Scrivere un’opera di genio è quasi sempre un’impresa di prodigiosa difficoltà. Tutto sembra opporsi alla possibilità che il lavoro venga fuori bello e intero, come era stato concepito nella mente dello scrittore. Di solito le circostanze materiali vi si oppongono. I cani abbaiano, la gente interrompe: bisogna fare soldi; la salute non regge. Oltre a queste difficoltà, ad accentuarle e a renderle ancor più intollerabili, c’è la notoria indifferenza del mondo. Esso non chiede alla gente di scrivere poesie, romanzi e libri di storia; non ne ha alcun bisogno. Non gli interessa se Flaubert trova la parola giusta, né se Carlyle verifica scrupolosamente questo o quell’altro fatto. Naturalmente, non vuole pagare per ciò che non gli serve. E così lo scrittore, Keats, Flaubert o Carlyle, è alla mercé (soprattutto durante gli anni creativi della giovinezza) di ogni forma di distrazione e di scoraggiamento. Una maledizione, un grido di estrema sofferenza, si leva da questi libri di analisi e confessione. [...] Se nonostante tutto ciò qualcosa viene fuori, è un miracolo; probabilmente nessun libro nasce intero e privo di distorsioni, come era stato concepito.
[...] La mente intera deve mostrarsi nuda e aperta, se vogliamo creare la sensazione che lo scrittore sta comunicando la sua esperienza pienamente e perfettamente. Ci deve essere libertà e ci deve essere pace. Nessuna ruota deve cigolare, nessuna luce tremare. Le tende devono essere ben chiuse. Lo scrittore, pensavo, finita la sua esperienza, deve sdraiarsi e lasciare che la sua mente possa celebrare le sue nozze nel buio. Non deve né guardare né mettere in dubbio ciò che sta accadendo.
[...] Finchè scrivete
ciò che volete scrivere, questa è la sola cosa che conta; e se conti per un
giorno o per un’eternità, nessuno può dirlo. Ma sacrificare un capello della
testa della vostra immagine, una sfumatura del suo colore, per far piacere a
qualche direttore di scuola con un vaso d’argento in mano, o a qualce
professore con il suo campione di misura nascosto nella manica della giacca,
quello è il più vile tradimento, e in confronto ad esso, la perdita della
fortua e della castità, che a quanto dicevano era il più grande dei disastri
umani, conta meno del morso di una pulce.
[... ] “La realtà” [...] ci sopraffà mentre torniamo a casa,
camminando sotto le stelle, e fa sì che il mondo silenzioso diventi più reale
di quanto non sia il mondo delle parole; e poi la si ritrova di nuovo sull’ìmperiale
di un autobus, in mezzo allo strepito di Piccadilly. Da’altra parte , a volte
sembra nascondersi dietro forme troppo lontane perchè ci sia possibile capire
la loro vera natura. Ma qualunque cosa essa tocchi, viene fissata e resa
permanente. E’ questo che ci resta, quando abbiamo gettato deitro la siepe la
buccia vuota del giorno; è questo che ci resta del tempo passato, dei nostri
amori e delle nostre avversioni. Orbene, lo scrittore, mi sembra, ha la
possibilità di vivere più di quanto possano vivere gli altri, in presenza di
questa realtà. Il suo compito è trovarla, raccoglierla e comunicarla agli
altri.
[...] Immaginiamo, giacché ci riesce così difficile conoscere la
realtà, che cosa sarebbe successo se Shakespeare avesse avuto una sorella
meravigliosamente dotata, chiamata Judith, diciamo. Molto probabilmente
Shakespeare studiò – poiché sua madre era ricca – alla “grammar school”; gli
avranno insegnato il latino – Ovidio, Virgilio e Orazio - e qualche elemento di grammatica e di logica.
Era, come si sa, un ragazzo irrequieto, il quale cacciava di frodo i conigli, e
forse anche i daini; e dovette anche, prima di quanto avrebbe voluto, sposare
una donna dei dintorni, che gli diede un figlio un po’ più presto del solito.
Questa avventura lo spinse a cercare fortuna a Londra. Si interessava, a quanto
pare, di teatro; dicono che abbia cominciato facendo la guardia ai cavalli
presso l’ingresso degli attori. Presto imparò a recitare, divenne un attore di
successo, e si trovò al centro della società contemporanea; vedeva tutti,
conosceva tutti, sofggiava la sua arte sulla scena, il suo spirito per strada,
e riuscì perfino a essere ricevuto nel palazzo della regina. Intanto sua
sorella, così dotata, supponiamo, rimaneva in casa. Ella non era meno
avventurosa, immaginativa e desiderosa di conoscere il mondo di quanto non lo
fosse suo fratello. Ma non aveva studiato. Non aveva potuto imparare la
grammatica e la logica, e non diciamo leggere Orazio e Virgilio. A volte
prendeva un libro, magari un libro di suo fratello, e leggeva qualche pagina.
Ma poi arrivavano i suoi genitori e le dicevano di rammendare le calze o di
fare attenzione all’umido in cucina, e di non perdere tempo tra libri e carte.
Questi ammonimenti saranno stati netti, benché affettuosi, poiché si trattava
di persone agiate, che sapevano come debbono vivere le donne, e amavano la loro
figlia; anzi è molto probabile che ella fosse la figlia diletta di suo padre.
Forse riusciva a riempire di nascosto qualche pagina, su nell’attico; ma poi
aveva cura di nasconderle o di bruciarle. A ogni modo, non appena arrivata alla
pubertà, ella era stata promessa al figlio di un vicino mercante di lane. La
ragazza protestò che il matrimonio era per lei una cosa abominevole; sicché suo
padre la picchiò con violenza. Poi, cambiando tono, la pregò di non fargli
questo danno, questa vergogna di rifiutare il matrimonio. Le avrebbe regalato
una bella collana, oppure una bella gonna, diceva, con le lacrime agli occhi.
Poteva forse disubbidirgli? Eppure la forza del suo talento al spinse al gesto
inconsueto. Una sera d’estate Judith fece fagotto con le sue cose, scese dalla
finestra e prese la strada di Londra. Non aveva ancora diciassette anni. Gli
uccelli che cantavano sulle siepi non erano più musicali di lei. Ella
possedeva, come suo fratello, la più viva fantasia, il più vivo senso della
musica delle parole. Come lui, si sentiva attratta dal teatro. Bussò alla porta
degli attori; voleva recitare, disse. Gli uomini le risero in faccia. L’amministratore
– un uomo grasso, dalle labbra spesse – proruppe in una gran risata. Disse
qualcosa sui cani ballerini e sulle donne che volevano recitare; nessuna donna,
disse, poteva essere attrice. Egli accennò invece... ve lo potete immaginare.
Nessuno le avrebbe insegnato a recitare. D’altronde non poteva mangiare nelle
taverne, né girare per le strade a mezzanotte. Eppure il genio di Judith la
spingeva verso la letteratura: ella desiderava cibarsi abbondantemente della
vita degli uomini e delle donne, studiare i loro costumi. Infine (poiché era
molto giovane e di viso somigliava molto a Shakespeare, con gli stessi occhi
grigi e la fronte curva) Nick Greene, l’attore-regista, ebbe pietà di lei;
Judith si trovò incinta di questo signore, e pertanto – chi può misurare il
fervore e la violenza del cuore di un poeta quando questo si trova prigioniero
e intrappolato nel corpo di una donna? – si uccise, una notte d’inverno, e
venne sepolta a un incrocio, là dove ora si fermano gli autobus, presso
Elephant and Castle.
[...] Ella morì giovane; ahimé non scrisse mai una parola.
Giace seppellita là dove si trova oggi la fermata degli autobus, presso
Elephant and Castle. Ora io credo che questa poetessa, che non scrisse mai una
parola e venne sepolta presso un incrocio, viva ancora. Vive in voi e vive in
me, e in molte altre donne che non si trovano qui questa sera, perchè stanno a
casa a lavare i piatti e a far dormire i bambini. Tuttavia essa vive; perchè i
grandi poeti non muoiono; sono presenze perenni; hanno bisogno soltanto di un’opportunità
per tornare fra noi, in carne e ossa. Ora questa opportunità, mi sembra, siete
finalmente in grado di offrirgliela voi. Poiché io credo che se viviamo ancora
un altro secolo – parlo della vita comune, che è la vera vita, e non delle
piccole vite isolate che ognuno di voi vive come individuo – e riusciamo ad
avere cinquecento sterline l’anno, ognuna di noi, e una stanza propria; se
abbiamo l’abitudine della libertà e il coraggio di scrivere esattamente ciò che
pensiamo; se usciamo un attimo dalla stanza comune di soggiorno e vediamo gli
esseri umani non sempre in relazione l’uno con l’altro bensì in relazione con
la realtà; e anche il cielo e gli alberi o ciò che si voglia; se guardiamo in
faccia il fatto, poiché si tratta di un fatto, che non c’è un solo braccio al
quale appoggiarsi, ma che dobbiamo fare la nostra strada da sole e che dobbiamo
essere in relazione con il mondo della realtà e non soltanto con il mondo degli
uomini e delle donne, allora si presenterà finalmente l’opportunità, e quella
poetessa morta, che era sorella di Shakespeare, ritorner al corpo del quale
tante volte ha dovuto spogliarsi. Attingendo la sua vita dalla vita di quelle
sconosciute che l’hanno preceduta, come prima di lei fece suo fratello, nascerà
la poetessa. La possibilità tuttavia che ella possa nascere senza quella
preparazione, senza quello sforzo da parte vostra, senza quella decisione che ci
vuole perchè una volta rinata ella possa vivere e scrivere il suo poema, è
comunque da scartarsi, poichè ciò sarebbe assolutamente impossibile. Ma io
sostengo che ella arriverà, se lavoriamo per lei; e che lavorare così, sia pur
nella povertà e nell’oscurità, vale la pena.