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18 giu 2011

Quattro giorni

5 febbraio

La notte era stata un inferno per te. Ma del resto ci eri abituata. Non è facile trascorrere sedici anni della tua vita, scivolando lentamente verso il basso. Ci tenevi alla tua indipendenza. Da che mi ricordo di te, lo hai sempre fatto. Hai sempre combattuto perché tu potessi fare le cose che volevi, da sola, con l’aiuto minimo indispensabile da parte degli altri, soprattutto coloro che non erano parte della tua famiglia più ristretta. Non volevi «dare fastidio». Era la cosa che odiavi di più. E per la legge del contrappasso sei finita a dipendere dagli altri, anche per le esigenze più intime, tenendo in te quella che consideravi una vergogna, alternando le richieste che ti uscivano forzate dalla bocca con uno «scusa» ed un «grazie» che ti pesavano, e non perché non volevi dirle, ma perché avresti preferito che la tua vita si fosse svolta senza essere costretta a chiedere aiuto agli altri, pesando su di loro. Molte volte ti ho detto che non era un peso, e tu fingevi di crederci con il sorriso sornione di chi la sa lunga, ma ti accontenta.

Quella notte era passata tra i lamenti, tu china sulla tua poltrona, perché oramai a letto non riuscivi più a starci, piegata in avanti, con il volto verso il pavimento, bloccata da un divano, perché avevamo paura che scivolassi piano in avanti e cadessi. Piccole cure. Piccole attenzioni, di fronte ad una situazione che era più grande di noi. Di nessuno di noi. Avevamo studiato altro nella vita. Ed eravamo stati fortunati, perché fino ad allora nessuno di noi aveva avuto bisogno di assistenza in modo così spinto. Non sapevamo né cosa fare, né quando farlo. Pur avendone la voglia.

Eravamo lì con te, ad alternarci, muovendoci al ritmo dei tuoi lamenti. Ci sentivamo impotenti, perché nulla di ciò che avessimo potuto fare avrebbe potuto darti sollievo nelle condizioni in cui eri. Ferma, sulla tua poltrona. Immobile, perché ogni movimento causava un dolore profondo. Avremmo scoperto solo quella sera che il dolore era nelle piaghe, non nelle ossa che ti avevano massacrato da anni di fitte, incurvandoti sotto il peso della malattia, incurabile.


La luce del giorno che trafiggeva le persiane illuminava debolmente la stanza e portava la speranza che il sonno vincesse temporaneamente il dolore. Non fu così, ma a quell’ora della mattina ci speravamo ancora, mentre il caffè fumante spargeva il suo aroma intorno.

- Hai fame?
- No
- Devi mangiare qualcosa…

Lo stomaco era chiuso, e non solo il tuo, anche il nostro.

Arrivò l’infermiere per le analisi. Un sorriso a volte riscalda, anche quando il freddo è gelido, nelle ossa e nel cuore. E tu sorridevi a tutti, tu avevi una parola buona per tutti. Non ti eri mai lamentata di nulla, avevi sempre sofferto in silenzio, piangendo in un angolo, quando la rabbia, più che il dolore, era più forte.

Era l’inizio dei gironi più profondi dell’inferno, fu una lenta discesa scalino per scalino. Il dolore forte alla gamba, non ne potevi più. Le fitte alla schiena, non le sopportavi. Quel senso schiacciante di impotenza ci portava a starti accanto, muti, con lacrime che scendevano all’interno degli occhi, perché anche se tu oramai non vedevi più, avevi sviluppato una sensibilità speciale al tono della voce, al tremolio della mano, al respiro irregolare. Te ne saresti accorta e avresti sofferto, perché pur se non colpevole, ti sentivi la causa della nostra sofferenza. Non parlavamo, perché non c’erano parole. Ruotavamo intorno a te, alternandoci quando eravamo stanchi e sentivamo il bisogno di una pausa. E ci sentivamo in colpa per quella pausa, perché tu, alla fine, dal tuo dolore non avevi nessuna pausa.

Cercavamo una soluzione, ma non ne vedevamo. Non eravamo in grado di assisterti e questa era la pena più grande. A te, che sempre ci avevi curato, noi non eravamo in grado di offrire nulla più di una presenza, forse fastidiosa per te che non avresti voluto dipendere da nessuno.

I sensi di colpa, quando colpe non ne hai in realtà, affiancati al senso di impotenza, quando ti rendi conto che non puoi fare nulla, ti rodono dentro. Sono come acido che corrode tutto dentro di te, si spinge nell’intestino e ti lacera le budella. Cercavamo di spingere il cervello a pensare oltre l’impossibile per cercare un’alternativa a quell’inferno. Non ci importava di quanto stessimo soffrendo, non sentivamo né il sonno, né la fame, né la stanchezza. Ci importava solo alleviare la tua sofferenza e ci rendevamo conto di essere inutili. Assolutamente inutili.

Il telefono bruciava nell’orecchio quando dall’altra parte ci sussurravano «Mi dispiace. Non abbiamo le strutture adeguate per dare assistenza come si dovrebbe ad una paziente in queste condizioni». Volevamo urlare «Chi lo fa, se non lo fate voi che avete studiato per questo?», ma ci adeguavamo e rimanevamo attaccati al computer a cercare una soluzione. «A qualcosa servirà questa rete globale».

E infine riuscimmo. Dopo mille telefonate abbiamo ricevuto un «Sì» e ci siamo convinti che fosse meglio, che ti avrebbero trattato meglio di come potevamo farlo noi.

Non fu difficile preparare di nuovo le tue cose, perché in fondo eri appena tornata da un altro ospedale ed era ancora tutto ordinato e pulito nelle tue valigie. C’era solo da dividere le cose strettamente necessarie, da portare insieme con te in ambulanza, dalle cose utili, da tenere in macchina.

L’attesa fu delirante. Tu soffrivi sempre di più e starti accanto era impossibile senza piangere, senza sentirsi perfettamente inutili se non per quelle continue carezze. Avrei continuato a carezzarti per sempre se questo avesse potuto essere per te un sollievo. Ma forse era un sollievo più per me, che per te. Tra la rabbia dell’impotenza e la convinzione di stare facendo tutto ciò che pensavamo fosse meglio, passavano i minuti, goccia a goccia. L’ambulanza infine, il tuo volto un po’ più sollevato e la speranza di qualcuno che ti potesse davvero aiutare, come noi non eravamo in grado di fare da soli.

Quando arrivammo in ospedale eri già in terapia intensiva. I medici non si spiegavano come mai ti avessero dimessa, dall’altro ospedale. Fummo presi dall’angoscia di non avere fatto abbastanza per te, ma ci chiedevamo da cosa noi avremmo potuto capire l’opportunità di tenerti in ospedale rispetto al tornare a casa, cosa che desideravi più di tutte.

Cominciò l’attesa. La lunga attesa di sapere come stavi.

Cominciò la fiducia. La cieca fiducia che ti potessero far stare bene, o almeno ti lenissero il dolore.

Entrammo nella stanza solo per poco. La situazione era grave, ci sarebbe voluto del tempo per recuperare. Ma la speranza c’era. Così ci dissero, prima di chiederci di uscire. Non potevamo stare lì la notte, non ce n’era bisogno. Potevamo tornare la mattina dopo, non prima delle undici.

6 febbraio

Erano giornate tiepide d’inverno. Ma per quanto tiepide fossero, faceva freddo la mattina presto. O forse il freddo era dentro di noi, ne pervadeva le fibre. O forse era la stanchezza soltanto, la paura.

Quella mattina era una domenica. Il Grande Raccordo Anulare era deserto e percorremmo facilmente i quaranta chilometri che ci dividevano da te. Niente caffè, niente colazione. Lo stomaco non c’era più. Era stato risucchiato dalla tensione. Volevamo vederti, volevamo dirti «siamo qui fuori». Era importante per noi che tu sapessi che eravamo vicini, anche se non potevamo restarti accanto. Sapevamo che era importante anche per te.

Passammo molto tempo in sala d’attesa, un salottino con due divani di pelle, appena fuori dalla terapia intensiva. Una macchinetta dell’acqua, per spezzare la gola riarsa dall’aria secca. Una macchinetta vicina, per qualcosa di caldo, quando proprio non ce la facevamo più a tenere gli occhi aperti e ci sentivamo fortemente in colpa a chiuderli seppure per un attimo. Camici verdi in giro. Avanti, indietro. Vociare dietro la porta. Cercavamo di capire le parole, ma sentivamo solo il sottofondo delle voci, nulla che ci potesse aiutare a sapere quello che volevamo: «come sta?»

Infine la porta si apre, si parla, si discute. Non è critica la situazione. E’ grave, ma non critica. Ce la possiamo fare? Mi senti? I medici dicono che ce la possiamo fare.

Entro. Possiamo entrare uno per volta, di più non si può.

Sei piccola in un letto enorme.

Sei nuda, sotto le lenzuola.

Questo ti dà fastidio, sei sempre stata molto riservata e ti dà fastidio che anche un solo lembo della tua pelle sia alla vista di chiunque, medici e infermieri, ai quali però lo sai, non interessa altro che farti stare meglio. Mi lavo le mani con l’amuchina. Sei delicata. Sei a rischio di infezioni. Non voglio portartele io. Sono anche io con camice verde, sovrascarpe azzurre. Non voglio portarti nulla se non il mio cuore dolente. Mi guardi, non sembri tu, con la maschera dell’ossigeno, l’ago per le flebo direttamente nel collo, perché le tue vene si sono ristrette ad un filo e si rifiutano di portarti medicine e cibo, tanti piccoli tubi che ti girano intorno e in alto. A destra, la scansione del tempo ritmata dal battito del tuo cuore, bum bum bum.

Mi siedo accanto a te e ti prendo la mano. Mi dici che sei trattata bene e sei contenta. Sono contenta anche io, perché so che per te è importante il rispetto, perché so che ora che ti senti indifesa qualunque cosa ti potrebbe impaurire. Ti prendo la mano, sto attenta a sfiorarti perché ho paura di quei tubi. Guardo il monitor, cerco di capire come funziona. L’occhio si abitua alla linea che va su e giù. L’orecchio si assuefa al tuo cuore, bum bum bum. Ti assopisci, sei stanca. Stanca di lottare. Nella tua vita hai sofferto al punto che adesso sembra che tu ti sia arresa. Sai di dover restare lì, buona, mentre cercano di curare il tuo respiro, di fare in modo che l’anidride carbonica si scambi correttamente con l’ossigeno. Puntuale l’emodinamica. Puntuale il cambio delle flebo. Molti specialistici si susseguono. E’ domenica, apprezziamo che ci sia gente che rinuncia a qualcosa per visitarti.

Scaduto il tempo. Vado fuori. «Ci vediamo più tardi».

Torno nel salottino e lascio il posto agli altri. Anche loro vogliono starti accanto. Abbiamo tutti diritto, ma nelle comunità la libertà degli uni termina dove inizia la libertà degli altri. Anche qui vige la regola: esco io, entri tu. Prima o poi rientrerò anche io.

Prima di andare via, ci fanno entrare. Ti lamenti di un medico per una battutaccia che ha fatto «Ero a casa a vedere la partita ed ora sono qui». Ci dici che volevi rispondere «Poteva starsene a casa», ma non lo hai fatto, chissà se perché non ne avevi più voglia, se perché per te non era più importante, o solo perché non ne avevi più la forza.

Siamo andati a casa. Non potevamo restare, era inutile restare lì a dormire sui divani.

Abbiamo cenato in silenzio, ascoltando il rumore dei nostri denti che trituravano l’aria, perché non avevamo voglia di nulla, se non che arrivasse presto il giorno dopo per venire da te. Ci siamo annullati in te. Non contava più nulla quello che eravamo o avevamo fatto. Vivevamo per te e per il sollievo che potevamo darti. Noi non eravamo più niente. Niente sensazioni, niente emozioni. Finché tu non fossi uscita di lì, noi saremmo stati niente.

7 febbraio

Il lunedì il Grande Raccordo era più trafficato, ma in fondo prima delle undici non potevamo entrare a trovarti. Erano stati chiari la sera prima.

Ritrovarti alle undici è stato bello, ma fortemente doloroso. La situazione iniziava ad essere critica. «Devo tenere la maschera grande, quella piccola non basta più» ci hai detto «Ho chiesto di metterla quando c’eravate voi». Eravamo la tua famiglia. Eravamo coloro che ti potevano dare sollievo. Eravamo gli unici che potevano starti accanto. Eravamo contenti di farlo, seppure a turno, anche se sapevamo che a te faceva piacere che stessimo vicini tutti insieme. Vicini a te.

Fu doloroso parlare con i medici. La situazione peggiorava. Minore scambio d’ossigeno. La situazione peggiorava ancora. C’era un blocco renale. Dovevamo stare lì, ma potevamo alternarci fintanto che nessun altro paziente era in terapia intensiva. Qualcuno dei medici ci teneva ancora su la speranza. Qualcun altro ci parlava delle manovre di emergenza, di intubazione forzata e dei problemi che si aspettavano per il fatto che tu non avevi una normale spina dorsale.

Quando ci hanno informato che dovevamo essere pronti a decidere se autorizzare manovre dolorose per tentare di salvarti oppure se preferivamo che i medici agissero al meglio, senza farti soffrire, ci siamo guardati negli occhi, indecisi tra la decisione egoistica di tentare il tutto per tutto, sapendo che avresti sofferto, e quella di tentare qualunque cosa potesse essere compatibile con il minore dolore possibile. Cosa potevamo decidere, sapendo che avevi già sofferto, tremendamente, da più di quindici anni ed eri stanca, visibilmente stanca, del tuo dolore? Autorizzare il dolore, per cosa? Per salvarti e tenerti ferma ed immobile su un letto, attaccata ad una macchina dell’ossigeno che ti tenesse in vita? Solo perché avevamo ancora bisogno di te? O potevamo autorizzarti a sbarazzarti dal tuo corpo, da quel corpo che era già la tua tomba da anni, che lentamente ti aveva inibito anche il più semplice movimento, anche la semplice vista dei tuoi cari, lasciandoti in un mondo bianco ovattato che tu, semplicemente, avevi scelto di non vedere, restando la maggior parte del giorno ad occhi chiusi? Credo sia stato un bene, alla fine, che le cose siano precipitate improvvisamente, a tal punto che i medici hanno dovuto scelto direttamente da sé cosa fare. Per noi sarebbe stato decidere se farti morire già da viva o se farti morire e basta.

Il pomeriggio fu un alternarsi al tuo capezzale. Lo scambio di ossigeno insufficiente già ti portava a non essere più te stessa. Dormivi o semplicemente gli occhi erano chiusi. Non reagivi molto, ma ci sentivi. Sentivi la nostra presenza e ci volevi accanto. Uno alla volta, perché di più non si poteva. Ma ci faceva piacere sapere che ci volevi accanto a te, che ci chiamavi, che chiedevi di chi non c’era, che cercavi una carezza o una parola. In qualche modo ci faceva sentire speciali. Sapevamo che da un momento all’altro avresti potuto dirci cose tremende. Ce lo aspettavamo. Ci avevano informato i medici: è così, non ve la prendete, ma è solo l’effetto della scarsità di ossigeno.

Pensi ad un prato verde. Pensi ad una enorme campagna all’aperto. A quanto ossigeno ci sia, a quanto il tuo naso inspira ossigeno e a quanto butta fuori anidride carbonica. Pensi a questo meccanismo che è assolutamente involontario e naturale. Non fai nulla, eppure vivi. Poi ad un certo punto non fai nulla, e non ci sei più. Tutto indipendente dalla tua volontà di piccolo uomo.

Le carezze infinite. La mano sulla tua. Avanti e indietro, lungo la pelle scarna, ma liscia. Hai sempre avuto delle belle mani. Ricordo da piccola quanto mi piaceva accarezzarle. Ancora oggi quando vedo delle mani come le tue, le chiamo “le mani da mamma”. Ti accarezzo, le mani, il viso. Voglio assaporare questo momento perché sento che stai andando via e voglio trattenere tutto ciò che posso. Quando non sono con te, cerco di stare affianco agli altri, che vedo soffrire come me, che vedo spaesati come me. Un dolore comune e muto. Un dolore senza parole, perché non servono più. Bastano gli sguardi di paura, ogni volta che un medico esce dalla sala. Basta vedersi seduti su un divano, uno di fronte all’altro, sfatti, con lo sguardo perso nel vuoto, per capire quanto dolore c’è dentro. E non basterebbero le parole per esprimerlo. Si può solo provarlo, per capirlo.

La notte tra il 7 e l’8 febbraio

Ci chiedono di restare. La situazione è peggiorata. Polmoni e reni hanno ceduto. Il cuore batte regolarmente. «Ha un cuore forte», dicono. «Hai sentito? Hai un cuore forte».

Cerchi regolarmente di toglierti la maschera. Ti dà fastidio.

Hai le labbra secche. Ti passo la crema, sulle labbra e sul viso. L’ossigeno asciuga la tua bella pelle morbida fino a seccarla. Sono qui, mi senti? Sono qui, sono qui. Non so quante volte l’ho ripetuto, perché tu non ti sentissi sola.

«Aspettatevi un peggioramento da un momento all’altro. Può accadere in un attimo». Ero rimasta sola, perché era necessario che qualcuno andasse a casa a sistemare alcune cose, a prenderti dei vestiti, a riposarsi un po’, perché sarebbe stata una notte lunga. Io in fondo non avevo nessuno da curare a casa, ero la figlia lontana e potevo restare con te, forse volevo solo recuperare tutto il tempo che ti ero stata lontana, che ti ero stata inutile. Mi sentivo forte ed invincibile. Non mi importava né bere, né mangiare. Non ero stanca e non avevo sonno. Volevo solo starti affianco, controllare che tu respirassi, avvicinarmi a te e sentire l’aria calda dalle tue narici. Lo avevo già fatto nell’altro ospedale: la sera mi stendevo di fronte a te, gli occhi aperti. Ti controllavo il respiro, mi accostavo a te quando rimaneva sospeso e ritornavo giù con un sospiro quando riprendevi a respirare.

Quando aprivi gli occhi ti parlavo. Quando li chiudevi restavo in silenzio a guardare i monitor: il respiro, l’ossigeno, il cuore, la pressione, le flebo. I medici entravano rispettosi di quel dolore che urlava da ogni poro della mia pelle, ma rimaneva compostamente al tuo fianco. Se mi spostavo per farli lavorare meglio, mi dicevano di stare tranquilla lì che non davo fastidio. Mi veniva da dirti «Vedi, non diamo fastidio… non ti preoccupare». Mi facevo piccola sulla sedia e pensavo, cercavo di recuperare i ricordi, cercavo di metterne da parte altri, perché sapevo che da un momento all’altro avrei potuto solo ripescarli, non più immagazzinarli. Non quelli che ti riguardavano.

All’improvviso mi hanno chiamato. «Ci siamo». Ho chiamato gli altri, che erano appena andati a casa. «Tornate, fate con calma ma tornate». Poi sono tornata da te.

Eri in uno stato strano, non capivo se fossi in dormiveglia o se tu fossi proprio in un’altra dimensione. Hai chiamato tuo fratello, morto da qualche anno. Hai chiamato i tuoi genitori. Continuavi a dire «Mamma, portami via». Io non ho risposte. Non ce le ho se non nella fede. In questi momenti o hai fede e credi che ci sia qualcosa dopo e credi che quel qualcosa possa manifestarsi a te in fin di vita, oppure credi siano tutte allucinazioni. Io credo, e quello che dicevi era per me la conferma che stavi per andare via. Non volevo che mi lasciassi, ma sentivo che tu volevi andare via. Non ce la facevi davvero più. La sofferenza ti aveva stremato al punto che il desiderio di spezzare quel cerchio era più forte del desiderio di restarci accanto.

Mi attaccai a te ancora di più. Appoggiavo la testa sulla tua mano e ricordavo quando mi carezzavi i capelli. Ti stringevo la mano e l’accarezzavo e ricordavo le tue recenti parole «Quando eravate piccole ero io che vi curavo, vi lavavo e vi davo da mangiare ed ora siete voi che lo fate». Sono qui. Ti curo, ti lavo, di metto la crema dove hai la pelle screpolata, ti accarezzo, faccio tutto, ma tu… non andare via, ti prego, stai qui, ho bisogno ancora di te.

Ad un certo punto hai chiesto di papà. E’ questo dunque l’amore, alla fine? Il sentirti chiedere ogni cinque minuti di papà e doverti tranquillizzare regolarmente che «sta arrivando»? E’ in questo che risolve una vita passata insieme? Nel solo desiderio che ti ha amato ti stringa la mano nell’ultimo istante, per accompagnarti altrove, dove lui per ora non può venire?

Infine insieme, tutti e tre insieme al tuo capezzale. Ciascuno con il cuore che scoppia, ciascuno indifeso, con le proprie preghiere, con i propri ricordi, con il proprio dolore che vorrebbe urlare, ma si mantiene dentro una bolla di dignità che prima o poi scoppia e c’è solo da sperare che scoppi il più tardi possibile. L’uno che cercava di rispettare il silenzio dell’altro, la voglia di abbracciarsi che moriva in una piccola carezza, un abbraccio, una parola di sostegno.

Alle sei di mattina siamo fuori. Hai superato la notte, ma non sappiamo se attribuire a questo un significato positivo oppure se è una situazione ancora grave. Siamo ancora su quei divani di pelle rossa, un po’ di robaccia calda che la macchinetta chiama caffè, bollente tra le mani, acida nello stomaco. Potevamo farne a mano, ma almeno scaldava dentro. Ci chiedono di andare in una camera a riposare. Non ha senso stare lì fuori per ore. Lo facciamo. Siamo talmente stanchi che siamo come piccoli soldatini nelle loro mani. Siamo bimbi ubbidienti e saliamo su, ci appoggiamo a un letto o a un divano. Quando la luce si spegne, i nostri occhi vagano al buio, la mente rimane sveglia, il fisico crolla.

Sono le otto, oramai.

8 febbraio

Ore 11:00. Mi sveglio, di soprassalto. Un solo pensiero, te. Sento l’istinto di correre giù da te, ma so che non sarà possibile entrare e starti accanti. In fondo tra mezz’ora ci fanno entrare. Posso stare tranquilla ancora un po’ e cercare di recuperare le forze che mi serviranno dopo. A stare in piedi. A stare tranquilla, per poter tranquillizzare te.

Ore 11:10. L’infermiera entra in camera. Ci chiamano dalla Terapia Intensiva. Abbiamo paura di guardarci negli occhi e leggerci la reciproca la paura. Lo sguardo basso, il sorriso forzato da una parte all’altra quando salutiamo l’infermiera, il viaggio in ascensore. «Aspettate qui». «Voglio entrare, perché ci fate aspettare qui?» Vorrei urlare. Ma se c’è una cosa che mi hai insegnato è la dignità e la classe. Non si urla. Non si fanno scenate. Allora sto composta, vicino al muro. Vorrei crollare ma non posso, spinta tra la speranza e la paura. Infine lo so, o meglio me lo dicono, perché io non potevo saperlo, nonostante io inizi a collegare il risveglio di soprassalto alla tua morte. Non ce l’hai fatta. Il cuore non ha retto. Hanno tentato tutto ed io, quando me lo dicono, penso alla tua sofferenza. Anche questa hai dovuto sopportare. Ci lasciano in disparte. «La prepariamo e poi vi facciamo entrare».

Solo allora il dolore è esondato. Come un fiume in piena si è riversato dappertutto, ha allagato ogni anfratto del nostro corpo e della nostra anima, ci ha sommerso completamente mentre abbracciati cercavamo di sostenerci a vicenda per non crollare. L’uno con l’altro, l’uno per l’altro, ora che tu non c’eri più. Più. La parola che avevamo temuto era arrivata. Più. Non avremmo potuto più parlarti, non avremmo potuto più accarezzarti, non avremmo potuto più ascoltarti, non avremmo potuto più vederti, non avresti passato con noi le feste, non avresti più gioito e sofferto con noi. Tutti i sensi erano morti, con te. Tu dov’eri ora? Ci eri accanto, ci eri sopra? Non c’eri più, era la sola cosa che riuscivamo a ripeterci, chiusi in un abbraccio che ci separava dal resto del mondo.

Quando siamo entrati a vedere il tuo corpo è stato straziante. La pelle liscia e gialla, la bocca aperta, in una smorfia di dolore terribile. Eri il volto della morte dolorosa, che non scorderò più. Ho chiesto «Cosa ti hanno fatto?», ma tu non mi hai risposto. Forse eri lì e non potevi rispondermi. Ho cercato su di te i segni del dolore, volevo capire quanto avevi sofferto, volevo sperare che tu te ne fossi andata almeno con il minore dolore possibile. «Quando arriva a mancare l’ossigeno la percezione della realtà è falsata, non si prova nemmeno dolore». Potevo credere a tutto in quel momento, pur di tranquillizzarmi la coscienza. Iniziavo a chiedermi se avessi fatto il possibile. Iniziai a incolparmi di schiocche cose che avrei potuto fare. Se avessi ragionato lucidamente, forse mi sarei resa conto che non avrebbero fatto la differenza. Ciò che fa la differenza è che invece non ci sei più. Non potrò più chiamarti, venirti a trovare. Sento già la tua mancanza. Sento che il dolore mi soffoca. Mi siedo, mi accascio affianco a te, appoggio la teste al tuo corpo inerte, crollo esausta, perché tanto nulla di me potrà più darmi sollievo. Una carezza mi scuote, ma è solo un medico. Mi porge qualcosa da bere. Sento il sapore aspro in bocca. Non mi chiedo nemmeno cos’è. Deglutisco e torno dov’ero. Sul tuo corpo. L’ho apprezzato, davvero, ma questo non ha scalfito nemmeno un po’ la roccia che ora era intorno a me. Fuori tutti, voglio stare sola con lei. Lasciatemi stare qui, per sempre.

Mia sorella e mio padre vengono a prendermi. Devono prepararla. Adesso nonostante io fossi completamente assente e avessi voglia di rimanere sola con il mi dolore, capivo che dovevo andare avanti. Ci sono molte cose alle quali pensare. I parenti da avvisare. I funerali da organizzare. Scegliere la bara, i fiori, sentire il prete. Non volevo. Volevo solo stare accanto a quel corpo, ma non potevo. Sentivo una voce che ronzava nella testa dicendomi la vita va sempre avanti e anche io avrei dovuto andare avanti. Divenni un robot. Facemmo l’elenco delle cose, tra le lacrime e i singhiozzi ci dovevamo staccare da lei. «Ci vediamo dopo», ma oramai sapevo di dirlo ad un corpo vuoto, che non poteva né ascoltarmi né aspettarmi per davvero.

Ti hanno trasformata. Sei tornata tu. La smorfia d’orrore è stata mutata in un composto sorriso. Le mani sul petto stringono una croce. Tu l’hai portata quella croce, con dignità e compostezza, ma durante la vita. Senza lamentarti troppo. Non riesco a staccarmi da te. Non riesco ad allontanarmi. Ti guardo e ti accarezzo ancora. Non sei ancora troppo fredda. Ti bacio, sono gli ultimi che posso darti. Arrivano i parenti ed ogni volta è doloroso. Vedevo il mio dolore specchiarsi in quello degli altri. Intuivo che nel loro cuore c’era lo stesso mattone che opprimeva il nostro. Cercavo di sorridere. Ma non ci riuscivo, o semplicemente non volevo farlo. I messaggi e le telefonate mi riempivano il tempo. Non mi interessavano cosa dicessero. A volte in queste occasioni non si sa cosa dire. Ma sentivo la forza dell’affetto che mi portavano. Gesti e parole non sono che strumenti per trasmetteei tutto il calore di cui hai bisogno. E lo apprezzavo. Mi stringevo intorno alle persone che amo e quello bastava. Mi rendevo conto che loro sono l’unica cosa che conta davvero e che poteva sollevarmi dal pensiero che all’improvviso tu non c’eri più.

Nemmeno l’unica cosa che ci avevi lasciato poteva rimanere con noi. Il tuo corpo è stato avvolto tra rose e foglie di ciliegio.

Addio mamma. O forse arrivederci.

Dopo l’8 febbraio

All’inizio non riuscivo a non piangere quando ti pensavo, eppure so che avresti voluto solo sorrisi. Così, per non dare fastidio. Però con il tempo il pianto ha lascia spazio ai sorrisi. Non del tutto però. A volte mi coglie inaspettato, quando sto cucinando e penso di chiamarti per un consiglio. Quando vedo la tua fotografia. Quando è stato il tuo compleanno. Quando ricordo, come oggi, che un anno fa festeggiavamo il cinquantesimo anno di matrimonio ed abbiamo fatto una bella festa. Nasce un pensiero e poi esplode nel dolore che il tempo non mitiga. Giorno dopo giorno continuo ad andare avanti, sbircio una foto, perché non ho più altro. Cerco il sorriso che c’era e non c’è più e cerco di sorridere io anche per te, perché è questo che vorresti, non il mio pianto. Allora mi sforzo, soffio il naso e cerco di sorriderti.

Guardo il cielo e sorrido, so che da qualche parte tu sei.
Se non altrove, sei almeno dentro di me.


Dedicato a mia madre
8 febbraio 2011





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