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11 set 2017

Il libro dell'inquietitudine, Fernando Pessoa

"Voglio che la lettura di questo libro vi lasci l’impressione di avere attraversato un incubo voluttuoso."
Fernando Pessoa

Ho impiegato diverse settimane a leggere questo libro e ammetto che in alcuni momenti l'autore è perfettamente riuscito nel suo intento. Un incubo lo è stato per alcuni passaggi, per la descrizione precisa e reale della noia infinita delle giornate di Bernardo Soares, nella assoluta mancanza delle emozioni che attanaglia la sua vita. Eppure ci sono dei passaggi e interi capitoli di infinita bellezza e verità, dei quali vi concedo qualche squarcio...



Come dice l'autore,
Leggere è sognare per mano altrui.
Dunque, sognate pure!




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Il Libro dell'inquietudine è costituito da un'ibrida e innumerevole quantità di pagine scritte, «frammenti, tutto frammenti» come rivela Pessoa in una lettera. Pessoa non è riuscito a dare forma compiuta al suo lavoro. Tuttavia, aveva già abbozzato uno schema ed effettuato una prima selezione di testi da inserire in quello che avrebbe dovuto essere, nelle sue intenzioni, il libro definitivo. Fra i brani accolti e che, con molte probabilità, sarebbero entrati nell'edizione da dare alle stampe, ve ne sono alcuni che per il loro contenuto o, addirittura, per espressa indicazione del poeta portoghese, avrebbero potuto costituire – presumibilmente – l'Introduzione al volume, a firma di Bernardo Soares.
L'autore lo ha concepito ancor prima della nascita degli eteronomi Alberto Caeiro, Álvaro de Campos e Ricardo Reis, quando nel 1913 pubblica, con il nome di Fernando Pessoa "Nella foresta dell'alienazione", la prima prosa di finzione destinata al Libro dell'inquietudine. Poi, per molti anni, fino al 1929 il libro torna nell'ombra, sebbene Pessoa non abbia mai smesso di lavorarvi, senza tuttavia tracciarne un piano definitivo. Nel 1929 pubblica per la prima volta dal 1913 alcuni brani del Libro dell'inquietudine, attribuiti ora al semieteronimo Bernardo Soares. Nella lettera del 1935, inviata a Casais Monteiro, direttore di «Presença», Pessoa ne descrive la personalità e il carattere, come aveva fatto per gli altri eteronimi. Come spiega lo stesso Pessoa, Bernardo Soares non è un vero eteronimo, ma un semieteronimo, perché ha una personalità molto simile alla sua, seppure mutilata. Dunque, Bernardo Soares è una sorta di Fernando Pessoa a cui sia stato tolto qualcosa
Un libro di “confessioni”, una specie di diario esistenziale che, tuttavia, al di là di possibili, più o meno plausibili, definizioni di genere, ci si configura essenzialmente come diario dell'anima, una «autobiografia senza fatti», come la definisce lo stesso Bernardo Soares, che perscruta e narra, attraverso un interrogarsi e un indagare ansioso e tormentato, l'oscuro universo del subconscio che muove e determina le modalità di rapportarsi del protagonista – come di ognuno di noi – con il mondo esterno della cosiddetta realtà sensibile. Simbolista, specie nelle immagini evocate di paesaggi e stati d'animo, nell'abbandono alla suggestione dei sensi, nella mistica fusione con l'ignoto, nel rigetto dello storicismo romantico, per cui la vita non è più vista come divenire e creazione continua, ma come fantasmatica, casuale successione di attimi di rivelazioni improvvise, inframmezzati dal grigiore di un'esistenza quotidiana vana e senza scopo. Si veda, per esempio, il seguente passo di Bernardo di impressionante rievocazione intertestuale di alcune delle più suggestive immagini delle poesie di Camilo Pessanha, il maggior poeta simbolista portoghese.
(da Wikipedia)



Scrivo, triste, nella mia stanza quieta, solo come sempre sono stato, solo come sempre sarò. E penso se la mia voce, apparentemente così poca cosa, non incarni la sostanza di migliaia di voci, la fame di dirsi di migliaia di vite, la pazienza di milioni d’anime sottomesse come la mia al destino quotidiano, al sogno inutile, alla speranza senza fondamento

Vesti il tuo corpo dell’oro del meriggio morto, come un re deposto in un mattino di rose, con il maggio nelle nuvole bianche e il sorriso delle vergini nelle erme ville di campagna. La tua ansia muoia fra i mirti, il tuo tedio svanisca fra i tamarindi e il rumore dell’acqua accompagni tutto questo come un imbrunire in prossimità di rive, e porti il fiume, senza altro senso che quello di scorrere, eterno, verso maree lontane.

Considero la vita una locanda, dove devo fermarmi fino all’arrivo della diligenza dell’abisso. Non so dove mi condurrà, perché non so niente. Potrei considerare questa locanda una prigione, perché in essa sono costretto all’attesa; potrei considerarla un luogo in cui socializzare, perché qui mi ritrovo insieme ad altri. […] Mi siedo alla porta e imbevo i miei occhi e orecchi dei colori e dei suoni del paesaggio, e canto sommessamente, solo per me, vaghe canzoni che compongo nell’attesa. Per tutti noi scenderà la notte e arriverà la diligenza. Godo della brezza che mi è data e dell’anima che mi è stata data per goderla, e non mi pongo altre domande né cerco altro. Se ciò che lascerò scritto nel libro dei clienti, riletto un giorno da qualcuno, potrà intrattenerlo nel transito, andrà bene. Se nessuno lo leggerà, né si intratterrà, andrà ugualmente bene.

Considero la vita una locanda, dove devo fermarmi fino all’arrivo della diligenza dell’abisso. Non so dove mi condurrà, perché non so niente. Potrei considerare questa locanda una prigione, perché in essa sono costretto all’attesa; potrei considerarla un luogo in cui socializzare, perché qui mi ritrovo insieme ad altri. Non sono, però, né impaziente né spontaneamente naturale. Lascio a quello che sono, coloro che si chiudono nella stanza, mollemente sdraiati sul letto dove aspettano insonni; lascio a quello che fanno, coloro che conversano nelle sale, da dove musiche e voci giungono facilmente fino a me. Mi siedo alla porta e imbevo i miei occhi e orecchi dei colori e dei suoni del paesaggio, e canto sommessamente, solo per me, vaghe canzoni che compongo nell’attesa. Per tutti noi scenderà la notte e arriverà la diligenza. Godo della brezza che mi è data e dell’anima che mi è stata data per goderla, e non mi pongo altre domande né cerco altro. Se ciò che lascerò scritto nel libro dei clienti, riletto un giorno da qualcuno, potrà intrattenerlo nel transito, andrà bene. Se nessuno lo leggerà, né si intratterrà, andrà ugualmente bene.

Se scrivo ciò che sento è perché in tal modo diminuisco la febbre di sentire. Ciò che confesso non ha importanza: niente, del resto, ha importanza. Faccio paesaggi con ciò che sento. Faccio ferie delle sensazioni.

Queste confessioni sul modo di sentire sono i miei solitari. Non li interpreto, come chi usasse le carte per leggere il destino. Non li ascolto, perché nei solitari le carte non hanno propriamente valore. Mi srotolo come una matassa multicolore, o faccio con me figure di bassa letteratura, come quelle che si intrecciano intorno alle mani tenute diritte e si passano poi da un bambino all’altro. Faccio solo attenzione che il pollice non manchi il laccio giusto. Poi giro la mano e l’immagine è differente. E ricomincio.

E io sono così, futile e sensibile, capace di impulsi violenti e coinvolgenti; buoni e cattivi; nobili e vili; ma mai di un sentimento che perduri, mai di una emozione che continui e penetri nella sostanza dell’anima. Tutto in me tende ad essere poi un’altra cosa: una impazienza dell’anima verso se stessa, come verso un bambino inopportuno; una inquietudine sempre crescente e sempre uguale. Tutto mi interessa e nulla mi prende. Seguo tutto sognando sempre; fisso le minime contrazioni del viso di colui con cui parlo, colgo le intonazioni millimetriche del suo modo di dire; ma nell’udirlo, non lo ascolto, penso ad un’altra cosa, e quello che meno ho colto della conversazione è stata la nozione di ciò che è stato detto, da parte mia o da parte di colui con cui ho parlato. Così, a volte, ripeto a qualcuno ciò che già gli ho ripetuto, gli chiedo di nuovo ciò a cui lui ha già dato una risposta; ma posso descrivere, in quattro parole fotografiche, il sembiante muscolare con cui lui ha detto ciò che non ricordo, o l’inclinazione di udire con gli occhi con cui ha recepito la narrazione che non ricordavo di avergli fatto. Io sono due, e entrambi distanti – fratelli siamesi non congiunti.

Noi non ci realizziamo mai. Siamo due abissi – un pozzo che fissa il cielo.

Tutto ciò che sappiamo è una nostra impressione, e tutto quello che siamo è una impressione altrui, melodramma di noi che, sentendoci, veniamo a essere i nostri stessi spettatori attivi,

È forse arrivata l’ora che io faccia lo sforzo concreto di dare uno sguardo alla mia vita. Mi vedo nel mezzo di un deserto immenso. Parlo di quello che ieri letterariamente sono stato, cerco di spiegare a me stesso come sono arrivato fin qui.

Ho avuto grandi ambizioni e sogni sconfinati – ma questi li hanno avuti anche il garzone o la sartina, perché i sogni ce l’hanno tutti: ciò che ci differenzia è l’intensità per raggiungerli o il destino che li raggiunge per noi.

Varie volte, nel corso della mia vita oppressa dalle circostanze, mi è accaduto, quando voglio liberarmi da qualche loro groviglio, di vedermi improvvisamente accerchiato da altre dello stesso ordine, come se ci fosse definitivamente una inimicizia nei miei confronti nella tela incerta delle cose. Tiro via dal collo una mano che mi soffoca. Vedo che nella mano, con la quale ho tirato via l’altra, è rimasto impigliato un laccio che mi era caduto sul collo con il gesto di liberazione. Allontano, con precauzione, il laccio, ed è con le mie stesse mani che quasi mi strangolo.

Ci siano o no gli dèi, di essi siamo servi.

Dio è il nostro esistere e questo nostro non essere tutto.

La letteratura, che è arte coniugata al pensiero e realizzazione senza macchia della realtà, mi sembra che sia il fine cui dovrebbe tendere ogni sforzo umano, se fosse veramente umano, e non il superfluo della parte animale. Credo che nominare una cosa è conservarle il pieno valore e spogliarla del suo aspetto terrifico. I campi sono più verdi quando si descrivono che nel loro reale colore verde. I fiori, se saranno descritti con frasi che li definiscano sull’aria dell’immaginazione, avrebbero colori talmente persistenti, da essere introvabili nella vita naturale delle cellule. Muoversi è vivere, dirsi è sopravvivere. Non c’è niente di reale nella vita se non ciò che si è descritto bene. I critici della casa dalle ristrette vedute sono soliti sottolineare che la tal poesia, lungamente ritmata, in fondo, non vuol dire altro che il giorno è bello. Ma dire che il giorno è bello è difficile, e il giorno bello, perfino esso, passa. Dobbiamo, quindi, conservare il giorno bello in una memoria fiorita e prolissa, come anche costellare di nuovi fiori o di nuovi astri i campi o i cieli dell’esteriorità vuota e passeggera. Tutto è ciò che siamo, e tutto sarà, per coloro che ci seguiranno nella diversità del tempo, a seconda di come noi lo avremo immaginato, ossia, a seconda di come saremo veramente stati, con l’immaginazione inserita nel corpo. Non credo che la storia, nel suo grande panorama sbiadito, sia niente di più di un decorso di interpretazioni, un consenso confuso di testimonianze distratte. Il romanziere è noi tutti, e narriamo quando vediamo, perché vedere è complesso come tutto.

Guardo, come in una distesa al sole che irrompe fra le nuvole, la mia vita passata; e noto, con uno spasimo metafisico, che tutti i miei gesti più sicuri, le mie idee più chiare, e i miei propositi più logici, in fondo, non sono stati che una ubriacatura innata, una follia naturale, una immensa ignoranza. Non mi sono neppure recitato. Sono stato recitato. Sono stato, non l’attore, ma i suoi gesti. Tutto quello che sono stato, che ho fatto, che ho pensato, è una somma di subordinate, o una entità falsa che ho ritenuta mia, perché ho agito da essa verso l’esterno, al peso di circostanze che ho scambiato con l’aria che respiravo. Sono, in questo momento in cui mi sto vedendo, un improvviso solitario, che si ritrova esiliato nel luogo in cui si è sentito sempre cittadino. Nel più intimo di ciò che ho pensato non sono stato io.

Non sapere di sé è vivere. Sapere poco di sé è pensare. Sapere di sé, all’improvviso, come in questo momento lustrale, è avere in un attimo la nozione della monade intima, della parola magica dell’anima. Ma questa luce improvvisa brucia tutto, consuma tutto. Ci lascia nudi persino di noi stessi.

Non c’è niente di più errato del ritenere la morte simile al sonno. Perché dovrebbe esserlo se la morte non assomiglia al sonno? L’essenza del sonno è il destarsi da esso, ma dalla morte – suppongo – non ci si desta.

A me, quando vedo un morto, la morte sembra una partenza. Il cadavere mi dà l’impressione di un abito abbandonato. Qualcuno se ne è andato e non ha avuto bisogno di portare con sé quell’unico abito che indossava.

Cessa la pioggia, e di essa resta, per un momento, un pulviscolo di diamanti piccolissimi, come se, in alto, qualcosa come una grande tovaglia si scuotesse azzurramene da queste briciole. Si sente che parte del cielo si è già aperta.

In molti, poi, l’insignificanza e la piattezza della vita non sono una forma di scelta, o una naturale conformazione al non voluto, ma uno spegnimento dell’intelligenza di se stessi, una ironia automatica della conoscenza.

Mi accontento che la mia cella abbia vetri all’inferiate, e scrivo sui vetri, sulla polvere del necessario, il mio nome in lettere maiuscole, firma quotidiana del mio patto scritto con la morte.

Esiste una stanchezza dell’intelligenza astratta, che è la più spaventosa delle stanchezze. Non pesa come la stanchezza del corpo, né inquieta come la stanchezza della conoscenza emotiva. È un peso della coscienza del mondo, un non poter respirare con l’anima. Allora – come se il vento si abbattesse su di esse, come su delle nuvole – tutte le idee in cui abbiamo sentito la vita, tutte le ambizioni e i disegni su cui abbiamo fondato la speranza del nostro domani, si squarciano, si aprono, si allontanano, divenute ceneri di nebbia, stracci di ciò che non è stato ne avrebbe potuto essere. E dietro la sconfitta sorge, pura, la solitudine nera e implacabile del cielo deserto e stellato.

 

Vivere una vita priva di passioni ma colta, nella serenità delle idee, leggendo, sognando, e pensando di scrivere; una vita sufficientemente lenta per rimanere sempre ai margini del tedio, sufficientemente meditata per non imbattersi mai in esso. Vivere questa vita lontano dalle emozioni e dai pensieri; viverla solo nel pensiero delle emozioni e nell’emozione dei pensieri. Crogiolarsi al sole, beatamente, come un lago oscuro circondato di fiori. Mantenere, nell’ombra, quella nobile fierezza dell’individualità che consiste nel non insistere per nulla con la vita. Essere, nel volteggiare dei mondi dell’universo, come il pulviscolo floreale che un vento sconosciuto solleva nella brezza della sera, e il torpore dell’imbrunire lascia posare in un luogo a caso, indistinto tra cose maggiori. Essere questo con una conoscenza sicura, né allegra né triste, grato al sole per il suo brillio e alle stelle per la loro lontananza. Non essere di più, non avere di più, non volere di più… La musica del mendicante affamato, la canzone del cieco, la reliquia del pellegrino sconosciuto, i passi senza meta nel deserto del cammello privo di gobbe…

Tutto il male del romanticismo consiste nella confusione esistente tra ciò che ci è necessario e ciò che desideriamo. Tutti abbiamo bisogno di cose indispensabili alla vita, alla sua conservazione e al suo proseguimento; tutti desideriamo una vita più perfetta, una felicità piena, la realtà dei nostri sogni e […] È umano volere ciò di cui abbiamo necessità, ed è umano desiderare ciò che non ci è necessario ma che è per noi desiderabile. Il male consiste nel desiderare con uguale intensità ciò che è indispensabile e ciò che è desiderabile, soffrendo per non essere perfetti come se si soffrisse per la mancanza del pane. Il male romantico è questo: volere la luna come se esistesse il modo per ottenerla.

Potrebbe mai vibrare qualche anima con le mie parole? Le ascolta qualcuno al di fuori di me?

Tutti coloro che dormono sono di nuovo bambini. Forse perché nel sonno non si può fare del male e non ci si rende conto della vita, il più grande criminale, il più chiuso egoista mentre dorme è sacro, grazie ad una magia naturale. Non vedo nessuna sensibile differenza fra uccidere chi dorme e uccidere un bambino.

Tutti dormiamo. La vita intera è un sogno. Nessuno sa cosa fa, nessuno sa quel che vuole, nessuno sa cosa sa. Dormiamo la vita, eterni bambini del Destino. Per questo, se penso con questa sensazione, sento una smisurata e intensa tenerezza per tutta l’umanità infantile, per tutta la vita sociale dormiente, per tutti, per tutto.

Quando arriviamo all’alto eremo dei monti naturali abbiamo la sensazione del privilegio. Siamo più alti, in tutta la nostra statura, della cima dei monti. Il massimo della Natura, perlomeno in quel luogo, rimane sotto la suola delle nostre scarpe. Siamo, per posizione, sovrani del mondo visibile. Intorno a noi è tutto più basso: la vita è il pendio che scende, pianura che giace, di fronte all’elevazione e alla vetta che noi siamo. Tutto in noi è accidente e malizia e questa altezza che abbiamo, non ce l’abbiamo; in alto non siamo più alti della nostra altezza. È proprio quello che calchiamo, che ci innalza; ed è proprio grazie a quello rispetto a cui siamo più alti, che siamo alti. Si respira meglio quando si è ricchi; si è più liberi quando si è celebri; lo stesso possesso di un titolo nobiliare è un piccolo monte. Tutto è artificio, ma nemmeno l’artificio è nostro. Siamo saliti ad esso, o ci hanno condotto fino ad esso, o siamo nati nella casa del monte. Grande, però, è chi considera che dalla valle al cielo, o dal monte al cielo, la distanza che lo differenzia non fa differenza. Se il diluvio aumentasse, staremmo meglio sui monti. Ma se la maledizione di Dio fosse di fulmini, come quella di Giove, di venti come quella di Eolo, il riparo sarebbe quello di non essere saliti e la difesa sarebbe strisciare a terra.

Tra la vita e me c’è un vetro sottile. Per quanto io veda più nitidamente e comprenda la vita, non la posso toccare.

Non c’è nostalgia più dolorosa di quella delle cose che non sono mai state!

Ho sempre sofferto di più per la coscienza di soffrire che per la sofferenza di cui avevo coscienza.

Il vero saggio è colui che si prepara in modo tale che gli avvenimenti esterni lo alterino in minima parte. A tale scopo deve corazzarsi, cingendosi di realtà a lui più vicine dei fatti, attraverso le quali, i fatti gli arrivino alterati in sintonia con esse.

Oggigiorno ogni uomo, la cui statura morale e il cui valore intellettuale non siano di un pigmeo o di una persona rozza, ama, quando ama, di un amore romantico. L’amore romantico è l’ultimo prodotto di secoli e secoli di influenza cristiana; e, sia in relazione alla sua sostanza, che alla sequenza del suo sviluppo, lo si può far conoscere a chi non lo comprenda, paragonandolo ad una veste, o vestito, che l’anima o l’immaginazione confezionino per vestire le creature, che casualmente appaiano, e che lo spirito trovi adatto a loro. Ma ogni vestito, poiché non è eterno, dura quel che dura: e in poco tempo, sotto la veste dell’ideale che ci siamo creati e che si lacera, emerge il corpo reale della persona umana a cui l’abbiamo fatto indossare. L’amore romantico, quindi, è un percorso verso la disillusione. Non lo è, solo quando la disillusione, accettandolo sin dall’inizio, decide di cambiare ideale costantemente, di tessere costantemente, nei laboratori dell’anima, nuovi vestiti con cui costantemente rinnovare l’aspetto della creatura vestita da essi.

Non amiamo mai nessuno. Amiamo solo l’idea che ci facciamo di qualcuno. È un concetto nostro quello che amiamo: insomma, amiamo noi stessi.

Scrivere è dimenticare. La letteratura è il modo più gradevole di ignorare la vita. La musica culla, le arti visuali animano, le arti vive (come la danza e il teatro) divertono. La prima, però, si allontana dalla vita, facendone un sonno, le seconde, invece, non si allontanano dalla vita: le une perché fanno uso di formule visibili e dunque vitali, le altre perché vivono della stessa vita umana. Non è così per la letteratura. Questa simula la vita. Un romanzo è una storia che non è mai esistita e un dramma è un romanzo senza una narrazione. Una poesia è l’espressione di idee o di sentimenti in un linguaggio che nessuno usa, poiché nessuno parla in versi.

Che mi importa se nessuno legge quello che scrivo? Lo scrivo per distrarmi dal vivere e lo pubblico perché il gioco ha questa regola. Se domani si perdessero tutti miei scritti, soffrirei, ma, sono convinto, non con un dolore violento e folle come si potrebbe supporre, visto che tutta la mia vita era lì. Sicuramente no, poiché la madre pochi mesi dopo la morte del figlio, ride di nuovo e torna ad essere la stessa. La grande terra che serve il morto servirebbe, meno maternamente, questi scritti. Niente è importante, e sono sicuro che sia esistito chi ha considerato la vita, senza possedere molta pazienza con quel bambino sveglio, e abbia desiderato molto la quiete di quando il piccolo, alla fine, è andato a dormire.

Eterni viandanti di noi stessi, non esiste altro paesaggio se non quello che siamo. Non possediamo nulla, perché non possediamo neppure noi stessi. Non abbiamo niente perché non siamo niente. Verso quale universo potrei mai tendere la mano? L’universo non è mio: sono io.

Ogni anima degna di sé desidera vivere la vita in modo Estremo. Accontentarsi di ciò che viene dato è proprio degli schiavi. Chiedere di più si addice ai bambini. Conquistare di più si addice ai pazzi,

Non mi indigno, perché l’indignazione è dei forti; non mi rassegno, perché la rassegnazione è dei nobili; non taccio, perché il silenzio è dei grandi. E io non sono né forte, né nobile né grande. Soffro e sogno. Mi lamento, perché sono debole e, poiché sono un artista, mi diverto a rendere musicali i miei lamenti e ad arrangiare i miei sogni sulla base di quella che ritengo sia la loro migliore idea di bellezza. Mi spiace solo di non essere bambino, per poter credere ai miei sogni; di non essere pazzo per potermi allontanare dall’anima di tutti coloro che mi circondano.

Condillac inizia così il suo celebre libro: «Per quanto più in alto possiamo salire e per quanto più in basso possiamo scendere, non usciamo mai dalle nostre sensazioni». Non sbarchiamo mai da noi stessi.

Ho più pena di coloro che sognano il probabile, il legittimo e la cosa vicina di quanta non ne abbia di quelli che vaneggiano sul distante e sulle cose estranee. Quelli che sognano in grande, o sono pazzi e credono in quello che sognano e sono felici, o sono semplici vaneggiatori, per i quali il vaneggiamento è una musica dell’anima che li culla senza dir loro niente. Ma per colui che sogna il possibile esiste la possibilità reale di una vera e propria disillusione. Può non pesarmi molto aver smesso di essere imperatore romano, ma mi può far male non avere mai parlato alla sartina che verso le nove, svolta sempre l’angolo sulla destra. Il sogno che ci promette l’impossibile già per ciò stesso ci priva di sé, ma il sogno che ci promette il possibile si intromette nella vita stessa e ad essa delega la propria soluzione. L’uno vive esclusivo e indipendente; l’altro sottomesso alle contingenze di ciò che accade.

Alcuni hanno un grande sogno nella vita e mancano a quel sogno. Altri nella vita non hanno nessun sogno, e mancano anche a quello.

Non posso fare a meno di scrivere. Scrivere è come la droga che rifiuto ma prendo, il vizio che disprezzo ma nel quale vivo. Ci sono veleni necessari, e ve ne sono di sottilissimi, composti da ingredienti dell’anima, erbe raccolte nei recessi delle rovine dei sogni, papaveri neri trovati accanto alle tombe dei propositi, lunghe foglie di alberi osceni che agitano i rami sulle rive ascoltate degli infernali fiumi dell’anima.

Un giorno che non so, mi sono ritrovato su questo mondo, e fino ad allora, evidentemente da quando ero nato, avevo vissuto senza sentire. Quando ho chiesto dove ero, tutti mi hanno ingannato e tutti si contraddicevano. Quando ho chiesto di dirmi cosa avrei dovuto fare, tutti mi hanno parlato in modo falso e ognuno mi ha detto una cosa diversa. Quando mi sono fermato sulla strada, perché non sapevo dove andare, tutti si sono meravigliati del fatto che non proseguissi verso il luogo in cui nessuno sapeva cosa vi fosse, o non tornassi indietro – io che, sveglio all’incrocio, non sapevo da dove ero venuto. Ho visto che stavo su un palco e non conoscevo la parte che gli altri recitavano senza esitare, sebbene neanche loro la conoscessero. Ho visto che ero vestito da paggio e non mi hanno dato la regina incolpandomi di non averla. Ho visto che avevo in mano il messaggio da consegnare e quando ho detto loro che il foglio era bianco, hanno riso di me. E non so ancora se hanno riso perché tutti i fogli sono bianchi, o perché tutti i messaggi si possono intuire. Alla fine mi sono seduto sulla pietra all’incrocio come al focolare che mi è mancato. E ho cominciato, fra me e me, a fare barchette di carta con la menzogna che mi avevano propinato. Nessuno ha voluto credermi, neppure come bugiardo, e non avevo un lago in cui poter provare la mia verità. Parole oziose, perdute, metafore sciolte, che una vaga angoscia incatena a ombre… Vestigia di ore migliori, vissute non so dove, in viali… Lampada spenta il cui oro brilla nell’oscurità attraverso il ricordo della luce spenta… Parole affidate, non al vento, ma alla terra, fatte scivolare dalle dita senza presa, come foglie secche cadute su di esse da un albero invisibilmente infinito… Nostalgia delle fontane delle ville altrui… Tenerezza di ciò che non accadde mai… Vivere! Vivere! E almeno l’ipotesi che forse nel letto di Proserpina dormirei bene.

Esistono metafore più reali delle persone che camminano per strada. Vi sono immagini nelle pieghe nascoste dei libri che vivono più limpidamente di molti uomini e molte donne. Vi sono frasi letterarie che posseggono un’individualità assolutamente umana.

Se un giorno potessi raggiungere una forza tale di espressione da concentrare tutta l’arte in me, scriverei un’apoteosi del sonno. Non ho mai conosciuto in tutta la mia vita un piacere maggiore di quello di poter dormire. L’annullamento integrale della vita e dell’anima, l’allontanamento totale di tutto quanto è gente ed esseri, la notte senza memoria e senza illusione, il non avere né passato né futuro.

Ciò che desidero davvero, nel più profondo della mia anima, è che finiscano le nuvole atone che insaponano di grigio il cielo; quello che voglio è vedere l’azzurro che inizia a sorgere fra esse, verità certa e chiara perché niente è e niente vuole.

Tutti i fatti sgradevoli che ci succedono nella vita – ridicole figure che facciamo, brutti gesti, errori di una qualsiasi virtù in cui cadiamo – devono essere considerati come semplici accidenti esterni, insufficienti a intaccare la sostanza dell’anima. Consideriamoli come un mal di denti, o un dolore ai calli, della vita, cose che ci danno fastidio ma che sono esteriori sebbene nostre, o che devono presupporre solo la nostra esistenza organica o preoccuparsi di quanto esiste di vitale in noi. Quando arriviamo ad avere questo atteggiamento che, in un modo diverso, è quello dei mistici, siamo protetti non solo dal mondo ma anche da noi stessi, poiché vinciamo ciò che è esterno a noi, che è di altri, che è il contrario di noi e perciò è il nostro nemico. Parlando dell’uomo giusto, Orazio ha affermato che costui resterebbe impavido anche se il mondo crollasse intorno a lui. L’immagine è assurda, ma il senso è giusto. Anche se intorno a noi crollasse quello che fingiamo di essere, perché con esso coesistiamo, dobbiamo restare impavidi – non per essere giusti, ma perché siamo noi, ed essere noi stessi non ha niente a che vedere con questi fatti esteriori che precipitano, anche se crollano sopra a ciò che siamo per essi. La vita, per i migliori, deve essere un sogno che si sottrae al confronto.

Saggio è colui che rende monotona l’esistenza, perché allora ogni piccolo accidente possiede il privilegio della meraviglia.

Nella vita attuale il mondo appartiene solo agli stupidi, agli insensibili e agli agitati. Il diritto a vivere e trionfare oggi si conquista quasi con gli stessi requisiti con cui si ottiene il ricovero in manicomio: l’incapacità di pensare, l’amoralità e l’iper-eccitazione.

Scendi lieve, fine del giorno certo, in cui chi crede e erra si accinge al lavoro abituale e prova, nel suo stesso dolore, la felicità dell’incoscienza. Scendi lieve, onda di luce esausta, malinconia della sera inutile, foschia senza nebbia che entra nel mio cuore. Scendi lieve, soave, indefinito pallore lucido e azzurro della sera acquatica – leggero, soave, triste sulla terra semplice e fredda. Scendi lieve, cenere invisibile, monotonia dolente, tedio senza torpore.

Certi dicono che senza speranza la vita è impossibile, altri che con la speranza è vuota. Per me, che oggi non spero e non dispero, è un semplice quadro esteriore, che include me stesso e a cui assisto come a uno spettacolo senza trama, fatto solo per far divertire gli occhi – un balletto senza senso, un muoversi di foglie al vento, nuvole a cui la luce del sole fa cambiare colore, vecchie strade tracciate, casualmente, in punti insoliti della città.

C’è una grande stanchezza nell’anima del mio cuore. Mi intristisce colui che non sono mai stato e non so che specie di nostalgia sia il ricordo che ho di lui. Sono caduto addosso alle speranze e alle certezze, con tutti i tramonti.

Sono i sentimenti assurdi, le emozioni più intense, a fare più male – l’ansia di cose impossibili, proprio perché impossibili, la nostalgia di quello che non è mai stato, il desiderio di ciò che sarebbe potuto essere, la tristezza di non essere un altro, l’insoddisfazione dell’esistenza del mondo. Tutti questi mezzi toni della coscienza dell’anima creano in noi un paesaggio dolente, un eterno tramonto di ciò che siamo. Sentire noi stessi diventa allora un campo deserto che si oscura, con tristi giunchi sulle rive di un fiume senza barche, che nereggiano nitidamente fra i margini distanti.

Il tempo! Il passato! Allora qualcosa, una voce, un canto, un profumo occasionale nella mia anima alza il sipario dei miei ricordi… quello che sono stato e mai più sarò! Quello che ho avuto e mai più avrò! I morti! I morti che mi hanno amato nella mia infanzia. Quando li ricordo, tutta l’anima mi rabbrividisce e io mi sento esiliato dai cuori, solo nella notte di me stesso, mentre piango come un mendicante il silenzio chiuso di tutte le porte.

Ogni autunno che arriva è più vicino all’ultimo autunno che avremo, e lo stesso accade con l’estate o con la canicola; ma l’autunno ricorda, per quello che è, la fine di tutto, mentre durante il calore estivo, è facile vedere che lo dimentichiamo. Non è ancora autunno, nell’aria non c’è ancora il giallo delle foglie cadute o la tristezza umida del tempo che più tardi si farà inverno. Ma c’è una traccia di tristezza anticipata, un dolore indossato per il viaggio, nel sentimento in cui siamo vagamente attenti ai diffusi colori delle cose, al tono diverso del vento, alla quiete più grande che, quando scende la notte, si diffonde nella presenza inevitabile dell’universo.

Sì, è l’inizio dell’autunno che porta nell’aria e nella mia anima quella luce senza sorriso che orla di giallo spento la rotondità confusa delle scarse nuvole di ponente. Sì, è l’inizio dell’autunno e, nell’ora limpida, della coscienza chiara dell’anonima insufficienza di tutto. L’autunno, sì, l’autunno, quello che esiste o che esisterà, e la fatica anticipata di ogni gesto, la disillusione anticipata di ogni sogno.

Tutto quello che ho pensato, tutto quello che ho sognato, tutto ciò che ho fatto o non ho fatto – tutto se ne andrà in autunno, come i fiammiferi usati che ricoprono il pavimento in ogni direzione, o i fogli accartocciati a forma di finta palla, o i grandi imperi, tutte le religioni, le filosofie con cui, mentre le facevano, hanno giocato i bambini addormentati dell’abisso. Tutto quello che è stato la mia anima, da tutto ciò a cui ho aspirato, fino alla semplice casa in cui abito, dagli dèi che ho avuto, fino al principale Vasques che anche io ho avuto, tutto se ne va in autunno, tutto in autunno, nella tenerezza indifferente dell’autunno. Tutto in autunno, sì, tutto in autunno…

Nuvole… Sono come me, un passaggio cancellato fra il cielo e la terra, che segue un impulso invisibile, tuonando o non tuonando, che si rallegrano bianche o si scuriscono nere, finzioni dell’intervallo e dello sviamento, lontano dal rumore della terra e senza il silenzio del cielo. Nuvole… Continuano a passare, continuano sempre a passare, passeranno sempre di continuo, in un avvolgimento discontinuo di matasse opache, in un diffuso prolungamento di falso cielo disfatto.

Un’altra volta ho ritrovato un mio brano, scritto in francese, su cui erano già trascorsi quindici anni. Non sono mai stato in Francia, non ho mai avuto a che fare con francesi, dunque, di tale lingua non ho mai fatto quella pratica da cui ora possa essermi disabituato. Oggi leggo molto in francese, come ho sempre fatto. Sono più vecchio, sono più pratico nel pensiero: dovrei aver fatto dei progressi. E quel brano del mio lontano passato dimostra una dimestichezza nell’uso del francese che oggi non possiedo; lo stile è fluido, come oggi in quell’idioma non lo potrei avere; vi sono brani interi, frasi complete, forme e modi di esprimersi che mettono in rilievo una padronanza di quella lingua da cui mi sono allontanato senza che mi ricordassi di possederlo. Come si spiega questo? A chi mi sono sostituito dentro di me? So bene che è facile costruire una teoria della fluidità delle cose e delle anime, comprendere che siamo un passaggio interiore della vita, immaginare che ciò che siamo sia una grande quantità, che passiamo attraverso di noi, che siamo stati molti… Ma qui c’è una cosa diversa dal semplice scorrere della personalità tra le proprie sponde: c’è l’altro assoluto, un essere estraneo che è stato mio. Che con l’avanzare degli anni possa perdere l’immaginazione, l’emozione, un certo tipo di intelligenza, una maniera di sentire – tutto questo, pur provocandomi dolore, non mi meraviglierebbe. Ma a cosa assisto quando mi leggo come un estraneo? Su quale sponda mi trovo se mi vedo sul fondo? Altre volto ritrovo dei brani che non ricordo di aver scritto – cosa di cui c’è poco da meravigliarsi –, ma che non ricordo neanche di aver potuto scrivere – il che mi spaventa. Certe frasi sono di un’altra mente. È come se trovassi un vecchio ritratto, indubbiamente mio, con una statura diversa, con dei lineamenti sconosciuti – ma indiscutibilmente mio, spaventosamente io.

Il rumore della pioggia che aumenta allevia da ogni cosa, come le lacrime.

Non è la morte ciò che voglio e neppure la vita: è quella cosa diversa che brilla in fondo all’ansia come un diamante possibile in una fossa in cui non si può scendere.

Considero il verso come una cosa intermedia, un passaggio dalla musica alla prosa. Come la musica, il verso è limitato da leggi ritmiche che, senza essere le rigide leggi del verso regolare, esistono come difesa, coercizioni, dispositivi automatici di oppressione e castigo. Nella prosa parliamo liberamente. Possiamo includervi ritmi musicali e, tuttavia, pensare. Possiamo includervi ritmi poetici e, comunque, restarne fuori.

Leggere è sognare per mano altrui.

L’arte è un sottrarsi all’azione o alla vita. L’arte è l’espressione intellettuale dell’emozione, distinta dalla vita, che è l’espressione volitiva dell’emozione. Ciò che non abbiamo o non osiamo, o non otteniamo, possiamo possederlo nel sogno ed è con tale sogno che facciamo arte. Altre volte l’emozione è forte a tal punto che, pur ridotta ad azione, l’azione a cui si è ridotta, non la soddisfa; con l’emozione restante, rimasta inespressa nella vita, si forma l’opera d’arte. Così esistono due tipi di artisti: coloro che esprimono ciò che non hanno e coloro che esprimono quello che è restato di quanto hanno avuto.

La fine degli ideali classici ha reso tutti dei possibili artisti e, dunque, cattivi artisti. Quando il criterio dell’arte era la solida costruzione, l’attenta osservanza delle regole – pochi potevano tentare di essere artisti, e la maggior parte di costoro sono molto buoni. Ma quando si è iniziato a considerare l’arte da espressione di creazione a espressione di sentimenti, ognuno poteva essere artista, perché tutti hanno dei sentimenti.

Più di una volta, mentre di pomeriggio passeggiavo lentamente per strada, ha pulsato nella mia anima, con una violenza improvvisa che mi ha stordito, la stranissima presenza dell’organizzazione delle cose. Non sono esattamente le cose naturali che tanto mi toccano, che così potentemente mi danno questa sensazione: sono piuttosto gli allineamenti delle vie, le insegne, le persone vestite e che parlano, il lavoro, i giornali, l’intelligenza di tutto. O meglio, è il fatto che esistano allineamenti di strade, insegne, lavori, uomini, società che si intendono e vanno avanti e aprono strade. Osservo direttamente l’uomo e vedo che egli è incosciente come un cane o un gatto; parla con una incoscienza di un’altra categoria; si organizza in società con una incoscienza di altro tipo, assolutamente inferiore a quella che usano le formiche e le api nella loro vita sociale. E allora, più che dall’esistenza di organismi, più che dall’esistenza di rigide leggi fisiche e intellettuali, emerge da una luce evidente l’intelligenza che crea e impregna il mondo. Allora, ogni volta che provo questo, sento risuonare in me l’antica frase di non so quale scolastico: Deus est anima brutorum, Dio è l’anima dei bruti. Così l’autore della meravigliosa frase ha voluto spiegare la sicurezza con cui l’istinto guida gli animali inferiori, in cui non si ravvisa intelligenza o al massimo solo un suo accenno. Ma tutti siamo animali inferiori – parlare e pensare sono solo nuovi istinti, meno sicuri degli altri perché nuovi. E la frase dello scolastico, tanto giusta nella sua bellezza, si amplia e dico, Dio è l’anima di tutto. Non ho mai capito come, chi una volta ha considerato questo grande fatto dell’orologeria universale, potesse negare l’orologiaio in cui lo stesso Voltaire ha creduto. Capisco che, visti certi fatti apparentemente deviati da un piano (e sarebbe necessario conoscere il piano per sapere se siano deviati) si attribuisca a tale intelligenza suprema qualche elemento di imperfezione. Questo lo capisco, anche se non lo accetto. Capisco anche che, considerato il male che c’è nel mondo, non si possa accettare la bontà infinita di questa intelligenza creatrice. Lo capisco, anche se non accetto neppure questo. Ma che si neghi l’esistenza di questa intelligenza, ossia, di Dio, è una cosa che mi sembra una di quelle stupidità che spesso affliggono, in un punto dell’intelligenza, uomini che in tutti i loro altri punti, possono essere superiori; come coloro che sbagliano sempre la somma, oppure, e qui mettendo già in gioco l’intelligenza della sensibilità, coloro che non sentono la musica, o la pittura o la poesia. Non accetto, ho detto, né il criterio dell’orologiaio imperfetto né quello dell’orologiaio senza benevolenza. Non accetto il criterio dell’orologiaio imperfetto perché quei particolari del governo e dell’accordo del mondo, che ci sembrano lapsus o cose irragionevoli, non si possono davvero dare come tali senza conoscere il piano.

Per quanto ci spogliamo degli abiti, non arriviamo mai alla nudità, perché la nudità è un fenomeno dell’anima e non dell’atto di togliersi il vestito. Così, vestiti di corpo e anima, con i nostri abiti multipli incollati a noi come piume di uccelli, viviamo felici o infelici, o persino senza sapere chi siamo, il breve spazio che gli dèi ci offrono per divertirci, come bambini che prendono sul serio i giochi.

 

Il pensiero può essere elevato senza avere l’eleganza, ma, nella misura in cui non avrà eleganza, gli verrà meno la capacità di agire sugli altri.

Le parole per me sono corpi tangibili, sirene visibili, sensualità incorporate.

Come tutti i grandi innamorati, mi piace le deliziosa perdita di me, quando si sente interamente il piacere del darsi. E così, spesso, scrivo senza voler pensare, in un sogno esteriore, lasciando che le parole mi facciano festa, bambino piccolo in braccio a loro. Sono frasi senza senso, che scorrono morbide, in una fluidità di acqua sentita, dimenticando il ruscello in cui le onde si mescolano e si rendono indefinite, diventando sempre altre, succedendo a se stesse. Così le idee, le immagini, tremanti di espressione, mi passano accanto in cortei sonori di sete leggere, dove il chiaro di luna di un’idea luccica, macchiato e confuso.

L’arte consiste nel far sentire agli altri quello che sentiamo, nel liberarli da loro stessi, proponendo loro la nostra personalità come liberazione speciale. Quello che sento, nella vera sostanza con cui lo sento, è assolutamente incomunicabile; e tanto più è incomunicabile, quanto più profondamente lo sento. Dunque, perché io possa trasmettere a un altro ciò che sento, devo tradurre i miei sentimenti nel suo linguaggio, cioè, dire tali cose come fossero quelle che sento, in modo che lui, leggendole, senta esattamente quello che ho sentito io. E siccome questo altro è, nell’ipotesi artistica, non questa o quella persona, ma tutte le persone, cioè quella persona che è comune a tutte le persone, in fondo quello che devo fare è convertire i miei sentimenti in un sentimento umano tipico, pur pervertendo la vera natura di quello che ho sentito.

Esistono solo due grandi forme di arte – una indirizzata alla nostra anima profonda, l’altra indirizzata alla nostra anima attenta. La prima è la poesia, il romanzo la seconda.

Il tedio… In fondo, forse è l’insoddisfazione dell’anima intima per non averle dato un credo, la desolazione del bambino triste che siamo intimamente, per non avergli comprato il giocattolo divino. Forse è l’insicurezza di chi ha bisogno di una mano che lo guidi e, nel percorso nero della sensazione profonda, non sente niente altro che la notte silenziosa di non potere pensare, la strada senza nulla di non sapere sentire…

L’olfatto è una vista strana. Evoca paesaggi sentimentali attraverso il disegno improvviso del subconscio. L’ho sentito molte volte. Passo per una strada. Non vedo niente, o meglio, guardando tutto, vedo come vedono tutti. So che passo per una strada e non so che essa ha dei lati fatti di case diverse e costruite da persone umane. Passo per una strada. Da una panetteria esce un profumo di pane che per quanto è dolce dà la nausea: e la mia infanzia allora compare da un determinato quartiere distante, e un’altra panetteria mi appare da quel regno di fate che è tutto quello che ci è morto. Passo per una strada. Profuma improvvisamente di frutta disposta sul ripiano inclinato dell’angusta bottega; e la mia breve vita di campagna, non so più quando e dove, ha alberi alla fine e tranquillità nel mio cuore, indiscutibilmente bambino. Passo per una strada. Mi frastorna, senza che me lo aspetti, l’odore di cassette del falegname: oh, mio Cesário! Mi appari e io sono finalmente felice, perché sono tornato, con il ricordo, all’unica verità, che è la letteratura.

L’arte ci libera illusoriamente dalla sordidezza di essere. Mentre sentiamo i mali e le ingiurie di Amleto, principe di Danimarca, non sentiamo i nostri – vili perché sono nostri e vili perché sono vili. L’amore, il sonno, le droghe e le sostanze tossiche sono forme elementari dell’arte, o piuttosto, sono modi di riprodurne lo stesso effetto. Ma l’amore, il sonno e le droghe hanno ognuno la loro disillusione. L’amore stanca o disillude. Dal sonno ci si sveglia e quando abbiamo dormito non abbiamo vissuto. Le droghe si pagano con il decadimento di quello stesso fisico al quale esse sono servite da stimolo. Ma nell’arte non esiste disillusione, perché sin dall’inizio è stata inclusa l’illusione. Dall’arte non ci si deve risvegliare, perché in essa non abbiamo dormito, anche se abbiamo sognato. Nell’arte non c’è un tributo o una multa da pagare per averne goduto. Il piacere che essa ci offre, dato che in un certo senso non è nostro, non lo dobbiamo pagare e non dobbiamo neanche pentircene. Si deve intendere come arte tutto quello che ci delizia senza essere nostro – la traccia del passaggio, il sorriso fatto ad altri, il tramonto, la poesia, l’universo oggettivo. Possedere è perdere. Sentire senza possedere è custodire, perché significa estrarre da una cosa la sua essenza.

La maggioranza degli uomini vive con spontaneità una vita fittizia ed estranea. La maggioranza delle persone sono altre persone, ha detto Oscar Wilde, e ha detto bene. Certi sprecano la vita alla ricerca di qualcosa che non vogliono; altri si dedicano alla ricerca di ciò che desiderano e non serve loro; altri ancora, si perdono […] Ma la maggioranza è felice e si gode la vita a prescindere da questo.

Tutto quello che accade dove viviamo, accade dentro di noi. Tutto ciò che cessa in quello che vediamo, cessa dentro di noi. Tutto ciò che è stato, se lo abbiamo visto quando c’era, quando è partito è stato sottratto a noi.

O notte dove le stelle mentono luce, o notte, unica cosa della grandezza dell’Universo, fammi diventare, anima e corpo, parte del tuo corpo, perché mi perda come pura tenebra e divenga anche io notte, senza sogni che siano stelle in me, né sole atteso che illumini dal futuro.

Ci sono giorni che sono filosofie, che ci insinuano interpretazioni della vita, come note a margine, dense di acuta critica, nel libro del nostro destino universale.

Libertà è possibilità di isolamento. Sei libero se puoi allontanarti dagli uomini, senza che la necessità di denaro, o la necessità gregaria, o l’amore, o la gloria, o la curiosità che, nel silenzio e nella solitudine non possono avere alimento, ti obblighino a cercarli. Se per te è impossibile vivere solo, sei nato schiavo. Puoi avere tutta la grandezza dello spirito, dell’anima: sei uno schiavo nobile, o un servo intelligente: non sei libero. E la tragedia non è in te, perché la tragedia di essere nato così non è in te, ma è solo del Destino. Povero te, però, se l’oppressione della vita, proprio essa, ti costringe ad essere schiavo. Povero te se, nato libero, capace di bastare a te stesso e di separarti, la penuria ti costringe a convivere. Questa, sì, è la tua tragedia ed è quella che porti con te. Nascere libero è la maggior grandezza dell’uomo, fatto che rende l’eremita superiore ai re e anche agli dèi, che bastano a se stessi per la forza, ma non per il disprezzo della forza.

Amiamo la perfezione, perché non la possiamo avere; la rifiuteremmo, se ce l’avessimo. Il perfetto è il disumano, perché l’umano è imperfetto.

Per poter ottenere la perfezione sarebbe necessaria una freddezza esteriore all’uomo e allora non ci sarebbe cuore di uomo capace di amare la propria perfezione. Ci stupiamo, amandola, della tensione verso la perfezione dei grandi artisti. Amiamo la loro prossimità al perfetto, però la amiamo perché è solo prossimità.

L’unica maniera per avere nuove sensazioni è costruirti una nuova anima. Il tuo è uno sforzo inutile, se vuoi sentire cose diverse senza sentirti diverso, e sentirti diverso senza cambiare anima. Perché le cose sono come noi le sentiamo – da quanto tempo lo sai senza saperlo? – e l’unico modo per avere nuove cose, è che sia nuova la maniera di sentirle. Cambia anima. Come? Scoprilo tu. Da quando veniamo al mondo fino al momento di morire, la nostra anima, come il corpo, cambia lentamente. Trova il modo di rendere rapido questo cambiamento, perché come in talune malattie o in certe convalescenze, il corpo si modifica rapidamente.

Tutti possiamo essere spregevoli. Ognuno di noi porta con sé un crimine commesso o un crimine che l’anima gli chiede di commettere.

L’entrata dell’autunno vero e proprio era poi annunciata dal freddo di un’aria non ancora fredda, da un attenuarsi dei colori che tuttavia non erano ancora sbiaditi, da un qualcosa di umbratile e di evanescente in ciò che era stato il tono del paesaggio e l’aspetto disperso delle cose. Niente ancora era in procinto di morire, ma tutto, quasi come in un sorriso che ancora mancava, si mutava in nostalgia verso la vita.

L’autunno che ho adesso è quello che ho perduto.

Mi ha sempre preoccupato, in quelle ore occasionali di distacco in cui prendiamo coscienza di noi stessi come individui che siamo altri per gli altri, immaginare la figura che farei fisicamente, e perfino moralmente, di fronte a coloro che, tutti i giorni o per caso, mi osservano e mi parlano. Siamo tutti abituati a considerarci principalmente come delle realtà mentali, e nei confronti degli altri direttamente come realtà fisiche; in modo vago ci consideriamo come persone fisiche agli occhi degli altri; in modo vago consideriamo gli altri come realtà mentali, ma solo in amore o nelle situazioni conflittuali prendiamo davvero coscienza che gli altri hanno soprattutto un’anima, come noi stessi ce l’abbiamo per noi stessi. Per questo, a volte mi perdo in un’immaginazione futile su che tipo di persona sono per gli altri che mi vedono, come è la mia voce, che tipo di figura lascio impressa nella memoria involontaria degli altri, in che modo i miei gesti, le mie parole, la mia vita apparente, si fissano sulla retina dell’interpretazione altrui. Non sono mai riuscito a vedermi dal di fuori. Non c’è specchio che ci rimandi a noi come persone viste dal di fuori, perché non c’è specchio che ci tiri fuori da noi stessi. Sarebbe stata necessaria un’altra anima, un altro punto di vista e un altro modo di pensare. Se fossi un attore di lungo corso di cinema, o registrassi in dischi nitidamente udibili la mia voce chiara, sono certo che sarei ugualmente lungi dal conoscere ciò che io sono dall’altro lato, poiché, lo si voglia o no, qualsiasi cosa si possa registrare di me, io rimango sempre qui dentro, nella casa di campagna dagli alti muri della mia coscienza di me.

La vita è un gomitolo che qualcuno ha aggrovigliato. C’è un senso in essa, se è srotolata e distesa o avvolta bene. Ma, così com’è, è un problema senza un suo proprio rocchetto, un avvolgersi senza un dove avvolgersi.

E noi sempre le stesse vetrate, colorati quando il sole batterà su di noi, con i nostri contorni quando scenderà la notte… I secoli non toccheranno il nostro silenzio vitreo…

Rimarremo ancora, non so come, non so dove, non so per quanto tempo, eterne vetrate, Ore di ingenuo disegno dipinto da un qualche artista che dorme da molto tempo in un tumulo gotico, dove due angeli a mani giunte gelano in marmo l’idea della morte.

Le cose sognate hanno solo il lato di qua… Non si può vedere il loro lato opposto… Non si può girare intorno ad esse… Il male delle cose della vita è che le possiamo guardare da ogni lato… Le cose del sogno hanno soltanto il lato che vediamo… Hanno una sola faccia, come le nostre anime.

Nessuno comprende l’altro. Siamo, come ha detto il poeta, isole nel mare della vita; tra noi si inserisce il mare che ci limita e separa.

Tra anima e anima c’è l’abisso di essere anime. Che possediamo? Cosa possediamo? Cosa ci spinge ad amare? La bellezza? Ma noi la possediamo amando? Il più ferreo e dominante possesso di un corpo cosa possiede di esso? Non il corpo, né l’anima, e neppure la bellezza. Il possesso di un corpo bello non abbraccia la bellezza, abbraccia la carne cellulitica e grassa; il bacio non riguarda la bellezza della bocca, ma la carne umida delle labbra periture e mucose; la stessa copula è appena un contatto, un contatto di sfregamento ravvicinato, ma non una penetrazione reale, almeno di un corpo da parte di un altro corpo… Cosa possediamo noi? Cosa possediamo? Almeno, le nostre sensazioni? L’amore è, almeno, un mezzo per possederci, noi stessi, nelle nostre sensazioni? È, almeno, un modo per sognare nitidamente e, pertanto, più gloriosamente il sogno di esistere? E, almeno, venuta meno la sensazione, resta con noi per sempre la sua memoria, e così, possediamo realmente… Non inganniamoci neppure in questo. Non possediamo neanche le nostre sensazioni. Non parlare. In fondo, la memoria è la sensazione del passato… e ogni sensazione è un’illusione.

Non si devono mai scoprire i sentimenti che gli altri fingono di avere. Sono sempre troppo intimi…

La vita è un viaggio sperimentale, fatto involontariamente. È un viaggio dello spirito attraverso la materia, e siccome è lo spirito che viaggia, è in esso che si vive. Per questo, ci sono anime contemplative che sono vissute più intensamente, più estesamente, più tumultuosamente di altre che sono vissute esternamente. Il risultato è tutto. Ciò che si è sentito è stato ciò che si è vissuto. Si torna tanto stanchi da un sogno come da un lavoro reale. Mai si è vissuto tanto come quando si è pensato molto. Chi sta in un angolo della sala balla con tutti i ballerini. Vede tutto e, poiché vede tutto, vive tutto. Siccome tutto, in sintesi e definitivamente, è una nostra sensazione, il contatto con un corpo vale quanto la sua visione, o, perfino, il suo semplice ricordo. Danzo, quindi, quando vedo danzare. Dico, come il poeta inglese che narrando, sdraiato su un lontano prato, contemplava tre mietitori: «Un quarto uomo sta mietendo, e quello sono io».

C’è qualcosa di distante in me in questo momento. Me ne sto, infatti, sul terrazzo della vita, ma non precisamente di questa vita. Sto al di sopra di essa, e la sto vedendo da dove vedo. Giace di fronte a me, degradando in terrazzi e scivolando, come un paesaggio diverso, fino al fumo sopra le case bianche dei villaggi a valle. Se chiudessi gli occhi, continuerei a vedere, dato che non vedo. Se li aprissi non vedrei di più, dato che non vedevo. Tutto me stesso non è altro che una vaga nostalgia, non del passato né del futuro: è una nostalgia del presente, anonima, prolissa e incompresa.

È da molto – non so se da giorni o da mesi – che non registro alcuna impressione; non penso, dunque non esisto. Sono dimentico di chi sono: non so scrivere perché non so essere.

Tra la vita degli uomini e quella degli animali non c’è altra differenza se non quella della maniera con cui si ingannano o si ignorano. Gli animali non sanno quello che fanno: nascono, crescono, vivono, muoiono senza il pensiero, la riflessione o la vera percezione del futuro. Ma quanti uomini vivono in modo differente da quello degli animali?

Il popolo è un bel tipo! Il popolo non è mai umanitario. Ciò che c’è di assolutamente fondamentale nelle persone del popolo è l’attenzione assoluta ai propri interessi, e l’esclusione attenta, praticata per quanto possibile, degli interessi altrui. Quando il popolo perde il senso della tradizione, vuol dire che si è spezzato il legame sociale; e quando si spezza il legame sociale, significa che si spezza il legame sociale tra la minoranza e il popolo. E quando si spezza il legame tra la minoranza e il popolo, vengono meno l’arte e la vera scienza, cessano gli stimoli fondamentali, da cui deriva la civiltà.

Esistere è smentirsi. Non c’è niente di più simbolico della vita di quelle notizie dei giornali che smentiscono oggi ciò che lo stesso giornale ha detto ieri.

La maggior parte degli uomini, se non la loro totalità, vive una vita ordinaria, ordinaria in tutti i suoi momenti di allegria e ordinaria in quasi tutti i momenti di dolore, a eccezione di quelli che si basano sulla morte, perché in questi partecipa il Mistero.

Tutto il futuro è una nebbia che ci circonda e il domani sa di oggi quando si intravede.

Nonostante non lo desideriamo, siamo servi del momento, dei suoi colori e delle sue forme, sudditi del cielo e della terra. Quello di noi che maggiormente si nasconde in se stesso, disprezzando ciò che lo circonda, questo stesso non si imbosca negli stessi sentieri quando piove e quando il cielo è bello. Oscure trasmutazioni, forse avvertite solo nell’intimo dei sentimenti astratti, si fanno sentire perché piove o ha smesso di piovere e si percepiscono senza essere da noi percepite, dato che – senza percepirlo – il tempo si è fatto percepire. Ciascuno di noi è varie persone, e molte, è una prolissità di se stessi. Per questo, quello che disprezza l’ambiente non è lo stesso che di esso si rallegra o ne soffre. Nell’ampia colonia del nostro essere vi sono molte specie di persone, che pensano e sentono in modo diverso. In questo stesso momento in cui sto scrivendo, in un legittimo intervallo dallo scarso lavoro di oggi, queste poche frasi su delle impressioni, io sono colui che le scrive con attenzione, sono colui che è contento di non dover lavorare in questa ora, sono colui che sta guardando il cielo là fuori, invisibile da qui, sono colui che sta pensando tutto questo, sono colui che sente il corpo soddisfatto e le mani ancora vagamente fredde. E tutto questo mio mondo interiore di persone tra loro estranee proietta, come una moltitudine diversa ma compatta, un’unica ombra: questo corpo tranquillo e scrivente con cui, in piedi, mi chino sulla scrivania alta di Borges dove sono venuto a prendere la carta assorbente che gli avevo prestato.

In ciò che nasce possiamo sentire sia quello che nasce sia quello che morirà.

L’orgoglio è la certezza emotiva della propria grandezza. La vanità è la certezza emotiva del fatto che gli altri in noi vedono, o ci attribuiscono, tale grandezza. I due sentimenti non sono necessariamente uniti, ma per natura non sono neanche opposti. Sono diversi ma coniugabili. L’orgoglio, quando è da solo, privo della vanità, nei suoi effetti si manifesta come timidezza: ma chi si sente grande, teme che gli altri non lo riconoscano come tale, ha paura a confrontare l’opinione che ha di se stesso con l’opinione che gli altri possano avere di lui. La vanità, quando è da sola, priva dell’orgoglio, il che è possibile ma raro, nei suoi effetti si manifesta con l’audacia. Chi è certo che gli altri in lui vedano del valore, non li teme affatto. Può esistere coraggio fisico senza vanità; può esistere coraggio morale senza vanità; non può esistere audacia senza vanità. E per audacia si intende la fiducia nell’iniziativa. L’audacia può non essere accompagnata dal coraggio, fisico o morale, poiché queste disposizioni dell’indole sono di genere diverso e non commensurabili con essa.

I pessimisti sono sognatori felici. Costruiscono il mondo a loro immagine e in tal modo riescono a rimanere sempre in casa.

Il mio mondo immaginario è stato sempre l’unico vero mondo per me. Non ho mai avuto amori così reali, così pieni di verve, di sangue e di vita come quelli avuti con figure che io stesso ho creato. Che pazzia!

Nel mondo ogni giorno accadono cose che non si possono spiegare con le leggi che conosciamo. Se ne parla al momento, ma poi si dimenticano sempre, e lo stesso mistero che le ha recate, se le porta via, mentre il segreto si trasforma in oblio. Così è la legge di ciò che si deve dimenticare perché non si può spiegare. Il mondo visibile continua regolarmente alla luce del sole. Il mondo sconosciuto ci spia dall’ombra.

Considerare la nostra maggiore angoscia come un incidente senza importanza, non solo nella vita dell’universo, ma anche in quella della nostra stessa anima, è il principio della saggezza. Considerare questo in piena angoscia è la saggezza completa. Nel momento in cui soffriamo, ci sembra che il dolore umano sia infinito. Ma il dolore umano non è infinito, perché nell’umano non esiste nulla di infinito e il nostro dolore non va al di là del fatto di essere un dolore che abbiamo noi.

La verità è che il nostro dolore è serio e grave soltanto quando facciamo finta che lo sia. Se siamo naturali, come è arrivato, passerà, come è aumentato, diminuirà. Tutto è nulla, compreso il nostro dolore in questo nulla.

Nell’alto del cielo, come un nulla visibile, una piccolissima nuvola è un candido oblio dell’intero universo.

La donna – una buona fonte di sogni. Non la toccare mai.

Impara ad assaporare in ogni cosa non ciò che essa è, ma le idee e i sogni che essa genera.

Avere il pudore di se stessi; capire che non siamo solo alla presenza di noi stessi, che siamo testimoni di noi stessi e che per questo è necessario agire di fronte a noi stessi come di fronte a un estraneo, con una studiata e serena linea interiore, indifferente perché nobile, fredda perché indifferente. Per non cadere in basso ai nostri stessi occhi, basta abituarsi a non avere ambizioni, né passioni, né desideri e speranze, né impulsi e neppure inquietudini. Per riuscirvi dobbiamo sempre ricordare che ci troviamo alla presenza di noi stessi, che non siamo mai soli, per poterci sentire a nostro agio e rilassati. E così riusciremo a dominare passioni e ambizioni, perché le passioni e le ambizioni ci lasciano senza difese; non avremo desideri né speranze, perché i desideri e le speranze sono gesti vili e privi di eleganza; non avremo impulsi e inquietudini perché l’atto precipitoso è un’indelicatezza agli occhi degli altri e l’impazienza è sempre una forma di manifestazione plebea.

Essere amato è stata una cosa che mi è sembrata sempre impossibile, come un estraneo che mi desse del tu.

Avendo visto con quale lucidità e coerenza logica certi pazzi giustificano a se stessi e agli altri, le loro idee deliranti, ho perduto per sempre la sicura certezza della lucidità della mia lucidità.

 

È dentro di noi che i paesaggi divengono paesaggio. Ed è per questo che, se li immagino, li creo; e se li creo, esistono; e se esistono, li vedo come vedo gli altri paesaggi. A che scopo viaggiare? A Madrid, a Berlino, in Persia, in Cina, in entrambi i Poli, dove sarei se non in me stesso, e nella stessa sfera delle mie sensazioni? La vita è quel che noi decidiamo di farne. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma quello che noi siamo.

Considerando il vergognoso divario fra l’intelligenza dei bambini e la stupidità degli adulti, a volte penso che durante l’infanzia siamo accompagnati da un angelo custode che ci presta la sua intelligenza astrale, e che dopo, forse con dispiacere ma per una legge superiore, ci abbandona, come le femmine degli animali abbandonano i cuccioli cresciuti, al nostro destino di bestie all’ingrasso.

La lettura dei giornali, sempre penosa dal punto di vista estetico, spesso lo è anche dal punto di vista morale, persino per chi abbia pochi scrupoli morali. Le guerre e le rivoluzioni – e ce n’è sempre qualcuna in corso –, a forza di leggerne gli effetti, arrivano non a provocare orrore ma tedio. Non è la crudeltà di tutti quei morti e feriti, il sacrificio di quanti muoiono in battaglia o di quanti vengono uccisi senza che possano combattere, che pesa sull’anima: è la stupidità di sacrificare vite e averi per qualcosa di irrimediabilmente inutile. Tutti gli ideali e tutte le ambizioni sono un delirio da comari uomini. Non esiste impero che meriti che, in suo nome, venga ridotta a pezzi neppure la bambola di una bambina. Non esiste ideale degno del sacrificio di un trenino di latta.

L’uomo non deve potersi guardare in faccia. È la cosa più terribile. La Natura gli ha fatto dono di non poterla vedere, così come di non poter fissare i propri occhi. Soltanto nell’acqua dei fiumi e dei laghi poteva scrutare il suo volto. E la postura che doveva assumere era peraltro simbolica. Doveva piegarsi, abbassarsi, per commettere l’ignominia di vedersi. Chi ha inventato lo specchio ha avvelenato l’anima dell’uomo.

…e i gigli sui greti di fiumi remoti, freddi e solenni, in un’eterna sera nel fondo di continenti veri. Senza niente di più eppure veri.

Domani anch’io – la mia anima senziente e pensante, l’universo che io rappresento per me stesso – sì, domani anch’io sarò uno che ha smesso di passare per queste strade, che altri evocheranno vagamente con un «che ne sarà stato di lui?». E tutto ciò che adesso faccio, tutto ciò che sento, tutto ciò che vivo, non sarà altro che un passante in meno nella quotidianità delle strade di una città qualsiasi.


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