Sono una persona normale, con un lavoro normale, una famiglia normale.
Eppure non
è vero che la normalità appiattisce i sogni. Basta saper cogliere nella
normalità lo straordinario, quando accade.
Capitolo 1 – Quello strano punto verde sul viola del tramonto
L’aereo si apprestava al decollo,
fermo sulla pista con i motori roboanti.
Il mio naso era schiacciato contro il finestrino. E’
incredibile quanto fascino abbia per me l’aereo, ogni volta che lo prendo. L’idea
che basti abbassare una piccola leva per volare mi tiene attaccata a quel
piccolo pezzo di vetro posto tra me ed il cielo, per inquadrare nella mia
memoria l’istante in cui qualche non precisato comandante abbassa la cloche (o
la alza?) e si impenna verso il cielo.
Domenica scorsa ero in aereo. L’aereo viaggiava già tra le
nuvole ed io non riuscivo a staccare gli occhi dal paesaggio che si figurava
fuori. Un mare tempestoso di nuvole, in movimento con le sue onde fatte di
piccole gocce d’acqua e a partire da un punto lontano nell’orizzonte i sette
colori dell’arcobaleno partivano verso il blu dell’universo, uno dopo l’altro,
come la citazione di un dizionario che spiega cosa sia davvero un arcobaleno: rosso,
arancione, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto. E poi il blu profondo
della notte. Non avevo mai visto tramonto più bello di quello e la mia mente si
fondeva nei vari colori, associando un pensiero a ciascuno di essi.
«Rosso». La passione. Quanti amori
vissuti, quanti amori sognati, quanti amori persi.
«Arancione». La cartella della scuola
elementare. Quella rettangolare con il bordo arrotondato verso il manico, le
cinghie dietro per portarla a spalla.
«Giallo». La luce. Le mattine d’estate
che si colorano presto di una immensa luminosità che regala calore e gioia. Le
passeggiate in pineta, con i raggi che iniziano a riscaldarti la pelle per poi
bruciarti a mezzogiorno.
«Verde». I prati. I prati inglesi, con
le immense distese sulle quali correre a perdifiato finchè non ce la fai più.
«Azzurro». Il cielo sopra il mare, il
cielo sopra le montagne innevate. L’acqua perfetta che ti scivola sulla pelle
regalandoti un brivido intenso.
«Indaco». Il mondo oltre i cinque sensi.
L’essenza del pensiero, della immaginazione, della fantasia. Il voler volare
senza paura di cadere.
«Viola». L’inizio dei colori. La fine
dei colori. Tutto ciò che si trasforma, cresce, ti avvolge e ti trascina via.
«Verde»? Cosa ci fa un punto verde sul
viola?
Cercai di aprire gli occhi per
vedere meglio quel piccolo punto verde che sfrecciava sullo sfondo
dell’arcobaleno? “Un momento, sto sognando?”
L’assistente di volo mi interruppe in quel momento: «Vuole
qualcosa da bere?». La guardai senza rispondere e voltai di nuovo lo sguardo
verso il cielo. Stavo per dire qualcosa quando di nuovo la mia attenzione fu
attratta all’interno dell’aereo: «Vuole qualcosa da bere?». Sì... ho visto
qualcosa fuori... «Sì. Un po’ di acqua frizzante, grazie.» «Salatini o
biscotti?» «Salatini, grazie.»
Quando girai lo sguardo ancora verso l’esterno, l’arcobaleno
era sparito nel blu della notte. Una soffice strada di nuvole che sembrava una
pista da sci galleggiava nel cielo e sotto luci di qualche paese lontano
migliaia di chilometri più sotto. Doveva essere stato uno scherzo di luce o un
riflesso dall’interno. Provai a guardare i miei compagni di viaggio, ma nessuno
vestiva di verde... Ah! Che sciocca... Ma sì, doveva essere stato il riflesso
del vestito della hostess...
«Il comandante informa che stiamo iniziando la discesa verso
Londra. La temperatura al suolo è di 14°C ed il tempo è leggermente nuvoloso.
Alitalia ringrazia per averci scelto e si augura di avervi di nuovo a bordo».
Tornai con lo sguardo fuori. Potevo intuire dall’alto le
classiche case inglesi, tanti piccoli cubi uno affianco all’altro, con tanto
giardino intorno. Man mano che ci avvicinavamo alla città i cubi diventavano
sempre più stretti l’uno all’altro e sempre meno verde intorno. Da quanto tempo
mancavo da Londra? Almeno quindici anni, pensai, dall’ultima volta: avevo il
pancione! E almeno trent’anni dalla penultima: la migliore gioventù.
Un tunnel lungo e passaggi mobili mi condussero attraverso
vari controlli all’esterno dell’aeroporto. Mi infilai in un taxi e cominciò la
corsa verso Londra e la rincorsa nella memoria. Che belle quelle case strette
l’una accanto all’altra, con i portici bianchi con tre o quattro scalini
davanti, le scalette per andare giù in cantina, le finestre a quadretti
bianchi, gli ampi spazi delle sale, le cabine telefoniche rosse, gli autobus a
due piani, i taxi neri con i quattro sedili dietro – posti due rivolti nel
senso di marcia e due verso il senso opposto, i rondò all’incontrario, i
marciapiedi contornati da «Look Left» e «Look Right» per avvisare i turisti
distratti, i poliziotti con la divisa nera ed il manganello, le bombette in
testa a qualche sperduto inglese d’altri tempi, i visi dai lineamenti sottili e
la pelle pallida, contornati da capelli biondissimi e fini.
W l’Inghilterra. 50 pound. Scendo dal taxi, sbrigo le pratiche del check-in in
albergo e mi fiondo in camera stanca.
Capitolo 2 – Peter Pan?
La camera dell'albergo era piccola, ma sufficiente per me
sola. Avevo disfatto le valigie e mi ero immersa in una doccia bollente per
scacciare via la stanchezza di una domenica passata a preparare cibi pronti per
la famiglia, da consumare in mia assenza.
L'acqua era scivolata dolce sul mio corpo all'inizio. Poi
con la pressione di un dito sul soffione aveva incominciato a picchiare duro
sulla pelle, sgocciolando nel tubo di scarico le tensioni e la solitudine.
Mi ero asciugata, incremata e mi ero infine stesa nel letto
sotto un caldo e soffice piumone, a fare un po' di zapping tra le televisioni
inglesi. Niente di nuovo, notavo, rispetto a quelle italiane: politica,
economia, Il Grande Fratello.
Ero appena approdata sulla versione di King Kong in lingua
originale, quando un insistente picchiettio sul vetro mi costrinse a scuotermi
dal torpore per alzarmi a controllare cosa fosse.
Scostai prima le tende pesanti di cotone grigio e poi quelle
leggere bianche e feci un balzo all'indietro con il cuore che iniziava a
battere forte, quando vidi due occhietti piccoli e vivaci guardarmi dall'altro
lato del vetro. Cercai di non farmi prendere dal panico e misi a fuoco quello
che contornava i vispi globi, saldamente puntati contro di me.
Era un omino piccolo e verde che gesticolava e dopo un primo
momento in cui la sorpresa era riuscita a spalancare la mia bocca e bloccare
ogni articolazione, il cervello riprese prontamente possesso delle mie gambe e
mi riavvicinai alla finestra. Era bloccata, con una scatolina rettangolare
sulla quale spiccava una lucina rossa accesa, che mi fece pensare ad un
allarme.
-
Non posso aprirla! - mimai con le labbra e
subito dopo aver pronunciato queste parole l'omino mi guiardò perplesso. Mi
resi conto di essere a Londra. Forse non aveva capito? Ripetetti: - I can't
open it. It's blocked. There's an alarm here - e feci segno verso la scatolina.
Io non so
come fece, ma mi ritrovai in camera quell'omino. Volò come impazzito per tutta
la stanza, come cercasse qualcosa e poi si fermò davanti al mio naso,
galleggiando nell'aria. Mi guardò dritto negli occhi per qualche secondo e poi
mi disse:
-
Non sei ancora pronta?
Di cose
strane nella mia vita ne ho viste, ma questa la superava di gran lunga. Mi
spinsi nel mio pensiero ripetendomi "Svegliati, svegliati" ma lui mi
interruppe:
-
Oh allora, sbrigati!
Balbettai.
-
Ma... Tu... Tu... Tu sei...
-
Ce la puoi fare... - disse lui ridendo ai miei
goffi tentativi di parlare - Va bene, sei visibilmente in difficoltà. Sì, sono
Peter Pan.
Già. Peter Pan. Quell'esserino volante che
vive all'Isola-Che-Non-C'è e perde la sua ombra perchè Trilli la nasconde nei
cassetti di una cameretta da bimbi in casa Darling.
-
Non può essere! - gli dissi razionalmente - Tu...
Tu non puoi esistere! Sei una favola...
-
Sono una "favola" vero? - mi disse
facendo una piroetta su se stesso - e sono qui in carne e ossa. Dài, toccami! -
mi sfidò - Su, avanti, non aver paura...
Paura?
Toccare Peter Pan? Stavo evidentemente sognando, eppure la televisione era
accesa, il letto disfatto, la camera... No, non stavo sognando.
-
Eddài. Toccami... Sono R-E-A-L-E.
Il mio dito segui il suo invito come se avesse una coscienza
propria. Si levò verso di lui e gli toccai quel buffo cappello verde con la
punta in avanti e la piuma rossa dietro. Era davvero R-E-A-L-E. Potevo sentirne
il velluto sotto la mia pelle. Così spostai il dito verso la sua guancia e
glielo passai come se volessi accarezzarlo.
-
Hey vacci piano piccola... - mi disse - potresti
innamorarti di me...
Mi sedetti
sul letto. Sconfitta. Lui mi svolazzò intorno ed io lo seguii con lo sguardo.
Alla fine si fermò di nuovo davanti ai miei occhi.
-
Tu sei Peter Pan?
-
Oh, ci sei arrivata finalmente... Perchè è
sempre difficile con voi farvi credere alle favole?
-
"Voi"?
-
Sì, voi umani. Siete così pieni di realtà che
non credete più a nulla... Allora, sei pronta? Vieni con questa camicia da
notte o ti metti qualcosa di più comodo?
-
Vi... Vieni dove? E "comodo" pe... Per
cosa?
-
"Vieni dove"? "Comodo per
cosa"? Ah....devo proprio spiegarti tutto... Sei stata selezionata tra i
turisti in viaggio a Londra per fare un viaggio straordinario all'Isola che non
c'è.... Ti ho visto sull'aereo... Non ricordi?
-
Sull'aereo?
-
Senti un po'... Sei capace di tuoi pensieri o
ripeti solo quello che dico io?
-
Ma.... Eri tu quel puntino verde
sull'arcobaleno?
-
Siiiiii.... Vedi, mi hai visto! Vengo bene sullo
sfondo dell'arcobaleno, vero?
-
Oh My God! - mi lasciai prendere dallo spirito
anglosassone. - perchè io? E perchè dovrei accettare? E perchè dovrei fidarmi
di te? E perchè...?
-
Oh quanti perchè..... Stai diventando noiosa....
Adesso ascoltami, pensa a qualcosa di bello...
Detto questo volò sulla mia mano,
la prese e mi fece alzare. Con l'altra spruzzò in aria polvere dorata e non so
se fui io a rimpicciolirmi o lui ad ingrandirsi, e non chiedetemi come fu, ma alla fine mi trovai appena fuori dalla
finestra, grande quanto lui, a galleggiare nella fresca aria di Londra, mentre
il Big Ben tuonava la mezzanotte.
Capitolo 3 – L’Isola-Che-Non-C’è
Guardai in basso e subito lo stomaco mi volò in bocca. La
mia camera era al quinto piano dell’albergo e sotto di me avevo... il vuoto.
-
Peter... – sussurrai.
-
Non aver paura... – disse e mi prese per mano,
puntando l’altra verso il cielo. Mi ritrovai nel giro di qualche secondo ben
sopra il palazzo dell’albergo, con una splendida vista sul quartiere di
Bloomsbury.
-
Devo prima farti vedere una cosa... poi andiamo,
ok?
-
Eh? – fu l’unica cosa che riuscii a dire, con
gli occhi incollati al suolo, dove la città sembrava estendersi senza confini,
piena di piccoli punti luminosi che scorrevano su lunghi viali illuminati.
Non era vero. Non poteva essere vero... Eppure era Londra,
ed io ci stavo volando sopra.
-
Peter guarda! Il British Museum... quella cupola
verdognola è il British Museum e là... guarda là, quella è l’università... l’ho
vista sulla piantina mentre venivo a Londra... e quello deve essere Regent’s
Park... l’Inner Circle... avevo pensato di andarci... Oh mio Dio, ma quanto
alto stiamo volando?
-
Hai visto che bello? Non hai più paura, eh?
-
No... non credo... e quel parco?
-
Hyde Park...
-
Già... ma dove mi stai portando?
-
Volevo farti vedere una cosa...
-
Sì, ma cosa?
-
Sei curiosa eh? Siamo arrivati... – disse
iniziando la discesa verso il prato.
-
Hyde Park? Volevi portarmi qui, Peter?
-
Più o meno...
Ci sospendemmo a qualche metro dal suolo. Eravamo incredibilmente
piccoli ed il mondo mi sembrava enorme. Gli alberi intorno sembravano giganti
buoni e il piccolo laghetto che si estendeva sotto di noi mi sembrava un
oceano.
-
Dove siamo, Peter?
-
Siamo ai Giardini di Kensington. Volevo che tu
sapessi dove ho passato la mia infanzia nel Mondo-Che-C’è...
-
Eh? Il mondo cosa?
-
Il Mondo-Che-C’è, sì, insomma... prima di andare
all’Isola-Che-Non-C’è.
-
Tu... vuoi dire che tu hai avuto una infanzia
“vera”? Non può essere... tu... tu sei un personaggio di Berrie... lui ti ha
inventato... com’è possibile?
-
Sì. Vivevo qui... Ero molto piccolo... parlavo
il linguaggio degli uccelli e delle fate... Mi chiamavano “L’uccellino bianco”.
Ho un ricordo molto vago, però questo posto è l’unico posto reale dove posso
rifugiarmi, quando sono triste.
-
Non ti capisco, Peter... sei l’emblema
dell’allegria, della voglia di giocare, di divertirsi. L’eterno ragazzo...
perchè sei triste?
Non mi rispose. Mi afferrò con una mano e con l’altra
spruzzò in aria altra polvere dorata. Gli chiesi:
-
Ma questa è la...
-
Sì... polvere di fata... quella che ci
permetterà di volare. Vieniiii.....
Ancora su in alto, stavolta verso Est, verso i giardini di
Buckingham Palace, il Tamigi, con le sue acque brune e fredde, e infine
Westminster e il Big Ben.
Era come se si fosse liberato qualcosa dentro di me. Come se
tutta la pesantezza dell’essere adulto fosse rimasta nella camera d’albergo. Mi
riempiva la gioia e l’allegria, mi sentivo Wendy che vola insieme a Peter Pan e
come nel film che avevo visto tante volte, alla fine una spinta verso l’alto ci
portò nel cielo stellato e ancora più su, fino a che sotto di me non vidi un’isola
verde circondata da un mare azzurro, una baia con una barca dei pirati e
iniziai a sentire cori ubriachi e voci urlanti di bambini.
« Seconda stella a destra:
questo è il cammino
e poi dritto
fino al mattino.
Non ti puoi sbagliare perché
quella è l'isola che non c'è »
Dall’alto
potevo vedere fiumi e cascate, giardini e boschi immensi, pieni di piante ed
alberi giganteschi. Il mare era una piatta distesa blu ed il sole illuminava
questo paesaggio fiabesco. Fatevo ancora fatica a credere ai miei occhi, ma
alla fine non m’importava se fosse realtà o sogno... in fondo, lo stavo vivendo
comunque e tutto mi regalava una sensazione di felicità, che sembrava essere
rimasta a lungo sopita in me.
-
Dimmi che non sto sognando, Peter... – gli
dissi.
-
Certo che non stai sognando... nulla è sogno se
non la realtà stessa. Solo che a volte non la vedi, non con gli occhi giusti...
Atterrammo in una piccolo prato all’interno di un bosco.
Voci di bambini si sentivano tutt’intorno, ma era difficile dire da dove
provenissero esattamente. Era come se fossero sparsi un po’ dappertutto. Era
come se ne fossi circondata. L’erba fresca e rugiadosa faceva il solletico ai
miei piedi. Gli uccellini svolazzavano appena sopra la mia testa.
-
Capisci come sia difficile scegliere di lasciare
questo posto?
-
E’... bellissimo, hai ragione. Però...
-
Però... è difficile da spiegare davvero quello
che c’è qui. Ti voglio mostrare qualcosa...
Ci inoltrammo nel bosco. Le voci dei bambini si facevano più
vicine, o almeno così sembrava. Riuscivo a distinguere le parole, anche se mi
risultava ancora difficile capire cosa stessero facendo – un gioco, immaginavo
– e distinguere le voci di uno dalle voci dell’altro. Non so per quanto
camminammo o sognai di camminare – perchè ancora oggi non so se quello che
vissi allora è stato un sogno o un pezzo di realtà. Alla fine giungemmo in una
piccola radura. Vidi su di un albero una capanna in legno, alla quale si
arrivava per tramite di una scala, anch’essa in legno. All’esterno della
capanna, due bambini di circa sette o otto anni stavano riparando il ballatoio.
Avevano qualche palo e qualche liana con la quale legavano il palo al
corrimano, sulla parte superiore, ed alle assi del pavimento, sulla parte
inferiore. Sulla scala che portava alla capanna due bimbi di quattro o cinque
anni giocavano con delle spade fatte di legno.
Nella piccola radura appena
fuori dal bosco nel quale ancora eravamo, tanti piccoli bimbi camuffati da
pirati combattevano contro altri. Altri piccoli pulivano il bosco ed altri
ancora raccoglievano erbe e fiori.
Mi girai verso Peter e fu solo allora che la vidi. Piccola,
bionda, con i capelli raccolti in un grosso tuppo sulla testa, un vestitino
verde, delle scarpe bianche luccicanti e due piccole ali che battevano
ritmicamente dietro di lei per tenerla su.
-
Trilli...
– mi sorprese la mia stessa voce.
Peter si accorse della mia meraviglia.
-
Già... Trilli... la piccola impertinente fata
dell’Isola-Che-Non-C’è...
-
Impertinente a chi? – si volse Trilli
indispettita verso Peter Pan.
-
Tu, piccola impertinente fata... potrei
ripeterlo all’infinito. Im-Per-Ti-Nen-Te!
-
Peter, stai attento perchè altrimenti...
-
Altrimenti cosa?
Fu come in un fumetto. Le sue gote si colorarono di rosso,
appoggiò le mani sui fianchi, gli fece una linguaccia, si girò e prese il volo
su da qualche parte verso il cielo.
-
Sempre a litigare voi due, eh? – risi verso
Peter.
-
Lasciala perdere. E’ gelosa...
-
Gelosa? E di chi?
-
Di te...
-
Di me? No, non può essere... e perchè sarebbe
gelosa?
-
E’ gelosa di qualunque donna mi stia accanto...
-
E’ innamorata di te, Peter...
-
Naaa, fa solo finta – disse e poi chiamò a
raccolta tutti quei bimbetti che si aggiravano intorno alla capanna.
Essi si sedettero ubbidienti intorno a noi e solo allora,
quando ebbero tutti fatto silenzio, Peter iniziò a parlare, ad alta voce, come
un vero capo.
-
Bimbi Sperduti... vi presento... oh! – pensò
come tra sé e sé – non ti ho chiesto come ti chiami... Come ti chiami?
Mi scappò una risata.
-
E’ importante? – gli chiesi.
-
Sì, certo che è importante... – mi rispose.
-
Va bene. Posso darti un nome di “fantasia”?
-
Bimbi Sperduti... possiamo accettare un nome di
“fantasia”?
-
Sìììì – urlarono all’unisono i Bimbi Sperduti.
-
Allora, sono... Il Pavone Bianco.
-
Waw... allora Bimbi Sperduti. Il Pavone Bianco
ci è venuto a trovare dal Mondo-Che-C’è. Non resterà qui molto, quindi dobbiamo
approfittare di lei. E’ una scrittrice e ha promesso che quando torna nel suo
mondo scriverà di noi...
Un urlo si alzò dal gruppo di faccine incantate all’ascolto
di Peter. Io rimasi ferma, un po’ perplessa. Quando realizzai quello che Peter
aveva appena detto interruppi quelle urla.
-
Fermi, fermi.... io non ho promesso nulla!
Peter, ma...
Una vocina
femminile dall’alto dell’albero appena sopra di me si sentì:
-
Peter, te l’avevo detto che non potevi
fidarti... tutte uguali le donne! Ma no... tu sei un ingenuo! Non cambierai
mai... Te l’avevo detto che non puoi fi...
-
Lo so che non hai promesso nulla... – la
interruppe Peter, rivolgendosi poi a me. – Eppure lo prometterai vero?
-
Promettere cosa, esattamente Peter?
-
Che scriverai un’altra storia su di noi?
-
Io? Ma... non sono certo all’altezza di Barrie
io...
-
Chi è Barrie? – chiese una vocina piccola
piccola dal fondo del gruppo.
-
Lo scrittore che vi ha inventato... – risposi
d’istinto.
Un mormorio leggero si diffuse come un’onda sulla truppa di
pirati e avversari. “Cosa? Lo scrittore che ci ha inventato?” “Perchè, non
siamo reali?” “Uno scrittore ci ha inventato?”.
-
Silenzio! – urlò Peter.
-
Silenzio! – urlò Trilli.
-
Silenzio! – urlarono i bambini tra di loro.
-
Parlo io! – urlò Peter.
-
Lasciatelo parlare! – urlò Trilli.
-
Lasciamolo parlare! – urlarono i bambini.
-
Dunque... – riprese Peter, voltandosi verso di
me – Pavone Bianco, tu scriverai una storia su di noi.
-
No! – protestai.
-
No? Perchè... perchè no? – mi chiese Peter.
-
Perchè non sono all’altezza di scrivere una
favola. Come Barrie intendo... – risposi.
-
Mah, vedremo... – sbuffò Peter. Mi volse
imbronciato la schiena e riprese a parlare ai Bimbi Sperduti – Il Pavone
Bianco, F-O-R-S-E, scriverà una storia su di noi. Sapete tutti come si parli
mali di noi, nel Mondo-Che-C’è, vero?
Quasi tutti
in coro risposero con un mesto “Già”, che rimbalzava come una eco di bocca in
bocca.
-
Ebbene, Il Pavone Bianco – riprese Peter – ci
farà risplendere nell’Universo delle Favole!
-
No, Peter, ma che stai dicendo? – gli chiesi.
-
Ti ho portata qui apposta. Tu scrivi, no?
-
Io... beh, sì... un po’...
-
Allora, scriverai di noi.
-
Non so... Peter... non aspettarti...
-
Non hai fiducia in te stessa? – mi interruppe - Vuoi
dire che ho sbagliato a scegliere te?
-
Posso provarci... ma che... che storia?
-
Beh, una storia... puoi passare qui quanto tempo
vuoi e poi torni nel Mondo-Che-C’è a scriverla...
-
Ma io ho famiglia... ho dei bambini... Non posso
restare a...
Peter mi
interruppe di nuovo:
-
Portali qui... anzi, anzi... li vado a prendere
io!
Aveva già
chiuso gli occhi per concentrarsi sul suo “pensiero felice” e stava prendendo
un po’ di polvere di fata per alzarsi in volo quando lo fermai.
-
No, Peter, fermo.
-
Eh? – mi guardò stranito.
-
Non puoi... – cercai di spiegargli.
-
Non posso? E perchè mai? Questo è il loro
mondo...
-
No, il loro mondo non è questo...
-
E’ qui che ti sbagli, Pavone Bianco.
Capitolo 4 – Ritorno al Mondo-Che-C’è
Non so quanto tempo trascorsi
all’Isola-Che-Non-C’è, ma ad un certo punto, nonostante i Bimbi Sperduti
fossero dei dolcissimi bambini come quelli “reali” e nonostante Peter fosse
pieno di attenzioni verso di me, dentro di me iniziai a sentire una profonda
nostalgia per il mondo reale.
Così una mattina mi avvicinai a
Peter, dopo che aveva aiutato un Bimbo Sperduto che si era fatto male, e gli
chiesi di parlargli.
-
Voglio tornare indietro, Peter.
-
Di già? – mi guardò lui un po’ deluso.
-
Sì...
-
Ti mancano i tuoi bambini?
-
Sì. Ma non è solo questo...
-
E cos’altro?
-
Vedi, tutto questo non è... non è “reale”. Mi
manca... beh, mi manca la realtà.
-
La realtà?
-
Sì. Mi manca svegliarmi tutti i giorni sapendo
che non è detto che le cose vadano sempre per il verso giusto. Mi mancano le sfide
con me stessa, per dimostrare che sono capace di affrontare le difficoltà. Mi
mancano le mie piccole cose di tutti i
giorni, la gente che si affanna, la gente che ride, la gente che piange...
-
La gente che piange... ti manca? – mi guardava
sempre più perplesso Peter.
-
Sì, Peter. C’è anche tristezza nel mondo e
questo non si può ignorare giocando sempre.
-
E’ vero... – mi disse e abbassò lo sguardo –
Scriverai quella storia per noi?
-
Non lo so. Peter, portami a casa, ti prego...
Non disse nulla. Si alzò, stretto
nel suo piccolo scamiciato verde prato e nei suoi fuseau verde bottiglia,
saltellò un po’ sui suoi stivaletti beige da folletto e alla fine estrasse dal
suo cappello un po’ di polvere di fata e la sparse tutta intorno a noi.
Ci librammo alti nel cielo. In un
attimo fummo sopra Londra e in un secondo davanti al vetro della mia camera
all’hotel Kingsley, Bloomsbury. Il viaggio era durato molto meno che quello
dell’andata. Oltrepassammo il vetro come una magia e di colpo fummo entrambi a
grandezza naturale, nella stanza dell’albergo dal quale eravamo partiti.
-
Grazie, Peter. – gli dissi.
-
C’è una cosa che non ti ho detto sulla storia.
Puoi ascoltarmi ancora un attimo?
-
Certo...
Ci sedemmo sul letto. Aveva un viso
dolcissimo, uno di quei visi dei quali ci si innamora, uno di quegli sguardi
nei quali puoi perderti per sempre. I suoi occhi esprimevano tristezza, un
sentimento profondo, insolito per come ero abituata a pensare al Peter Pan dei
miei sogni.
-
Vorrei che tu scrivessi qualcosa di particolare.
-
Cosa?
-
E’ da quando mi hanno creato che sento sempre
parlare male di me...
-
Peter, no! Cosa te lo fa pensare? Sei l’idolo
dei bambini, l’eterno bambino che c’è in ogni adulto, quello che tutti almeno
una volta hanno desiderato incontrare o essere...
-
E’ proprio questo, Pavone Bianco.
-
Proprio... questo? – gli dissi senza capire cosa
voleva dirmi.
Guardavo i suoi occhi sperduti.
Desideravo aiutarlo ma non sapevo come.
-
E’ proprio l’essere sempre associato ad un
modello negativo, quello del Ragazzo-Che-Non-Vuole-Crescere, che mi fa male...
Io ogni tanto volo nel Mondo-Che-C’è. Dove vedo qualcuno che soffre per
amore io mi intrufolo e spio. Sono curioso. Io che non ho mai voluto vedere
fino in fondo cosa è l’amore, a volte ho voglia di capirlo e lasciarmi
travolgere, ma mi fa paura. Sento tante persone che parlano di uomini
irresponsabili. Li definiscono “eterni Peter Pan”. Beh, io non sono così...
-
Scusa Peter, non capisco. Tu sei quello che
vuole restare all’Isola-Che-Non-C’è perchè non vuole prendersi responsabilità e
vuole rifuggire la realtà...
-
Anche tu sei così...
-
Anche io sono come? – gli dissi piuttosto
alterata. – Spiegami allora, perchè capisca.
-
Io ho solo voluto mantenere la responsabilità di
mostrare agli occhi di un bambino che crescendo non deve perdere la sua gioia
di scoprire le cose, di sorridere alle novità. Io voglio solo insegnare loro a
non avere paura delle cose nuove, a buttarcisi dentro e provarle, anche se a
volte ci si può fare male. Io voglio che sappiano difendere le loro idee con la
forza e l’entusiasmo di un bambino, ma rispettando le regole del gioco. Io
voglio che non perdano la fantasia. Io voglio che siano Uomini che non
dimenticano di vivere il mondo con gli occhi dei Bambini. Sono sempre stato
travisato. Mi hanno sempre messo al bando dal mondo degli adulti, ma mi sento
più adulto di molti di loro: io ho scelto di restare all’Isola-Che-Non-C’è
perchè nessuno possa mai smettere di credere che c’è la possibilità di un
sogno, che bisogna avere sogni e crederci davvero.
-
Peter... credo tu sia più adulto di molti Peter
Pan che ci sono in giro...
-
E’ vero. Io continuo a provarci, ma sono stufo
di essere frainteso. Voglio che il mondo sappia che il “vero” Peter Pan non è
un irresponsabile. E’ solo un ragazzo che ha voglia che gli adulti sappiano
mantenere in sé quella parte di innocenza, di gioco, di sorriso e di sorpresa
che c’è in un bambino... senza però che questo significhi lasciare da parte le
proprie responsabilità. Io la mia... me la sono presa...
-
E’ per questo che vuoi che io scriva?
-
Sì... vorrei che tu potessi scrivere di questo,
di come sia necessario crescere non lasciandosi sopraffare dalla tristezza,
mantenendo sempre l’entusiasmo, la gioia, la voglia di amare, di essere sé
stessi, semplici, spontanei e grandi... come lo sono i Bambini.
-
Non hai mai desiderato tornare al
Mondo-Che-C’è?
-
Ho desiderato l’Amore. Ho desiderato di viverlo
nel profondo. Ho desiderato lasciarmi trascinare da esso verso limiti
altrimenti irraggiungibili. Ma so che non posso farlo. Non qui...
-
E Trilli?
-
Trilli mi ama, lo so. Ma non posso lasciarmi
andare...
-
Scriverò, Peter. Scriverò di questa avventura e
spero che essa passi di bocca in bocca perchè...
Mi baciò. All’improvviso. Si
avvicinò, accostò le sue rosse labbra alle mie.
Chiusi gli occhi e quando li
riaprii mi ritrovai sul letto, da sola. Mi guardai intorno, corsi alla
finestra, ma non c’era più. Non poteva essere sparito così... Forse non c’era
mai stato... Forse avevo solo sognato...
Mi alzai e passando davanti allo
specchio mi fermai un attimo a guardarmi il viso. Portai istintivamente le mani
alla bocca e mi chiesi se fosse stato vero.
Mi infilai sotto il piumone,
spensi la luce e chiusi gli occhi. Iniziai a rivedere una per una le immagini
di quella fantastica avventura, pensando a come avrei potuto raccontarla, senza
chiedermi più se fosse stata un sogno o realtà. Mi addormentai presto, ma non
sognai Peter Pan.
Giurerei quasi di essermi
svegliata più volte quella notte per un fastidioso battito di ali vicino al mio
orecchio. Quando mi svegliai, guardai il mio cuscino e sorrisi: era pieno di
piccola polvere dorata.
Eh sì... Trilli era proprio gelosa
di me!
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