dal Diario della
Regina degli Elfi, la donna con il cappello di paglia
Era la foto di mio padre. Un padre che
avevo conosciuto poco, che avevo amato per quello che era riuscito a darmi di
sé e che avevo odiato per quello che si era portato nella tomba in un lontano
passato che facevo fatica a ricordare. Di lui conservavo oramai solo qualche
sbiadito ricordo, posto in fondo al cuore, il più in fondo possibile perchè non
facesse male. Sapevo che lui era la parte felice di me, quella che pensavo
fosse stata persa per sempre. In quella foto ritrovavo i suoi occhi che
brillavano di felicità, il suo sorriso aperto. Una foto di altri tempi che mi
ricordava Rodolfo Valentino, lui stretto dentro un accappatoio, un asciugamano
tra i capelli e una pipa in bocca.
L’avevo scelta come foto del mio profilo su
Facebook. Tra tante altre, era quella che contrastava di più con l’uomo che
sentivo di essere, un uomo che aveva rinunciato a cercare quella stessa
felicità che mio padre, da un altro tempo e da un altro spazio, sfacciatamente
mi ricordava.
Gabriel.
***
Era un sabato di fine novembre.
Ero stata in giro tutto il pomeriggio con alcune amiche e stavo rientrando a
casa: avevamo girato come matte per tutto il giorno lungo il centro a caccia di
regali. Verso sera ci eravamo presentate puntuali a O'Connell Street per il Big
Switch On, la cerimonia che a Dublino
segna l’inizio delle celebrazioni natalizie. Adoravo esserci ogni anno, da
quando l’avevo scoperta. Era come una piccola magia nella mia vita ed ogni anno
rimanevo incantata e sospesa con l’animo di una bambina che segue affascinata
quei giochi di luce, le stelline che cadono dal cielo lungo i muri delle case,
la faccia del pupazzo di neve che si forma pian piano in un enorme sorriso, la
palla dell’albero che si schianta contro la parete della casa dove viene
proiettata, le finestre che si illuminano di mille colori e i ballerini che
danzano dietro di esse, accompagnati dalla musica “All I want for Christmas is
you, baby”, i fuochi di artificio spiaccicati contro le pareti, i regali che
piovono dall’alto riempiendo i tre piani
di casa, il fuoco che brucia nel camino e l’atmosfera di Natale che ti penetra
dentro e ti riscalda l’anima, perchè a
Natale bisogna essere per forza felici.
Avevamo poi fatto tappa a Temple
Bar, a sentire la Drogheda Brass Band e le sue tipiche canzoni
natalizie, avevamo girato per i mercatini natalizi ed infine avevamo mangiato
qualcosa in un pub della zona, per sentirci una volta tanto un po’ più Dubliners e vivere fino in fondo la
città dove vivevamo.
Ero a Dublino da svariati anni
oramai. Ero fuggita da Milano e non per un amore qualunque o una delusione di
poco conto. Era l’atmosfera della mia città che mi opprimeva, quel correre
correre correre senza fiato per poi trovarsi la sera con nulla in mano se non
briciole di vita, quello spingersi, accalcarsi l’uno sopra l’altro senza sapere
nemmeno chi hai al tuo fianco. Avevo bisogno di una dimensione più umana, di
una città che potessi sentire viva, alla portata delle mie mani, se avevo
voglia di afferrarla. Avevo bisogno di una città in cui la gente non mi
lasciasse fuori dalla propria vita, ma mi abbracciasse e mi tirasse dentro il
vortice dei loro sentimenti. Avevo bisogno di gente allegra, con la voglia di
vivere, e quando mi fu proposto di andare a lavorare a Dublino accettai
immediatamente, perchè il preconcetto di girare per una città di uomini e donne
dai capelli rossi e dai bianchi sorrisi da solo mi metteva un’allegria infinita
dentro il cuore.
Ma quella sera qualcosa non
andava in me. Era come se sentissi l’aria che frizzava, gli elfi in giro che
fanno dispetti, ti scombussolano l’anima e fanno riaffiorare in te il senso di
qualcosa che è perduto o non è mai stato. Mentre infilavo la chiave nella toppa
del portone, immaginavo già i vapori del gettito bollente della doccia sulla
pelle far scivolare giù per il tubo la stanchezza della giornata e con essa il
freddo che mi era penetrato nelle ossa. Eppure qualcosa mi trattenne
dall’entrare subito in casa e mi tirò i capelli per farmi voltare la testa ed
apprezzare il favoloso spettacolo che dietro di me si stava profilando, con la luna piena ed incredibilmente bianca
che si specchiava nella acque del Liffey, proprio al centro del letto del
fiume, accompagnata come in un’orchestra dalle luci dei lampioni che
costeggiavano la strada lungo gli argini. Sopra di me, il cielo intorno alla
luna era coperto di nuvole e mi sembrò perciò ancora più strano che solo quel
piccolo squarcio di universo fosse limpido, come se una mano magica volesse
appositamente fare arrivare e brillare nei miei occhi un piccolo raggio di
luce.
Mi scrollai di dosso la
sensazione che qualcosa di importante stesse per accadere ed entrai in casa.
L’ambiente caldo mi accolse ed avvolse la mia anima che ancora riposava tra le
braccia del Big Switch On, della
gente felice e della musica possente. Buttai la borsa sul divano, tolsi il
cappotto e mi diressi dritta in bagno per la doccia.
Non so quanto tempo vi rimasi,
con milioni di gocce d’acqua che picchiettavano la testa scendendo sul viso,
piccole lacrime che si univano ad una cascata che proveniva inspiegabilmente
dai miei occhi. Lo spettacolo di musica, luci e allegria al quale avevo
assistito mi piaceva proprio per quello, perchè ne sentivo il contrasto con il
mio modo profondo di essere, un po’ schivo, scettico e poco socievole:
tuffandomi dentro quell’orda di gente speravo forse di curare quel lato del mio
carattere, ma ogni anno ne uscivo un po’ “rotta” dentro, come davanti ad uno
specchio dove non riesci più a negare quello che sei, ma puoi chiudere gli
occhi e sognare almeno una volta di essere un po’ diversa. E a volte, dopo
quelle serate in cui fai di tutto per essere felice, mi capitava di piangere a
dirotto.
Uscii dalla doccia e mi accostai
allo specchio per vedere il mio viso. Ne studiai i contorni regolari e colsi
ancora una volta quel velo di tristezza che non riuscivo a spiegare. Lo
collegai a quella sensazione di attesa che pervadeva la mia anima fin da quando
ero rientrata a casa, e mi dava fastidio non riuscirne a capire la ragione.
Sentivo l’adrenalina scorrere nelle vene, ero convinta che qualcosa da lì a
poco sarebbe successa, ma non riuscivo ad immaginare nulla. Non aspettavo
nessuno, non a quell’ora della sera. Non volevo sentire nessuno. Ero chiusa nel
mio piccolo appartamento al settimo piano del numero 2 di Sir John Rogerson's
Quay, a Dublino e volevo che il resto del mondo non si intromettesse nella mia
vita.
***
Meccanicamente mi preparai la
solita tisana detox, mentre il mio pensiero si concentrava su quella strana
sensazione che sentivo dentro. Non era la prima volta che mi capitava. Ma era
accaduto che essa si fosse trasformata in un niente e la delusione che ne avevo
ricavato era stata profonda, la delusione di un’aspettativa che nemmeno in nuce
aveva contenuto una piccola possibilità.
Mi sedetti sul divano ed afferrai
il portatile. “Un po’ di sano Facebook mi riconcilierà con l’umanità e mi
toglierà il muso”, pensai. Mi collegai al sito e trovai il box rosso dei
messaggi che lampeggiava in alto a sinistra. Cliccai su e vidi la foto di uno
strano tipo con un asciugamano in testa, un accappatoio e una pipa stretta in
un sorriso. “E questo chi è?” mi dissi, certa che fosse l’ennesimo fenomeno
maschile da baraccone che ogni tanto mi capitava di incontrare, tutto frasi
fatte e comportamenti da manuale del Don Giovanni.
Gabriel Karystos.
Aprii il messaggio: "Ciao. Vabbeh tu non mi conosci e
magari ti darà fastidio, però c'è la foto con il cappello che è molto bella e
desta curiosità. Mi piacerebbe conoscerti. "
Rilessi più e più volte la frase
cercando di captarne il significato tra le righe:
tu non mi conosci... beh,
caro, questo è un punto a tuo favore...
e magari ti darà fastidio...
ottima conoscenza della psiche femminile... un altro punto a tuo favore...
però c'è la foto con il cappello
che è molto bella e desta curiosità. Mi piacerebbe conoscerti.
... io
adoro quella foto, ma tu non puoi saperlo... chi sei?
Spensi il PC. Fu una reazione strana, come se lui fosse entrato dentro
di me e mi avesse stanata. Passai dall’ironia con la quale avevo affrontato le
prime battute ad una certezza: quell’uomo aveva in sé qualcosa di speciale, che
un po’ mi attraeva ed un po’ mi spaventava. Non so come nascono certe
sensazioni, ma quando te le ritrovi davanti non puoi ignorarle. Sono come un
rubinetto nella notte che continua a rimbombarti in testa e ticchetta goccia
dopo goccia, arrivando a corrodere anche il più nuovo degli smalti. Così mi
rimbombò nella testa da allora il suo pensiero, la sua immagine con la pipa e
l’accappatoio in testa. Una immagine un po’ buffa, un’immagine d’altri tempi,
eppure non mi domandavo quanti anni avesse, come fosse arrivato a conoscermi,
non m’importava: in quel momento ero terrorizzata dal fatto che fosse entrato
nella mia intimità, per colpa di una foto scattata dopo una tempesta a Cuba,
una foto che io stessa adoravo. Come aveva fatto a leggermi attraverso il mio
mezzo sorriso? Cosa lo aveva spinto a scrivermi, senza conoscermi? Da cosa
nasceva in lui tanto coraggio? Intuivo, anche se non potevo esserne certa, che
non era “uno qualunque”, che non stava seguendo nessun manuale, che aveva
scritto in preda a qualche emozione particolare, ma sicuramente forte.
La mia curiosità fu più forte.
Riaccesi il PC e mi ricollegai a Facebook. Andrai a scrutare il profilo di
quello strano personaggio e capii come fosse arrivato a conoscermi. Era l’amico
di un mio amico, uno di quelli che aveva in piano di venire a Febbraio
dall’Italia per vedere il 6 Nations. “Che faccia da schiaffi”, pensai guardando
la foto sul suo profilo. “Beh, vuol dire che a Febbraio ci si divertirà
tantissimo!!!”.
Decisi di rispondergli, ma mi
limitai ad una risposta un po’ interlocutoria, giusto per osservare la sua
reazione: “Ciao Gabriel! come stai? Mirko
è stato qui lo scorso weekend e mi ha accennato che verrai a Dublino per il 6
Nations! Beh preparati sarà un week end molto intenso!!! La foto con il
cappello fa parte delle miei ricordi cubani, grazie per il pensiero, mentre tu
a quanto pare sei un subacqueo, vero?!!!"
***
Il giorno dopo mi svegliai con la
curiosità di verificare la mia posta di Facebook e scoprire se mi avesse
risposto. Da allora iniziò un fitto scambio di emozioni e parole, di sensazioni
vissute davanti ad uno schermo, che mai avevo provato prima.
Quello che mi sconvolgeva era che
fin dal primo contatto non avevo avuto paura di lui, non mi ero sottratta alle
sue attenzioni, lo avevo accettato nella mia vita, pur essendo lui a me
sconosciuto. Io che sempre ero stata scettica sulle persone, mi aspettavo che
potessero prendersi gioco di me da un momento all’altro, per le ragioni più
disparate, ecco, io stessa non sentii l’esigenza di erigere nessuna muraglia a
difesa di me stessa. Lasciavo che lui mi spiasse dentro come non avevo mai
lasciato fare a nessuno e sentivo in me una profonda fiducia verso di lui, che
immaginavo così affine a me. “Parla la mia stessa lingua”, mi dicevo. Quindi
non c’era bisogno di molte parole per raccontarsi: lo sentivo capace di
penetrare appieno il senso dei miei sentimenti. Quindi non c’era bisogno di
difendersi.
Ripercorsi molte volte il suo
profilo. Mi soffermai tante volte sulle sue foto. Avevo bisogno di capire chi
fosse davvero l’uomo che avevo dall’altra parte del mio video e del mio
cellulare, quello che sembrava fosse sempre presente nella mia vita, qualunque
cosa stessi facendo, e che mi accompagnava con una musica, una frase,
regalandomi emozioni che non ricordavo più di saper provare.
Chi era? Non riuscivo a capirlo.
Da un lato era il professionale uomo d’affari nascosto dietro un completo nero,
una camicia bianca, un volto serio e triste con due occhi che sembravano di
ghiaccio, come se non potesse essere capace di sentimenti; dall’altro quei sentimenti che non apparivano dai suoi
occhi sgorgavano possenti dalle sue parole, si potevano percepire attraverso la
musica che mi regalava, si intuivano nella velocità di risposta pari al desiderio
che sembrava avere di me.
O ancora era l’uomo beffardo e
sbarazzino, con la faccia che sembra prenderti in giro dietro un sorriso
smorzato ed una maglietta con un buffo pupazzo in 3D e le mani dietro la sedia,
che ti guarda con due occhi che sembravano quasi sfidarti: immaginavo di
trovarmi in un gioco che facevo da bambina, nel quale io ero girata, qualcuno
mi sfiorava le spalle e dovevo poi rigirarmi ed indovinare chi fosse stato tra
i presenti. Ecco, lui era lì, mi aveva sfiorato l’anima e seduto in quella
sedia, con le mani dietro la spalliera, sembrava sbeffeggiarmi: “Chi è stato? Io non sono stato”.
Aveva il volto di ghiaccio quando
lo guardavo nelle sue foto, ma quando lo ascoltavo e lo leggevo era un’altra
persona. Aveva il petto ancora sporco del sangue e nelle sue parole sembrava
gridarmi “Sono qui, vieni da me”. La pressione che sentivo era fortissima: la
sua anima camminava verso di me per prendermi, cercava di afferrarmi, mi voleva
a tutti i costi. Ed io volevo capire di chi fosse quell’anima: quella dell’uomo
freddo, quasi rassegnato al dolore, che vedevo nelle foto, oppure quella dell’uomo desideroso di amare e
di donarsi che percepivo quando mi parlava e mi scriveva. O forse era l’anima
di entrambi. Forse non avrebbe potuto essere dell’uno senza essere anche
dell’altro.
Speravo che tutto il dolore che
aveva provato trovasse ora sollievo in me, speravo potesse liberarsene,
prendendomi per mano e chiedendomi di volare con lui. Mi venivano in mente le
parole di una canzone dei Flight of the
Conchords. We can float in a moat.
Il fossato era il suo passato ed io sentivo di poter essere al di là di quel
fossato, a tendergli la mia mano perchè risalisse e galleggiase nell’aria. Make some homemade wings Gonna fly so high with makeshift pillow wings
Girl, can you believe we’re flyin’ with homemade pillow wings. E
volavamo, sì, volavamo insieme. In certi momenti sentivo di essere su un aereo
parallelo al suo, volando alti nel cielo, su un pavimento di nuvole, il mondo
distante giù in basso, che non poteva più fare male a nessuno dei due.
Le piccole ali fatte in casa mi
riportarono in Italia il 23 dicembre e solo il formale obbligo di spegnere i
dispositivi elettronici in volo riuscì ad interrompere quel filo di seta che ci
aveva unito per quasi un mese attraverso tremila chilometri di distanza. Lo
avrei visto: finalmente avrei visto negli occhi la persona che aveva librato su
nel cielo la mia vita. Finalmente avrei tolto la maschera seria e scaltra a
quell’uomo della foto ed avrei tirato fuori di lui l’immagine felice dell’uomo
con la pipa.
***
Quando sbarcai dall’aereo il
primo pensiero che ebbi fu che lui potesse essere lì. Cercai quegli occhi di
ghiaccio tra la folla, ma tutti i visi mi erano sconosciuti, tranne uno. Era il
volto fresco del mio fratellino, chiuso nel suo giubbotto di pelle nera che gli
avevo regalato il Natale scorso e in una felpa grigia con il cappuccio
riversato un po’ all’indietro. I capelli un po’ lunghi e ricci e la barba
incolta gli rubavano un po’ degli anni che aveva. Lo abbracciai fortissimo,
certa che potesse percepire la mia emozione. Mi portò al ristorante per la cena
di famiglia che mio padre organizzava ogni volta che rientravo in Italia, ma io
oramai non stavo più nella pelle, non ora che davvero pochi chilometri mi
separavano dall’uomo che aveva sconvolto la mia vita. Così gli mandai un
messaggio “Perchè non vieni a prendere un caffé qui da noi?”.
Mi rinviò al nostro appuntamento
il 28 dicembre. Dovevo aspettare tre giorni, allora. Il tempo sarebbe trascorso
lentamente, ne ero certa. Tre giorni per poter scoprire il mistero nei suoi
occhi.
Dovevo inventarmi qualcosa per
ingannare l’attesa. A così piccola distanza da lui, messaggi e telefonate e SMS
diventavano un supplizio e non bastavano più: oramai era tempo di vedere i suoi
occhi muoversi alla ricerca di me e scoprire il velo sulla sua anima. Ne avevo
abbastanza di vedere fotografie di un uomo che non era quello che mi scriveva e
telefonava. Volevo il mio Freaky,
quello con il quale avevo volato con le ali fatte in casa, quell’uomo allegro e
felice che mi zompettava con le sue parole sul cellulare, macchiandomi la
faccia di sorrisi.
A posteriori è stato meglio così,
perchè i miei ricordi di lui saranno così per sempre incastonati tra il vischio
ed i fuochi d’artificio.
***
Ero a pranzo il giorno di Natale,
con la mia famiglia, con tutte le persone a me care tranne una. Sentivo che il
tempo non passava più. Contavo i minuti, giocavo con il cellulare e sussultai
quando mi arrivò il suo SMS. “Allora me lo offri questo caffè?”.
Volevo piangere dalla gioia. Il
cuore sembrava essere uscito fuori dal mio corpo, avevo paura che la mia
famiglia lo sentisse e si spaventasse per la velocità alla quale batteva. Avrei
potuto Correre a prepararmi, riguardarmi cento volte allo specchio, ma non lo
feci… e chiedendomi cosa sarebbe successo se non fossi stata come lui si
aspettava che fossi, se non gli fossi piaciuta abbastanza come nella foto del
cappello di paglia… corsi fuori ad aprire la porta. Non avevo paura della mia
reazione: io ero certa che avrei visto qualcuno di diverso, qualcuno al quale
gli occhi brillavano come diamanti, invece di essere depositati come vetro
opaco su una bella spiaggia dorata.
Scesi e mi guardai intorno. Ero
chiusa nel mio cappotto nero, i capelli che mi scendevano sul viso, leggermente
mossi dal vento. Il cuore mi batteva.
Sussultai un attimo quando
incrociai i suoi occhi da lontano e mi sentii sospesa tra il cielo e la terra.
Gli sorrisi. Sorrisi oltre che per la felicità di averlo lì davanti a me, sia
perchè vidi il piccolo fiocco al suo polso: il mio regalo di Natale era arrivato
per il giorno giusto! “Ma allora Babbo Natale esiste!” pensai ed il mio sorriso
sprizzò di felicità. E poi vidi una piccola busta che aveva in mano, dalla
quale spuntavano i suoi due buffi pupazzi, uno rosa ed uno blu, ed un libro che
però, in seguito precisò, era solo in prestito, perchè io potessi leggere
dell’uomo che lui sentiva di essere stato prima di conoscere me. Quell’uomo
glaciale che io non vedevo, nemmeno per un attimo, nei suoi occhi, e che
evidentemente aveva lasciato il posto all’uomo della pipa.
Mi sentii sollevata e felice
mentre l’uomo della pipa si avvicinava. Tutte le mie paure si accesero come una
sigaretta e fumarono via. Lui mi si pose davanti. Mi chiese di non parlare, di
mettere le mani di fronte a me e contare fino a dieci con gli occhi chiusi. Non
capivo dove volesse arrivare, anche se qualcosa mi suggeriva nel cuore ciò che
stava per accadere. Lo guardai un secondo negli occhi e vidi i suoi occhi,
caldi e profondi, completamente trasparenti, sorridermi e invitarmi all’ubbidienza.
Chiusi gli occhi e iniziai a
contare:
Uno... non mi sembra vero… non è più una email un messaggio una
foto una voce, è proprio lui… e mi sentivo sollevata, serena e tranquilla come
non lo ero stata nemmeno in quei giorni di attesa.
Due... Sentivo che mi stava osservando da vicino. Sentivo che stava
ritrovando la mia pelle, il mio naso, la mia bocca, gli occhi sotto il cappello
di paglia.
Tre... Sentii un sospiro tra le mie guance, un lieve respiro di
desiderio.
Quattro... Mossi gli occhi sotto le palpebre. L’attesa era più
lunga del previsto. Ero impaziente.
Cinque... Respirai forte mentre sentivo che si stava accostando a
me e iniziai a percepire il suo odore.
Sei... Le labbra mi tremavano. Oramai mi aspettavo che mi baciasse,
ma volevo che quell’attesa si protraesse il tempo di farmi gustare ogni secondo
del suo avvicinarsi a me.
Sette... Sentivo la stoffa dei suoi vestiti sfiorarmi le mani.
Provai ad immaginare come sarebbe stato sfiorargli le labbra e il desiderio
crebbe in me in modo irriverente.
Otto... Il cuore mi balzò in gola. Non riuscivo più a frenare
l’attesa. Cercai di barare contando più velocemente.
Nove... Oramai era a un millimetro da me. Potevo sentire il suo
cuore battere.
Dieci... Si appoggiò deciso con le sue labbra alle mie.
Rimasi immobile per un attimo,
per godermi quel primo contatto con lui.
Le sue labbra sulle mie,
appoggiate teneramente, adagiate come su un cuscino di seta.
Percepivo il suo cuore e la sua
mente racchiuse in quei due lembi di pelle appoggiati l’uno sull’altro. Sentivo
lui intorno a quella porzione del suo corpo, sentivo la sua anima fluttuare
intorno alla ricerca della mia. Mi stava afferrando, deciso, ma con il suo
cuore. Mi stava portando in cielo, sentivo che mi stava mostrando il mondo che
voleva conquistare insieme a me. Mi penetrò così profondamente nell’anima, che
lì resta ora rinchiuso come la gemma più preziosa che io abbia raccolto, in una
fredda sera di novembre.
La mia anima ti ringrazia per l'emozione provata.
RispondiEliminaSei una penna dell'anima.
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