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8 feb 2014

Dal momento in cui persi il suo corpo,
la sua anima mi è restata sempre accanto.
 
 

Ricordo.


Tutti quelli che se ne vanno lasciano qualcosa dentro di te.
È questo il segreto della memoria.
La finestra di fronte
 
Foto: Angel_by_BananagoddessAZ.jpg
www.deviantart.com
 
Ricordo. È come sentirsi sperduti, ma non è bello come per i bimbi sperduti di Peter Pan. All'improvviso non hai ricordi se non degli ultimi istanti.

Il tempo non lenisce, ma pian piano quell'angelo si insinua dentro di te, o è semplicemente al tuo fianco, per sostenerti e darti la forza.
No, non subito, subito c'è il vuoto.
Poi con i giorni, i mesi, all'improvviso ti troverai a pensare parlando a quell’angelo e senti che c'è sempre stato, che non è mai andato via, è solo in un'altra forma, in un altro posto, ma comunque in te.
E a volte basta pronunciare nella mente il suo nome e so che c'è, nei suoi rimproveri e nelle sue carezze, nei valori che mi ha insegnato e nelle mie debolezze che non è riuscita a impedire.
Da qualche parte, è ancora.
E ci credo.
Con tutta me stessa.
È solo così che non mi lascerà mai.
 
 
 

18 giu 2011

Quattro giorni

5 febbraio

La notte era stata un inferno per te. Ma del resto ci eri abituata. Non è facile trascorrere sedici anni della tua vita, scivolando lentamente verso il basso. Ci tenevi alla tua indipendenza. Da che mi ricordo di te, lo hai sempre fatto. Hai sempre combattuto perché tu potessi fare le cose che volevi, da sola, con l’aiuto minimo indispensabile da parte degli altri, soprattutto coloro che non erano parte della tua famiglia più ristretta. Non volevi «dare fastidio». Era la cosa che odiavi di più. E per la legge del contrappasso sei finita a dipendere dagli altri, anche per le esigenze più intime, tenendo in te quella che consideravi una vergogna, alternando le richieste che ti uscivano forzate dalla bocca con uno «scusa» ed un «grazie» che ti pesavano, e non perché non volevi dirle, ma perché avresti preferito che la tua vita si fosse svolta senza essere costretta a chiedere aiuto agli altri, pesando su di loro. Molte volte ti ho detto che non era un peso, e tu fingevi di crederci con il sorriso sornione di chi la sa lunga, ma ti accontenta.

Quella notte era passata tra i lamenti, tu china sulla tua poltrona, perché oramai a letto non riuscivi più a starci, piegata in avanti, con il volto verso il pavimento, bloccata da un divano, perché avevamo paura che scivolassi piano in avanti e cadessi. Piccole cure. Piccole attenzioni, di fronte ad una situazione che era più grande di noi. Di nessuno di noi. Avevamo studiato altro nella vita. Ed eravamo stati fortunati, perché fino ad allora nessuno di noi aveva avuto bisogno di assistenza in modo così spinto. Non sapevamo né cosa fare, né quando farlo. Pur avendone la voglia.

Eravamo lì con te, ad alternarci, muovendoci al ritmo dei tuoi lamenti. Ci sentivamo impotenti, perché nulla di ciò che avessimo potuto fare avrebbe potuto darti sollievo nelle condizioni in cui eri. Ferma, sulla tua poltrona. Immobile, perché ogni movimento causava un dolore profondo. Avremmo scoperto solo quella sera che il dolore era nelle piaghe, non nelle ossa che ti avevano massacrato da anni di fitte, incurvandoti sotto il peso della malattia, incurabile.