere un caffè, dopo una notte passata in ufficio: anche allora confermai la vecchia abitudine di fare gli incontri importanti della mia vita quando ero paragonabile più a uno straccio che a un fazzoletto di seta. Ho anche due splendidi figli, un maschio ed una femminuccia, che mi ricordano nella loro adolescenza quando forti siano le sensazioni dei primi amori e quanto ti restino dentro, più tu cerchi di cacciarli via.
Non mi manca nulla. Ho una famiglia, un bel lavoro e una discreta situazione economica. Eppure io non ho mai smesso di ripensare a quella domenica mattina, a quel giorno in cui il mio piccolo cuore fu travolto da una passione che era insensata – come tutte le passioni – e sprofondò in un amore che sarebbe stato indelebile, una emozione di quelle che ti entrano dentro e non le distruggi nemmeno violentandoti l’anima, un dolore che sai di non poter mai cancellare, ma solo coprire con garze che ogni tanto devi bagnare perchè si imbevono di sangue che sgorga continuo da quella ferita. Lui per me è stato questo. Non l’ho più visto. Non l’ho più cercato e del resto non avrei mai più osato, dopo che la portiera mi aveva detto che era sposato.
Se solo avessi saputo la verità... se solo avessi saputo allora - e non quindici anni dopo - che in realtà quella bionda mozzafiato era davvero sua sorella, se solo lui avesse osato scendere giù a chiedermi perchè non mi facessi viva, invece di chiamare in continuazione ad un numero di telefono che era sbagliato, perchè la portiera non sapeva leggere e scrivere bene...
Se solo avessimo avuto un po’ più di coraggio entrambi...
Taci. Ovunque tu sia. Lo so. E’ inutile che urli dal profondo che non serve a nulla chiedersi ora "cosa sarebbe successo, 'se solo'...". Lo so che tutto questo non può cambiare il passato, nè cambiare il futuro.
Eppure, nel presente, questo solo ricordo mi scalda il cuore.
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