Non devi adoperarti perché gli avvenimenti seguano il tuo desiderio, ma desiderarli così come avvengono, e la tua vita scorrerà serena.
Epitteto
Il mio nome è Josiane. Adoro questa frase di Epitteto. E’ quello che mi permette di sopravvivere quando mi sento un piccolo burattino i cui fili sono nelle mani di un Gran Maestro che non si cura di dove mi portano le sue mani. Eppure a volte quei fili ai quali mi sento legata e ai quali sono imprigionata, finiscono per intrecciarsi in modo imprevedibile ed allora non puoi che arrenderti e immaginare che forse, quel Gran Maestro, non era poi così distratto mentre li muoveva.
Vivo a Parigi da molti anni oramai. Sono un architetto di successo. Impiego le mie giornate ideando le case degli altri e ne vado fiera, soprattutto quando le cose che faccio piacciono a chi poi deve viverci dentro e passare i propri momenti di gioia e di dolore. So quanto può essere difficile la vita in certi momenti, e trovarsi intorno un ambiente che ti abbraccia e ti coccola è comunque una piccola consolazione.
Almeno una volta al mese torno a casa, dai miei genitori. Io ho trentacinque anni e loro sono piuttosto anziani, perciò vado a trovarli appena posso. Non è un viaggio lungo e lo faccio sempre volentieri. Staccarmi dal caos di Parigi per immergermi nella tranquillità della provincia è come essere in una camera a gas e riuscire a scappare fuori: respiri l’aria a pieni polmoni, ti senti rinascere, torni ad una dimensione più umana.
Barfleur è un piccolo paese della Normandia, proprio sul canale della Manica, di fronte a Portsmouth. I miei genitori vivono lì, in Rue du Pont Salley, ad angolo con Rue Julie Postel. La loro casa è bianca, con il tetto grigio ed i profili di mattoni rossi. Le finestre hanno i profili bianchi e le persiane dello stesso colore, sovrastate da una fila di mattoni rossi. Ce ne sono tre al primo piano e due a piano terra, tra le quali c’è la porta di ingresso.
Adoro quella casa, è la casa dove sono cresciuta, dove ho giocato bambina, dove ho visto nascere le mie prime ribellioni, dove ho pianto e riso, dove ho scoperto l’amore e dove ho perso tutto quello che di bello la vita mi aveva regalato. Ci torno sempre volentieri, anche perchè mia madre ha voluto lasciare la mia camera intatta come il giorno che me ne sono andata a studiare a Parigi: le mie bambole di pezza, i miei disegni, i miei diari, i miei poster, i miei libri. Tutto nello stesso posto dove io l’ho lasciato e questo mi dà la sicurezza che certe cose della mia vita siano ferme lì, nel tempo e nello spazio, ed io possa sempre ritrovarle quando ne sento il bisogno.
Un piccolo giardino separa la casa dalla strada. Il cancello è di ferro grigio tra piloncini di mattoni rossi come la casa ed il muro è bianco. Tre semplici colori, bianco rosso e grigio, che legano quella casa ai miei sentimenti: il grigio che ha argentato i capelli dei miei genitori, il bianco della luce nelle belle giornate di sole ed il rosso della passione.
Quel weekend ero tornata a Barfleur anche se i miei genitori erano via. Mia nonna non stava bene e mia madre aveva voluto andare a passare un mese da lei, a Fleury-sur-Orne, trascinandosi dietro mio padre che adorava andare a pescare in un boschetto situato proprio dietro casa di mia nonna.
Era il 31 ottobre, una data che a me faceva male da quando Antoine era morto. Antoine è stato il mio primo ragazzo, quando avevo sedici anni. Io lo adoravo con tutta la passione che una ragazzina di quell’età poteva avere nel cuore. Era il mio principe azzurro, alto, con un fisico da guerriero, di quelli che immagini uomini d’altri tempi, soldati normanni con l’elmo e l’armatura. E due occhi grigi che attraverso il duro acciaio ti facevano sciogliere.
Lo avevo conosciuto a scuola. Ogni giorno prendevamo insieme l’autobus per Cherbourg-Octeville. Ci eravamo innamorati così, per caso. Seduti l’uno vicino all’altro, con il naso pigiato fuori dal finestrino mentre parlavamo di noi, del nostro desiderio di andarcene via da Barfleur per conoscere il mondo. Antoine morì circa sei mesi dopo che mi aveva baciato e giurato il suo amore. Io non l’ho mai dimenticato. Ho cercato di riempire quel vuoto, ma non sono mai riuscita. Non sono mai riuscita a trovare qualcuno che avesse i suoi stessi occhi profondi, il suo stesso animo nobile e guerriero.
Antoine era morto proprio il 31 ottobre. Quel giorno era festa a scuola e suo padre voleva a tutti i costi insegnargli ad andare in barca a vela. Il mare era tempestoso. Suo padre diceva che si sarebbe temprato, che non poteva imparare ad andare in barca a vela solo nelle giornate di sole e così erano usciti lo stesso. Non erano più tornati. Le ricerche furono vane, non si trovò più nulla di loro, nemmeno una cima della barca.
Il 31 ottobre tutti gli anni torno a casa. Il pomeriggio passeggio lungo il Quai Henri Chardon fino alla pietra di Guglielmo il Conquistatore. Io e Antoine spesso ci fermavamo lì a parlare di noi, di quanto ci sarebbe piaciuto imbarcarci su una nave alla conquista del mondo. Come tutti i ragazzi della nostra età avevamo grandi speranze. Poi rientro verso casa, guardando una per una tutte quelle piccole case di mattoni beige con i loro tetti marroni e le persiane bianche, passo davanti alla casa che era stata di Antoine, quella marrone all’angolo con Rue des Jardins. Seguo sempre lo stesso percorso e torno verso il mare, al piccolo faro alla fine di Rue Postel.
Lì mi siedo sul prato e guardo l’immensa distesa blu. E’ il mio posto preferito per pensare a Antoine: da lì lui se ne era andato ed io guardo il mare, soprattutto quando è tumultuoso e grigio, quasi come se dentro di me ci fosse la speranza che quelle acque possano restituirmene un giorno o l’altro almeno il corpo. Quel mare mi rimane dentro tutte le volte che vado via: lo sento costantemente muoversi in me, onda dopo onda, non si placa mai e rilascia il profumo della salsedine che mi riporta sempre al passato. Sono capace di restare lì ferma per ore, con il vento freddo che mi brucia sulle labbra e fende le guance come una spada, stretta nel mio cappotto, con la sciarpa appena tirata su a coprire la bocca.
Anche quel pomeriggio del 31 ottobre 2011 ero lì. Faceva particolarmente freddo e c’era molta nebbia. «Strano» pensai «ti aspetti che la nebbia sia qualcosa da grandi spazi agricoli, grandi autostrade, posti perduti nella brughiera». Non l’avevo mai vista lì, non l’avevo mai vista sul mare e mi faceva davvero effetto sentire quelle piccole goccioline sulla pelle ghiacciarsi subito al contatto con il vento. Eppure sentivo che dovevo stare lì. Sapevo che Antoine in qualche modo sarebbe tornato: con un pensiero, un soffio di vento, una goccia d’acqua.
Ero ferma a guardare un gabbiano che camminava un po’ goffamente a cinque metri da me, quando una folata più fredda delle altre mi penetrò nelle ossa e provai un brivido intenso. Credo fosse proprio in quell’istante che sentii una voce alle mie spalle:
- Non hai freddo?
Mi voltai e vidi affianco a me, in piedi, un uomo all’incirca della mia età, biondo scuro con gli occhi grigi, molto alto. Pensai che se Antoine fosse vissuto, forse sarebbe diventato come lui, ma poi mi pentii subito di quel pensiero.
- Un po’, ma mi piace stare qui.
- Ci vieni spesso? – chiese l’uomo.
- Vivo a Parigi, ma quando torno dai miei sì, ci vengo spesso.
- Abiti qui vicino, allora?
- Sì. E tu? Come mai sei qui?
- Mio fratello.
- Tuo fratello?
- Sì. Mio fratello è il guardiano del faro.
- Ah... non sapevo ci fosse un guardiano.
- Infatti non c’è. E’ morto.
- Non capisco...
- Mio fratello è morto molti anni fa, da queste parti. Quando ero piccolo mia madre mi raccontava che mio fratello non tornava a casa perchè era diventato il guardiano del faro...
- Mi spiace.
- Oh non deve spiacerti. E’ passato molto tempo, oramai.
- Ti capisco.
- Mi capisci?
- Sì. Avevo un amico. Tanti anni fa. Ed anche lui è morto. Quando sono qui, beh... penso a lui.
L’uomo si sedette affianco a me e rimanemmo un po’ in silenzio.
Poco dopo spuntò un ragazzino da dietro il faro. Ce ne stupimmo entrambi, perchè non lo avevamo visto arrivare. Si portò proprio davanti a noi e ci chiese se poteva scattarci una foto. Gli dicemmo che sì, poteva scattarla e lui tirò fuori una vecchissima Polaroid di quelle che emettono subito la fotografia. Rideva di gusto guardandoci, anche se noi non ne capivamo il motivo. Però quel sorriso ci mise di buon umore e sorridemmo. Sembrava quasi facesse meno freddo... Appena scattata la foto, si sedette di fronte a noi ad aspettare, e quando il foglietto di carta lucida uscì, lui iniziò a sventolarlo per farlo asciugare. Appena la foto fu pronta, me la porse e quando io la presi si avvicinò e mi diede una carezza. Non feci in tempo a fare nulla, che scappò via.
Rimasi con la foto in mano, accanto a quel giovane appena qualche anno più giovane di me, seduto affianco. Guardammo per un po’ la foto e ridemmo di gusto per la facce buffe che avevamo. Il cielo dietro di noi era plumbeo, ma i nostri visi spiccavano per la loro luce contro la grigia nebbia e il nero delle nuvole in tempesta.
- Vuoi venire ad una festa di Halloween stasera? – mi chiese l’uomo.
- Non ti conosco... in teoria dovrei dirti di no...
- Hai ragione. Problema risolto: sono Adrien.
- Io sono Josiane. Dov’è la festa?
- E’ un po’ lontano... ma posso portarti indietro io, se vuoi...
- Dov’è? – insistetti.
- Al Castello di Martinvast, dopo Cherbourg.
- Mm... si può fare...
- Oh, ho un’idea... puoi restare al Castello...
- Restare al Castello? E’ vero... affittano camere...
- Il castello è mio.
- Hai un castello? Cosa sei, un principe?
- No... beh, insomma... è della mia famiglia... in parte è residenza privata e in parte ci sono delle camere... Lo ha ereditato mia madre qualche anno fa, alla morte di mio nonno.
- E’ tutto molto strano, sarò sincera... arrivi qui per caso, non ti conosco, mi inviti ad una festa e a dormire in un castello...
- Sì, hai ragione è tutto molto strano. Anche quel bambino, prima...
- Penso che verrò... – lo interruppi. Qualcosa dentro di me bruciava un grosso “sì” - A che ora?
- Alle dieci. Puntuale e in maschera, mi raccomando...
Adrien si alzò. Mi voltai verso il mare, guardai le onde litigare con le rocce e pensai a Antoine. Era come se in qualche modo lo sentissi vicino, più vicino del solito. Vidi una piccola ciocca di capelli ed una manina spuntare sull’angolo del muretto del faro: era il bambino della Polaroid...
- Ehi... - lo chiamai.
Si nascose dietro il faro e quando mi voltai per dirlo a Adrien, mi accorsi che anche lui era sparito.
***
Appena rientrai a casa telefonai a mia madre. Avevo bisogno di un vestito. Non ricordavo nemmeno l’ultima volta che avevo partecipato ad una festa in maschera: forse era stato da bambina, e in ogni caso un vestito da principessa non sarebbe stato adeguato. Era Halloween, in fondo, non Carnevale.
Seguendo le istruzioni di mia madre, salii in soffitta. Era piuttosto buia, perchè fuori il tempo non era migliorato e la fitta nebbia oscurava la luce del sole. Accessi la lampada e mi sedetti di fronte alla cassapanca dove, seguendo le indicazioni di mia madre, avrei dovuto trovare qualche vestito di quelli di mia nonna.
La cassapanca era di noce con dei profili di bronzo. Un lucchetto malfermo fingeva di tenerla chiusa. Lo tolsi e l’aprii. In superficie numerose buste di plastica racchiudevano trine e pizzi di mia nonna: asciugamani e biancheria ricamata a mano nelle lunghe serate invernali davanti al camino. Mia madre aveva lavato, stirato e imbustato tutto per farmene dono quando mi fossi sposata, ma quel momento era davvero ancora molto lontano: non avevo nemmeno l’ombra di un fidanzato. Presi le buste e le impilai con attenzione sul tappeto. Dopo vari strati di biancheria finalmente trovai dei vestiti. Ne aprii uno a caso e l’impressione che ne ricevetti fu che non si trattasse di vestiti di mia nonna, ma di indumenti che risalivano ad epoche ancora più antiche: probabilmente erano appartenuti a qualche trisavola. Dalle buste trasparenti si intravvedevano i colori: blu notte, viola, verde, azzurro, nero. Pensai che quello nero fosse più indicato per una festa di Halloween e lo scartai. Era davvero bello, in seta liscia e morbida, semplicissimo, con uno scollo a V, stretto in vita, scendeva poi allargandosi un po’. Pensai che sarebbe stato troppo leggero per quella serata e in più era di almeno due taglie più grande della mia, così lo riposi e guardai gli altri.
All’improvviso la finestra della soffitta che dava sul mare si aprì con violenza. Probabilmente mia madre l’aveva lasciata leggermente aperta ed una folata di vento aveva avuto buon gioco per spalancarla. L’aria fredda mi colpì dritta in viso: profumava di salsedine e mi lasciò un sapore salato in bocca ed una sensazione di dolcezza nel cuore. Fu in quel momento che scelsi il vestito che avrei indossato, senza nemmeno sapere come fosse fatto: sarebbe stato quello verde.
Lo scartai, lo indossai e mi portai davanti alla specchiera situata affianco alla cassapanca. Rimasi stupita dall’effetto. Si adattava perfettamente al mio corpo ed il verde era intenso al punto da esaltare in modo incredibile il colore naturale dei miei occhi. Sciolsi i lunghi capelli neri sulle spalle e decisi che sì, quella sera sarei stata una dama dell’ottocento.
***
Partii da casa verso le otto e mezza. Non volevo arrivare tardi e sapevo che con il traffico della sera ci avrei impiegato almeno un’ora, nonostante il castello fosse distante solo di una quarantina di chilometri da Barfleur.
Non ero mai stata in quel castello e appena lo vidi da lontano i miei occhi luccicarono per la sua bellezza. Sapevo che era un castello molto antico, che aveva più di dieci secoli, che era stato distrutto durante la guerra dei Cento Anni e poi ricostruito verso la fine del millecinquecento da Barthole du Moncel, che mia madre diceva essere un nostro antenato. «Un po’ dunque mi appartiene questa bellezza!» pensai mentre guardavo il Torrione, che era l’unica cosa rimasta dell’antica costruzione. Sapevo anche che se quel castello era ancora lì, fruibile a tutti, era soprattutto per merito di un banchiere della famiglia reale di Prussia, che aveva svolto numerosi lavori.
Lasciai l’auto al parcheggio ad un valet che si occupò di parcheggiarla per bene lungo una fila di macchine ben più pretenziose della mia piccola Renault. Mi avviai a piedi verso l’ingresso, aspirando nelle narici il profumo di erba bagnata. Mi colpì non ritrovare il classico giardino alla francese, con ampi viali e grandi canali, bensì un bellissimo prato inglese circondato da boschetti. Mi dava l’impressione che quella scenografia riuscisse a far risaltare in modo insolito il castello e a dargli un tocco di bellezza e di mistero. Il tono giusto per la notte di Halloween.
Il castello di Martinvast |
Ero attorniata da un mucchio di gente, dei quali vedevo le maschere soltanto. Mi bloccò il pensiero di non avere una maschera. Avrei dovuto pensarci, forse? Adrien non me ne aveva parlato, dunque mi tranquillizzai. Iniziai a girare per quell’enorme atrio seguendo il flusso degli ospiti, attraversando saloni e corridoi finemente bardati. Fu in un corridoio che all’improvviso mi colse un brivido di freddo e in quel momento una voce familiare mi abbracciò con il suo caldo fiato alle spalle:
- Buonasera Madame.
Ero sicura fosse Adrien: avrei riconosciuto i suoi occhi grigi attraverso qualsiasi maschera. Sembravano sempre più gli occhi di Antoine. Gli fui grata per l’avermi salvato nel mio girovagare incerto per quei luoghi affollati e sconosciuti, ancor più quando mi offrì una piccola maschera da indossare. Appena l’ebbi indossata, Adrien si piegò verso di me e mi diede un bacio inaspettato sulla bocca, non prima di avermi detto che ero bellissima. La serata prometteva bene e non rimasi delusa. Adrien fu un padrone di casa eccezionale, mi mostrò il castello raccontandomi ogni particolare che si celava dietro ogni piccolo oggetto che vedevamo, storie di famiglia tramandate di padre in figlio che nelle guide turistiche nessuno mai avrebbe mai potuto trovare. Ballammo a lungo e passammo molto tempo a parlare. Erano oltre le quattro, quando il castello si svuotò dei rumori della folla. Rimasero i servitori, che iniziarono a pulire e sgomberare dei segni della festa quelle stanze che, così vuote, mi sembrarono ancora più imponenti.
Adrien mi portò alla reception del piccolo albergo che ospitava alcune camere molto belle.
- Jerome – disse all’uomo che doveva essere il maître-d’hôtel - Madame Josiane si ferma qui stanotte, te lo avevo anticipato.
- Oui Monsieur Adrien. Ho riservato la camera al secondo piano per la signora. La faccio accompagnare?
- No, grazie Jerome. Ci penso io.
Seguimmo una serie di lunghi corridoi e salimmo per un’ampia scalinata dai gradini in marmo piuttosto alti, il che mi fece rimpiangere di non essere poi così allenata. Adrien rispettò l’immagine che di lui mi ero fatta: atletico, imponente nel suo metro e ottanta, era un vero guerriero normanno, sempre più simile all’Antoine che ricordavo.
Quando giungemmo alla stanza, Adrien aprì la porta e mi fece segno di entrare. Il mio stupore fu enorme. Mi sembrava una di quelle stanze che si riservano ad una principessa, con un enorme letto accostato alla parete bianca finemente decorata in legno, un tavolino dove era appoggiato un vaso con rose bianche profumatissime, circordato da alcune sedie in noce con la seduta di velluto giallo, un sécretaire appoggiato alla parete ed un mobile in noce, sul quale era appoggiata una abatjour di porcellana e tessuto bianco. Ma quello che più mi colpì fu l’enorme quadro che trionfava sulla parete proprio di fronte l’ingresso. Una coppia regale in primo piano, e sullo sfondo il Castello: la donna aveva capelli lunghi e neri ed indossava un vestito verde; l’uomo era castano con due profondi occhi grigi ed indossava una divisa militare. La somiglianza era davvero impressionante: sembrava di vedere me e Adrien in uno specchio e visto in quel quadro, Adrien era davvero molto più somigliante a Antoine, di quanto non lo fosse nella realtà. Mi voltai per chiedergli spiegazioni, ma lui non c’era più.
Così corsi giù per la scalinata e per i corridoi del piano terra, perdendomi tra tutte quelle stanze e chiamando a gran voce il nome di Adrien. Un maggiordomo mi fermò, richiamandomi al silenzio e mi indicò la strada. Quando giunsi alla reception e vidi Jerome, il mio cuore cominciò a battere un po’ meno forte.
- Jerome, cerco Monsieur Adrien.
- Prego Madame?
- Monsieur Adrien... mi sono voltata e non c’era più.
- Sono spiacente, Madame, ma Monsieur Adrien non c’è. Non è al Castello. Doveva arrivare stamattina, ma un brutto incidente sulla strada lo ha fatto tardare. Non sarà qui prima di domattina.
- Ma... ma era qui prima, le ha parlato e le ha chiesto...
- Madame, forse non si sente bene? Lei ha prenotato appena è arrivata e dieci minuti fa mi ha solo chiesto la chiave della camera.
- Ma Monsieur Adrien era con me, lo ha visto anche lei, Jerome... gli ha parlato...
- Spiacente, Madame. Forse è solo stanca.
Ero davvero spiazzata. Era possibile che avessi solo sognato tutto quanto?
- Mi tolga una curiosità, Jerome. E’ d’accordo con Monsieur Adrien?
- D’accordo per cosa, Madame? Io... io davvero penso che con una buona dormita tutto sarà più chiaro domattina...
- Monsieur Adrien ha un fratello?
- Sì... non so come faccia a saperlo, Madame... Che brutta storia...
- Mi racconti, Jerome, la prego...
- Monsieur Adrien “aveva” un fratello, Antoine, di cinque anni più grande. Antoine morì che aveva solo sedici anni. Uscì con il padre in barca a vela proprio in questa notte, a Barfleur, e non li trovarono più. Adrien soffrì tantissimo, anche perchè sua madre decise di andare via da Barfleur e trasferirsi qui dai genitori. Monsieur Adrien torna sempre a casa il 31 ottobre, in onore a suo fratello. E da qualche anno ha deciso di onorarne la memoria con una festa al Castello. Mi spiace non lo abbia conosciuto, Madame Josiane... ma se resta qui domattina può incontrarlo...
Ero davvero sconvolta. Salutai Jerome e me ne tornai in camera. Non riuscivo ancora a capacitarmi di quello che stavo vivendo. Presi dalla mia borsa che era appoggiata a terra vicino al sécrétarire la piccola foto del pomeriggio e i miei occhi stentarono a credere a quello che videro: in quella foto c’ero solo io. Adrien era sparito.
Quella notte non riuscii a dormire. I miei occhi scorrevano su quel quadro come raggi di luna su uno specchio d’acqua. Confondendosi con le pennellate del pittore, essi carezzavano il volto di Adrien – o dovrei dire di Antoine? – ne solcavano la bocca, il profilo perfetto del naso, il contorno deciso degli occhi e gli carezzavano i capelli.
Mi addormentai alle sette inoltrate e dormii fino alle undici. Mi alzai, presi un caffè nero e decisi di aspettare Adrien, che era rientrato ma stava ancora riposando. A questo punto volevo conoscerlo. Jerome fu gentilissimo e, nell’attesa, mi fece accompagnare per una gita nell’immenso parco. A dispetto della giornata nebbiosa del giorno prima, quella mattina era tersa, anche se particolarmente fredda.
Fu verso mezzogiorno e mezza che un valet ci venne a chiamare. Monsieur Adrien era arrivato e ci aspettava in biblioteca. Appena lo vidi seppi che era lui. Era il ragazzo che avevo perso quando avevo sedici anni. Era l’uomo che mi aveva cercato sulla spiaggia e con il quale avevo passato la serata, nonostante tutto giocasse contro di me. Era Adrien e Antoine allo stesso tempo. Era quel vento freddo che aveva sferzato il mio viso e bruciato le mie labbra, le gocce di nebbia che congelavano sulla mia pelle, il profumo di salsedine che aveva solleticato le mie narici, l’odore di erba bagnata, il fiato caldo sulla mia nuca.
Non m’importava in fondo chi fosse. Era l’uomo che avevo smesso di cercare, colui che avevo smesso di desiderare da tempo ed ora, in un solo istante, sapevo che in lui avrei trovato la piccola adolescente che avevo perso, quella che non era mai cresciuta, che si sedeva ancora sulla spiaggia ad aspettare una piccola barca a vela.
Così gli sorrisi e gli tesi la mano. Mi guardò, l’afferrò e le sue labbra la sfiorarono di un dolce benvenuto.
- Madame... ?
- Sono Josiane, e lei deve essere Monsieur Adrien, vero?
- Vero, Madame, ma mi chiami solo Adrien...
- E’ un piacere conoscerla...
- Strano, il suo viso mi risulta familiare. Non ci siamo già incontrati, per caso?
- Può darsi, Adrien, può darsi... Molto, molto tempo fa.
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