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10 gen 2012

Era Clarissa


Capita così per caso, che esci dall’ufficio in un freddo pomeriggio d’inverno e vedi una donna che esce da una farmacia. In testa ti ossessiona l’idea di come sia fatta la sua vita, la immagini e ti inventi una piccola storia... questa.


Eccola che esce dal negozio. E’ lei, Matilde, con il suo cappotto bianco abbottonato fin sotto il collo. Con la sua sciarpa di cashmere annodata alla moda. Il suo cappello bianco con la tesa larga. I suoi capelli neri che le scendono lungo le spalle e si intrecciano sulla schiena in finti boccoli da parrucchiere. Perfetto il trucco, gli occhi  marcati da un filo di eyeliner e un accenno di mascara che le allunga le ciglia, un po’ come quelle della pubblicità, il rossetto appena accennato sulla labbra morbide. E’ uscita da una farmacia, una mano allungata sul guinzaglio che trattiene uno sgorbio piccolo e peloso di cane da salotto dell’alta società, che abbaia, ovviamente, e la borsa ampia di Prada. Si regge su scarpe decollété con il tacco alto a spillo, almeno dodici centimetri.

Il suo fisico è magro e asciutto, immagino frutto di ore di palestra il pomeriggio. La palestra privata, ovviamente. Quella che si è fatta in mansarda, nel suo appartamento in pieno centro a Milano, in via Montenapoleone, lasciatole dai genitori in eredità qualche anno fa, quando sono morti.

La guardo e vedo me, il suo opposto. Quasi mi vergogno del confronto, ma so che non devo. Ho dovuto combattere fin da piccola contro tutti e tutto. Appena nata ho dovuto lottare per sopravvivere, perchè mi avevano abbandonato nell’ospedale dove avevo visto la luce. Potevate tenerla spenta quella luce, ho pensato spesso, invece di illuminare il mio mondo di merda. Ho dovuto combattere ogni giorno per la merenda, per i giochi, per un cappotto, per un libro, per una carezza o un bacio. La mattina mi svegliavo rattrappita in un letto per il freddo, mi lavavo con l’acqua ghiaccia d’inverno e indossavo la stessa felpa e lo stesso pantalone per giorni interi, finchè non ce li cambiavano perchè si accorgevano che erano troppo lerci. Tutto questo è servito a farmi forte e dura e quando al compimento dei miei diciotto anni sono stata spedita in una casa famiglia, perchè l’orfanatrofio non poteva più ospitarmi, essendo maggiorenne, ero pronta a combattere ancora, per altri obiettivi: un lavoro ed un piccolo gruzzolo di soldi al mese che mi consentisse di sopravvivere in modo dignitoso, senza ridurmi alla prostituzione, come avevo visto accadere a molte delle ragazze con le quali avevo passato la mia infanzia. Non chiedevo altro. Ce l’ho fatta: sono riuscita a studiare e a laurearmi nonostante tutto mi fosse contro, rinunciando a tutto quello che le ragazze della mie età avevano.


Ho immaginato tante volte quella che avrebbe potuto essere la mia vita, se fossi stata io al posto di Matilde. Una casa piena di giochi, una dispensa di merende e torte fresche ogni giorno, cappotti caldi per coprirmi, librerie intere dove passare il tempo, abbracci e baci dei genitori, acqua calda per la doccia o un’intera sauna a mia disposizione, feste e ragazzi e spensieratezza, le scuole migliori da frequentare. Eppure qualcun altro ha scelto per me. Un giorno ha tirato il dado ed ha deciso che io non dovevo avere tutto questo. Non potevo certo prendermela con Matilde perchè la sua vita era stata migliore della mia, perchè lei aveva avuto tutto ed io no. Eppure covavo verso di lei un rancore profondo, che mi aveva portato a stanarla nel suo nascondiglio, a seguirla, a spiarla nella sua vita di ogni giorno per capire come avrei potuto portarle via ciò che in parte, almeno per la metà, consideravo mio diritto avere.
Perchè io e non lei? Era questa la domanda che mi ossessionava ogni giorno, quando mi alzavo la mattina presto e andavo sotto il suo portone, aspettando che uscisse. Perchè io e non lei? Me lo chiedevo quando la seguivo e studiavo il suo modo di fare, il suo modo di vestire, le sue amicizie, i suoi hobby. Perchè io e non lei? Avrei potuto essere al suo posto, ma qualcosa, un indefinibile attimo di tempo ci aveva segnato e aveva regalato a lei una vita speciale, rubandola a me.

La seguivo a distanza perchè avevo paura mi vedesse e mi scoprisse e non avevo idea di come avrebbe potuto reagire se si fosse trovata di fronte a me. Sarebbe scappata? Mi avrebbe accolta? Mi avrebbe cacciato?

Non riuscivo ad immaginare nulla. Sapevo solo che era arrivato il momento di riappropriarmi di ciò che era mio. Avevo studiato ogni particolare con cura e avevo pianificato ogni singola mossa. Quella mattina sarebbe stata l’ultima che avrei trascorso nell’anonimato.

***
Frequentavo Alessio da circa un anno. Era molto affascinante, nel suo genere, ma io non ne ero innamorata, non provavo assolutamente nulla per lui e per questo non m’importava nulla di ferirlo: per me faceva solo parte del piano che avevo studiato per stanare Matilde. Forse mi faceva un po’ pena, per aver avuto la sfortuna di incontrare Matilde e me sulla sua strada. Eppure non provavo alcun rimorso, non credevo in nessun Dio, perchè se ci fosse stato un Dio io avrei avuto giustizia fin dal mio primo attimo di vita.

Sapevo che era innamorato. Di lei. Forse anche di me. Lo capivo dal modo in cui mi parlava, dal modo in cui mi baciava, dall’ansia che percepivo ogni volta che dovevamo lasciarci. Fingevo di essere sposata e di avere dei figli: erano i problemi di Matilde quelli e così mi ero adeguata ed ero stata a quel gioco. In fondo era una divertente trasgressione al mio piano, che non avrei mai immaginato, in attesa di chiudere il disegno che stavo pianificando ai danni di Matilde. Tra lei ed Alessio non potevano esistere imprevisti nè sorprese nè improvvisate: era tutto programmato, per impedire a Nicholas, il marito di Matilde, di scoprire la tresca. Si lasciavano un biglietto al parco sotto casa di Alessio, vicino la panchina verde che costeggiava la cancellata a sinistra dell’ingresso principale, in una piccola scatola di legno nascosta appena sotto terra, sulla radice più sporgente dell’albero dietro la panchina. Io ero riuscita perfettamente ad intrufolarmi nei loro carteggi, intercettavo i biglietti di Matilde e li usavo a mio piacimento, intervallando i miei appuntamenti con i suoi. Con i miei travestimenti potevo sempre essere accanto a loro ed ascoltare quello che si dicevano, tranne, ovviamente, quando si chiudevano a casa di Alessio a fare l’amore.

Nei panni di Matilde ero perfetta: Alessio non si era mai accorto di nulla. Del resto io e Matilde eravamo due gocce d’acqua: due gemelle separate alla nascita.

Quella mattina Alessio era nervoso, non capivo perchè. Iniziò a farmi strani discorsi sul fatto che voleva lasciassi la mia famiglia per andare a vivere con lui, che non poteva più andare avanti in questo modo senza avermi sempre accanto. Sì, tutte quelle balle che un uomo innamorato ti sciorina addosso, quelle robe mielose che ogni donna vorrebbe sentirsi dire dall’uomo che ama. Non io. Non Matilde, che aveva la sua sicurezza costruita intorno al padre delle sue figlie e non l’avrebbe mollata per un amante qualunque, pur perfetto nelle arti amatorie.

A me fa schifo l’amore. Non me lo hanno mai dato e non ne ho conosciuto nemmeno il desiderio. Non mi ero mai lasciata coinvolgere da quei tumulti bastardi che ti rendono un idiota totale, ti fanno fremere in attesa che due occhi si appoggino su di te, che due labbra ti sfiorino, che un telefono squilli, che una email si presenti. Il mio tempo era stato dedicato interamente a studiare ed a cercare un modo per sopravvivere e quando devi pensare a quello, tutto il tuo corpo e la tua mente sono immersi a studiare espedienti per fregare la gente, in qualche modo, preferibilmente lecito. E soprattutto lotti contro qualsiasi cosa che possa renderti meno accorto e più debole. E l’amore, si sa, è una di quelle cose che ti spegne tutte le forze che hai per difenderti.

Avevo scelto il giorno del mio compleanno per rivelarmi a Matilde. Alessio sentiva che stava per succedere qualcosa, lo percepiva nell’aria frizzante, lo percepiva addosso a me, stranamente adagiata sul bordo della mia vita a godermi il mio trionfo sulla donna che mi aveva rovinato. Godevo al pensiero del volto di Matilde quando mi avrebbe visto, immaginavo la sua persona così altera e forte scivolare lungo il pavimento e strisciare verso i miei piedi. Avrei finalmente ripagato Matilde di tutte le sofferenze che avevo passato per colpa sua. Avrei trovato sfogo al mio odio represso per tanti anni, nascosto dietro le preoccupazioni del tirarmi fuori dal nulla per diventare qualcosa. Non m’importava che Matilde non avesse colpa delle mie condizioni, di quello che avevo vissuto e sperimentato: oramai io potevo sfogare la mia rabbia solo su di lei ed ora lo avrei fatto alla grande, colpendola nel suo punto più debole, togliendole quella sicurezza che aveva avuto regalata ma della quale non si era mostata degna.

La parte più difficile era stata con Nicholas. Presentarmi nel suo ufficio, fingermi Matilde e chiedergli di pranzare insieme per festeggiare, cercando di limitare le parole, i contatti, con l’uomo che ero certa la conoscesse meglio e potesse scoprire il mio gioco. Invece era stato tutto perfetto. L’avevo perfino baciato e quello sì, quel bacio sì, era stato una favola, ma ero stata costretta a ricacciarmelo in gola.

***
Ero seduta al tavolino con la schiena verso l’entrata del ristorante. Lo specchio davanti a me rimandava le figure alle mie spalle che si muovevano continuamente a quell’ora: chi entrava, chi usciva, camerieri che passavano. L’ultimo squillo della campanella di ingresso mi fece sussultare e guardai l’immagine di me nello specchio, i capelli lunghi, con i boccoli che scendevano contornando splendidamente il viso, il cappotto bianco e abbottonato fin sotto il collo, la sciarpa di cashmere annodata alla moda, il cappello bianco con la tesa larga: Matilde.

Rimase ferma, immobile dietro di me, quando vide Alessio al tavolo con un’altra donna, mano nella mano, gli occhi innamorati. Io ridevo dentro di me ed aspettavo di sentire l’altra campanella, che però tardava. Matilde si mosse lentamente verso di noi e fu Alessio, nel momento in cui Matilde fu alle mie spalle, che sussultò. I suoi occhi viaggiavano dal mio viso al viso di Matilde, increduli, e poi tornavano a riposare sul mio. La sua bocca era spalancata dallo stupore ed io candidamente gli dissi:  «Amore, cosa c’è?  » e poi mi voltai.

Avevo sognato quel momento da molto tempo. Da quando nei carteggi dell’orfanatrofio avevo scoperto il nome dei miei genitori e l’esistenza di una sorella gemella, l’unico scopo della mia vita era stato quello di trovarli, di chiedere loro di spiegarmi perchè mi avessero abbandonato: avevano soldi e possibilità, perchè avevano voluto mantenere solo una figlia e perchè Matilde. Volevo sapere se avessero mai avuto rimorsi e rimpianti, se la notte avessero dormito tranquilli o se l’inferno li avesse perseguitati per avermi abbandonato. Ma era troppo tardi quando riuscii a trovare tutti i loro riferimenti: erano morti qualche mese prima in un incidente. Era rimasta solo lei ed io avevo voluto sfidarla, per capire se davvero lei valesse più di me, al punto di meritare la vita che i nostri genitori avevano scelto di regalare a lei soltanto, invece che fargliela dividere con me.

«Chi... chi sei?» fu solo capace di dirmi Matilde, sconvolta nel trovare nel mio viso quegli stessi lineamenti che ogni giorno vedeva nel suo specchio, con la sola differenza che i movimenti che percepiva di fronte non erano il riflesso di sé. «Alessio, ti prego spiegami, amore...».

Alessio era più inebetito di lei ed era perso nel chiedersi chi fossero quelle due donne, di chi fosse innamorato, con chi avesse fatto l’amore e a chi avesse chiesto di condividere la sua vita. Tuttavia, fu più pronto nel capire che da quella situazione sarebbe dovuto uscire in fretta, dolorante, ferito non saprei dire se più nell’orgoglio o nel cuore. Mentre stava andando via, Matilde lo fermò ed io finalmente sentii la campanella d’ingresso suonare: l’ultimo atto si stava per compiere.

«Alessio, dove vai? Ti prego, io... io ti amo, dimmi dove vai. Io non la conosco, non so chi sia. Ti amo, Alessio per favore non andartene ...».

«Alessio ti amo? Ma Matilde che succede...» disse Nicholas, mentre vedeva Alessio varcare la porta ed uscire dal ristorante e tratteneva Matilde per un braccio. Poi volse lo sguardo verso di me e mi fissò stupito. «E tu chi sei? Chi è Matilde? »

«Chi... chi sei?» disse Matilde, strattonandosi dalla presa del marito e guardandomi negli occhi. «Co... come hai fatto per essere uguale a me? »

La invitai a sedersi, tranquillamente e le misi sotto il naso tutte le carte. Rimase a leggerle per dieci minuti, mentre Nicholas al suo fianco taceva e mi guardava ed io trotterellavo con le unghie sopra il tavolo. Quando Matilde alzò gli occhi, la guardai.

«Sono Clarissa, la tua gemella. Quella che i tuoi genitori hanno ripudiato alla nascita, e non chiedermi perchè. Dovresti chiederlo a loro, ma non puoi più. Ho vissuto in un orfanatrofio per anni, poi sono andata in una comunità. Ma fin dal giorno in cui avevo scoperto di avere una famiglia, una vera famiglia con la quale crescere, io vi ho odiato profondamente. Perchè mi è stato sottratto tutto, l’amore, la sicurezza, la possibilità di esprimermi in questo mondo. Ho dovuto scontrarmi con il mondo invece di averlo ai miei piedi come è successo a te. L’unica cosa che i tuoi genitori mi hanno dato è stato un nome.»

«Ma... io cosa c’entro, che colpa ne ho io? Io non sapevo nulla...»

«Oh questo lo so, ma non sminuisce le tue colpe, mia cara. Ti ho seguito per anni, ho scoperto la vita che fai. Quella vita che i tuoi genitori ti hanno regalato, le opportunità che ti hanno dato, l’educazione secondo la quale sei stata cresciuta le hai cestinate nel primo bidone che hai trovato sulla strada. Hai un marito che ti adora. Due splendide bambine. Ti puoi permettere di non lavorare e andare in palestra tutti i giorni. E tu cosa fai? Ti fai un amante, ci scopi almeno tre volte alla settimana e quando lui ti chiede di rinunciare a tutto per lui, tu pensi di lasciarlo. Perchè lui è solo un professore, perchè lui non può permettersi un appartamento in via Montenapoleone. Con lui dovresti sporcarti ogni giorno per andare a lavorare. Dovresti alzarti la mattina presto, curare le tue figlie, sentire il loro rigurgito caldo sulla camicia bianca pulita. Dovresti correre fino a sera e poi a casa ricominciare. Invece con Nicholas – povero Nicholas, quanto mi fai pena» dissi rivolto a lui «con Nicholas puoi fare la signora, alzarti tardi, avere il tuo tempo da sprecare. Mia cara, non te la meriti la vita che hai ricevuto. Per questo ho deciso che eri colpevole almeno quanto i tuoi genitori. Io non mi farò più viva. Ho una vita da vivere. Una vita dignitosa. Adesso la mattina potrò svegliarmi senza più chiedere perchè: saprò che ognuna di noi ha avuto quello che meritavo. Potrò camminare a testa alta, guardare negli occhi la gente e dire sì, ho avuto una vita d’inferno, ma quello che ho l’ho meritato fino all’ultima goccia di sangue.»

Mi alzai, afferrai la mia piccola borsa comprata al mercato e me ne andai.

«Clarissa...» disse Matilde alzandosi.

Nicholas l’afferrò, alzandosi anche lui, la prese e la portò verso l’uscita, rincorrendomi.

«Clarissa, un attimo...» sentii la voce di Nicholas dietro di me. Ricordai il suo bacio, forte, appassionato. Ne ebbi una punta di nostalgia ma non volli farmi influenzare. Lo guardai dritto nei suoi occhi grigi e profondi e mi fermai per ascoltarlo. «Eri tu, stamattina nel mio ufficio, vero? » disse con la voce tremante.
«Farebbe la differenza, saperlo?» gli chiesi.
«Sì....»
«Nicholas, che cazzo stai dicendo?» si intromise Matilde.
«Tu sei fuori dalla mia vita, Matilde.»  le disse duramente.

Poi si voltò, mi sorrise e mi spinse fuori dal locale, lontano da lei.

Mi girai un attimo verso Matilde. Il mio trionfo era stato più grande del previsto ed ora vedevo lei, annichilita e piccola, nel suo cappotto bianco, con la sciarpa annodata elegantemente al collo, i capelli neri e pieni di boccoli scesi sulle spalle, lo sguardo macchiato dal rimmel sciolto dalle lacrime, che mi guardava da dietro la vetrina e sembrava una piccola immagine di me, una di quelle che trovi nei parchi gioco, rimandate da uno specchio deformante.

“Non ho più nessun conto in sospeso con te” mi ritrovai a pensare.

E mi girai, per sempre.

Ora potevo finalmente dimenticare la sua vita e vivere la mia.

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