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17 set 2010

Mille volte amore - L’ora delle streghe

Era mezzanotte. L'ora delle streghe, delle principesse che scappano perdendo la scarpetta e delle carrozze che tornano ad essere misere zucche.

Non ho mai amato le favole. Quando ero piccola mia madre me le raccontava tutte le sere, ma io tremavo davanti a quei finali felici, come se avessi dentro di me la certezza che la vita non fosse quella o quantomeno che il mio destino fosse lungi da quell'aura di felicità che circonda principe e principessa quando si baciano sullo sfondo della parola fine. È come se avessi sentito fin da piccola che quel finale non fosse riservato a me, così preferivo libri di mostri, per riempire di fantasmi la mia vita e abituarmi alla paura ed al dolore.


Era mezzanotte ma non era la notte di Halloween. Non ancora.Non c'era in giro nessun gruppo di bambini a chiedere "dolcetto o scherzetto". Non c'erano in giro nemmeno le streghe. Solo io, nella mia cinquecento azzurra appena comprata con i soldi messi da parte in anni di lavoro e quelli racimolati facendo l'animatrice in un villaggio turistico a Panarea. La guidavo con un po' di tristezza nel cuore, con gli occhi ancora pieni dell'acqua trasparente, della sabbia bianca e dei sorrisi della gente. È strano come una persona tendenzialmente cupa come me possa fare l'animatrice, sarà forse per il mio sorriso spontaneo, quello che mi ha insegnato mia madre fin da quando ero piccola, dicendomi che affrontare anche le difficoltà con il sorriso e non con il muso è sempre meglio.

Avevo trascorso la serata in un pub con delle amiche del liceo e stavo rientrando a casa. Ero sovrappensiero e muovevo gli occhi velocemente sugli specchietti solo ogni tanto. Non mi accorsi di quella macchina che a tratti mi seguiva e a tratti mi affiancava. Cambiavo canzoni e canticchiavo, chiusa nel piccolo volume della mia auto ignara del mondo fuori.

Eppure me lo hanno sempre detto di stare con gli occhi aperti la sera. Mi avevano consigliato di farmi accompagnare, "Ma da chi?" rispondevo io, se uscivo solo con le mie amiche perchè dopo la rottura con Alessandro non avevo voluto più saperne di uomini.

Come al solito giravo e rigiravo intorno all'isolato dove risiedeva il mio stabile: da quando avevano aperto quella mega pizzeria era diventato difficile parcheggiare e rinviavo di mese in mese l'affitto di un posto nel garage sotto casa, perchè il mio stipendio di commessa se ne andava tutto tra affitto e sopravvivenza nella metropoli.


Non mi accorsi dell'auto che mi seguiva, fino a che non trovai un parcheggio vicino al parco.


Parcheggiai a spina di pesce e l’auto mi si affiancò. “Nulla di male” pensai cercando di convincermi che era assolutamente normale che qualcuno parcheggiasse esattamente nel posto affianco al mio, davanti ad un parco buio, proprio quando parcheggiavo io.

Vidi con la coda dell’occhio quattro ragazzi sui trent’anni che scendevano dall’auto. Erano ubriachi, ne potevo sentire la puzza e le risate fin dentro la mia macchina senza nemmeno aprire i finestrini e così finsi di cercare qualcosa nel cassetto della macchina di fronte al sedile affianco al mio, aspettando che il rumore fuori scemasse, indicandomi che si erano allontanati. Sentivo che parlavano di andare a mangiare una pizza nel locale proprio affianco al palazzo dove abitavo.

Non so quanto tempo rimasi lì accucciata facendo finta di nulla. Forse cinque, dieci minuti. A parte le voci fuori sentivo soltanto il mio cuore che batteva all’impazzata e la testa che mi urlava di rimettere in moto e andarmene. “Ma dove vado adesso? Dove lo trovo un altro posto?” cercava di controbattere l’altra parte di me e fu quella più forte, perché le gomme rimasero inchiodate lì.

Quando intorno tornò la tranquillità riemersi e mi guardai intorno. Effettivamente quei quattro erano spariti. Il cuore tornò a battere regolarmente. “La solita stupida” pensai tra me e me. Presi la borsa appoggiata al sedile anteriore affianco al guidatore, la infilai a tracolla, presi le chiavi infilandomele ognuna tra le dita, come mi avevano insegnato delle amiche, pronta per una difesa spicciola ma talvolta efficace e scesi. Chiusi l’auto e mi avviai lungo il marciapiede del parco verso casa, con passo affrettato ed il cuore che aveva autonomamente ricominciato a battere forte e potevo sentirlo con le orecchie. Tremavo e avevo lo stomaco bloccato: quel presentimento negativo non mi piaceva.

Camminavo a testa alta, girandomi di frequente per vedere se qualcuno mi seguisse. Avevo le orecchie aperte ad ascoltare i rumori intorno a me, ma sembrava che non ci fosse nessuno, come la notte dei Mondiali in cui tutti sono rinchiusi a casa a vedere la partita in religioso silenzio e nemmeno dalle case trapela il minimo suono umano. Un gatto camminava davanti a me con un’andatura un po’ goffa e mi accorsi che in realtà era una gatta ed era incinta. Non potrò mai perdonare a quel batuffolo gigante bianco e grigio che avevo davanti di avermi fatto abbassare la guardia.


Ero arrivata all’angolo di casa. Pochi metri e sarei arrivata davanti al mio portone, avrei infilato le chiavi e mi sarei fiondata di corsa sulle scale fino al mio appartamento. Mi vedevo già chiudere la serratura di casa e sprofondare sul divano per rilassarmi, quando davanti a me vidi un’ombra di un metro ottanta, due occhi azzurri ed un sorriso bianchissimo su un volto di principe.

- Ma allora le cinquecento non guidano da sole… c’è qualcuno che le guida…
- Mi scusi, mi fa passare? – dissi cercando di dissimulare il terrore dalla mia voce
- Mi dai del “Lei”? Potresti darmi del “Voi” come ai tempi del fascio, bocconcino, perché non sono solo… guarda, ci sono anche i miei amici e ci stavamo giusto chiedendo chi fosse alla guida di quella cinquecento azzurra parcheggiata affianco alla nostra…


Non sapevo cosa fare. Avevo le gambe che mi tremavano, avevo improvvisamente freddo, un freddo glaciale e paradossalmente stavo sudando. La mano stringeva le chiavi e le dita quasi sanguinavano per il dolore. Cosa volevano? Soldi? Cellulare?

- Non ho molti soldi dietro. Se volete ho solo cinquanta euro ed il cellulare.
- Ma non vogliamo i soldi… Ehi, ragazzi – disse il principe – il nostro bocconcino pensa che vogliamo derubarla… No, tranquilla.. pensavamo di accompagnarti a casa, sei sola e in giro c’è brutta gente… prego, ti facciamo da angeli custodi…


E si misero due al mio fianco destro e due al mio fianco sinistro. Non ne vedevo i volti, vedevo soltanto le gambe ed immaginavo la loro altezza, la loro prestanza. Erano molto più alti di me ed in quella penombra sembravano sovrastarmi di gran lunga. Portavo meccanicamente avanti le gambe, una davanti all’altra, percorrendo quei duecento metri che mi separavano dal portono come fossero due chilometri.


Intanto il principe parlava e non la smetteva. Io ascoltavo subendo una parola dopo l’altra ma avevo la testa vuota e pensavo che volevo solo che la smettesse e che se ne andassero via e mi lasciassero in pace. E invece continuavano.


- Mi chiamo Niccolò. Ti piace? … Ehi ma non rispondi? Non hai la lingua?
- Dai Nic lasciala in pace – fece uno dei quattro, quello che li seguiva un po’ più di malavoglia, un po’ indietro, come se non volesse partecipare a quel gioco macabro.
- Perché Joe, non ti piace il bocconcino?
- Nic, su andiamo a mangiare la pizza e poi ce ne torniamo a casa. Sei ubriaco fradicio… dai…
- E tu no? Il cocco di mamma non ha bevuto, vero? No, lui doveva guidare e mammina gli ha detto che non può bere se deve guidare… altrimenti gli toglie l’Audi e non può più fare il figo in giro con le ragazze…
- Nic, smettila… stai esagerando…
- Che cazzo vuoi Joe? – disse il principe Niccolò mentre si spostava dal suo posto riservato in prima fila alla mia destra, si voltava di scatto mettendosi di fronte a Joe, prendendolo per il bavero della camicia.


Non capii bene cosa successe, forse Joe sputò in faccia a Niccolò, ma io udii solo Niccolò che urlava “Che schifo! Stronzo…” e si buttava addosso a Joe. Sentivo il rumore sordo di pugni dietro di me e pensavo di essere salva con quel diversivo. Dovevo ringraziare Joe che aveva preso le mie parti… stavo pensando mentre il cuore rallentava. Ma fu un attimo. Il ragazzo alla mia sinistra si spostò alla mia destra e l’altro che camminava più in là si avvicinò a me e mi presero sotto le braccia sollevandomi. Erano molto alti e per loro fu uno scherzo. Mi ritrovai con la schiena al muro bloccata e chiusi gli occhi per un attimo, mentre alcune parole risuonavano nelle mie orecchie “Dai Nic, lascia stare quello stronzo, guarda che piattino che ti abbiamo preparato…”

No, pensavo. No, urlavo dentro di me. No, per favore. Sono qui sotto casa. Lasciatemi andare. Per favore abbiate pietà. Non sentivo più il mio corpo. Sentivo mani addosso, sentivo che mi strappavano i vestiti, sentivo il freddo e l’umido sul mio corpo e alla fine mi ritrovai a terra, senza più dignità né altro se non un grande buio. Non so cosa sentivo dentro, non so se sentivo più qualcosa. Cercavo di assentarmi. Canticchiavo “Anima Fragile” di Vasco Rossi per distrarmi. Non volevo essere presente. Non volevo piangere. Non volevo dare anche i miei pensieri, oltre al corpo che si stavano prendendo. Volevo essere su un altro pianeta. Cercavo di salire sulle stelle che immaginavo nel cielo. All’improvviso tutto cessò. I miei pensieri stavano tornando, quando mi sentii di nuovo prendere con forza. Era un altro, non so quale dei due che mi teneva ferma si era staccato un attimo e aveva fatto il cambio con Nic. E di nuovo presi il primo treno per le stelle, per andare via di là, da quello sporco marciapiede che insozzava l’anima più del corpo. E di nuovo il cambio, un altro ancora. Dio, quando finirà? Ancora via, canta, mi dicevo, canta per favore cambia canzone, trovane una che ti faccia andare via di là… Mio Dio, per favore…


Non so se fu quella preghiera, ma all’improvviso sentii due mani che mi prendevano con forza e mi trascinavano via ed una voce che già conoscevo che mi diceva di correre, di correre più forte che potevo e le mia gambe obbedivano, nonostante fossero indolenzite. Correvo senza vedere cosa avevo davanti. Vedevo luci nel buio, luci dei lampioni, luci dei fanali, luci delle insegne e correvo, correvo con i polmoni che mi si spezzavano in petto. Non ce la faccio più… Non ce la faccio più… fermati ti prego. Fammi morire. Non riuscirò a sopravvivere a questo. Ti prego… fammi morire…. E mi accasciai per terra, sentendo due braccia che mi sollevavano e mi portavano avanti. Poi fu il buio.


Mi risvegliai e quando aprii gli occhi vidi solo il bianco del soffitto. Non era il mio corpo quello che avevo addosso. Mi sembrava il corpo di un'altra. Non sarebbe stato più lo stesso. Temevo il momento in cui mi sarei dovuta alzare dal letto e avrei fissato il mio volto in uno specchio. Non sapevo chi avrei visto lì dentro, quali occhi, i miei o quelli di un'altra... Era come se avessi ricominciato a vivere distante da me, eppure dentro me. Difficile da spiegare se non ci sei passato.

Non passò molto tempo che sentii una mano calda afferrare la mia. Non capivo chi fosse, non vedevo il volto.

Dopo una decina di minuti arrivò qualche medico. Capivo che erano medici perché sentivo i camici bianchi odorosi di sapone di marsiglia. Aprii gli occhi sulla mano che teneva la mia e seguii lungo il braccio e le spalle quel corpo fino al viso. Non lo conoscevo. Non sapevo chi fosse eppure mi stava tenendo la mano. Aveva il viso di un angelo, con i capelli biondi e gli occhi azzurri. Ero forse morta? No, ero in ospedale, ovvio e cercavo di non ricordare perché.

Alla fine lui parlò. Mi chiese come stavo e riconobbi la dolcezza di quella voce. Mi tranquillizzò dentro e richiudendo gli occhi per riposare trovai la forza per dire due sole parole a quell’angelo:

- Grazie Joe.

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