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13 gen 2012

Otto minuti


Eight by guffy
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Meredith aveva imparato a conoscere  il buio intorno a sé fin da quando era adolescente. Non era cieca dalla nascita. Era stato un incidente a cavallo quando aveva quindici anni a cancellarle i colori e le forme del mondo. Ne era uscita piuttosto male: era rimasta in coma per qualche mese, aveva perso l'uso delle gambe per circa un anno, per poi lavorare sodo con la fisioterapista che i genitori avevano assunto, per metterla in grado di camminare di nuovo. Aveva ricominciato a muoversi lentamente,  sia perchè non si sentiva sicura sulle sue gambe, sia perchè aveva sempre paura di quello che non vedeva di fronte a sé.

A un anno dall'incidente suo padre le aveva regalato un cane guida, che aveva chiamato Blind, con il quale era andata alla scoperta del suo piccolo mondo, facendosene una mappa mentale precisa e dettagliata. Ora, a trentacinque anni, conosceva bene gli ambienti nei quali si muoveva e aveva un altro fedele compagno, Red, il cucciolo di Blind, che le girava sempre intorno, come se volesse proteggerla.

Meredith viveva in un'antica dimora nei pressi di Edinburgo. Un castello un po' malandato, da quando le fortune della famiglia erano cessate a seguito della morte improvvisa del padre. La madre era morta anch’essa qualche anno più tardi per un tumore e Meredith non aveva che un piccolo reddito legato all'affitto di un salone per ricevimenti, ricavato in un'ala della casa padronale. Le risultava difficile quindi curare anche la manutenzione delle strutture della parte del castello dove abitava. Pian piano aveva abbandonato alcuni appartamenti, la biblioteca ed il salone ricevimenti e si limitava a girare nelle cucine del palazzo e nel suo appartamento privato, un tempo destinato a camera degli ospiti. Aveva ancora due domestici, che, quando Meredith non poteva più pagare, avevano cominciato a lavorare presso la società di catering che si appoggiava al salone dei ricevimenti e, nel tempo libero, curavano il castello: Meredith li considerava persone di famiglia, ad essi si era appoggiata per consigli ed aiuti sulla gestione del castello e aveva loro regalato la grande dependence del castello.


Il comune aveva proposto insistentemente a Meredith di ristrutturare i tre quarti del castello, per dedicarli a sedi di mostre permanenti, ma Meredith era sempre stata risoluta nel respingere quelle proposte, perchè gli ambienti ai quali avrebbe dovuto rinunciare erano quelli nei quali aveva vissuto la sua infanzia e l'idea di sconosciuti che si aggiravano per la sua casa, violando i suoi ricordi, proprio non riusciva a sopportarla.

Quella sera di dicembre era particolarmente fredda e nel castello folate di vento si propagavano indisturbate tra le pareti massicce e scure. Il temporale stava per scoppiare, Meredith poteva percepire l'elettricità nei suoi capelli, lunghi e ricci, che increspandosi si portavano sulle guance lisce, graffiandogliele.

Chiamò Red, ma non percepì nessun guaito e nessun respiro affannoso dietro o affianco a sè. Si sentì un po' stranita per quella assenza: quando i domestici se ne andavano, Red diventava parte integrante delle sue percezioni e la faceva sentire tranquilla. Dove si era cacciato quel maledetto birbante? Chiamó più forte, ma le rispose solo un brivido dentro di sè.

Si alzò, allontanandosi dalle cucine per cercare Red. Si muoveva sicura per i corridoi e gli ampi spazi intorno a sè, continuando a invocare il nome della bestia, ma sentiva solo lo sbattere di finestre e il fruscìo degli alberi che si infiltrava dai pertugi nei vetri, facendo da eco al suo implorare.

Iniziò a muoversi più velocemente, sentendosi improvvisamente insicura, rendendosi cosciente delle sue difficoltà motorie, portando le mani avanti, incerta degli ostacoli. La tensione era l'unica cosa che aveva il potere di farle dimenticare la mappa di ogni angolo di casa sua. E in quel momento era tesa, senza che ci fosse un motivo comprensibile, visto che non era la prima volta che Red spariva: altre volte era capitato che si fosse attardato in giardino alla ricerca dei suoi ossi o che fosse scappato presso la dependence per gli avanzi della cena. Ma non era mai stato lontano così a lungo, non quando era buio e la tempesta stava per imperversare.

Meredith si trascinava la gamba destra con rabbia, continuando a chiamare con voce sempre più forte il suo Red. All'improvviso inciampò e cadde. Si riversò su una massa pelosa e informe che iniziò a tastare con le mani tremanti, mentre il battito del suo cuore aumentava in potenza, facendo a gara con il vento a chi urlasse di più. Seguì con le dita il profilo del muso, si spostò sul suo corpo cercando di capire cosa gli fosse successo ed alla fine affondò i polpastrelli nella sua carne. L'odore del sangue sulle sue dita e la sensazione della carne viva sotto di esse le provocò un dolore intenso e fu allora che Meredith urlò il nome di Red, alto e potente, più forte del vento e delle finestre che sbattevano, più possente del tuono che imperversò nelle sue orecchie.

Percepì una presenza dietro di sé, ancor prima di sentire la sua mano afferrarla da dietro e portarsi sulla sua bocca per spegnerle in bocca il suo grido. Ne sentì l'affanno, la tensione ed il desiderio. Sentì il fiato vicino al suo orecchio e la bocca che le sussurrava piano l'atroce verità: «Red è morto».

Provò a girarsi ma non potè, perchè la mano le bloccò il corpo. Quindi l'uomo le girò intorno, portandosi di fronte a lei.  Le labbra erano vicinissime alle sue, quasi la sfioravano e a nulla valse provare a ritrarsi: la mano tozza e ruvida si portò dietro la sua schiena e si ritrovò vicinissimo al suo viso.

«8 minuti, Meredith. Hai solo 8 minuti.»

La presa allentò e Meredith si trovò di nuovo sola, nel buio di sempre. Si accasciò sul corpo ancora caldo di Red, mentre lacrime di terrore si mischiavano al sangue del suo vecchio amico e la bocca assaporava quella sensazione mista di metallo e sale.

Primo minuto

Meredith rimase accasciata su Red per qualche secondo, prima di ricordarsi quelle due parole che lo sconosciuto le aveva sussurrato. "Ho solo 8 minuti" pensò.

Si alzò e corse verso le cucine, incurante della gamba che si trascinava dietro. Aprì la porta dei sotterranei e scese le scale, più lentamente, per evitare di cadere. Quindi percorse il piccolo corridoio fino alla stanza della manutenzione, prese meccanicamente la chiave dal mazzo che aveva in tasca ed aprì la porta. Poi si mise di fronte al generatore elettrico e si fermò, chiedendosi quanto tempo fosse già passato.

Sentiva suo padre dietro di lei. Aveva venti anni, le ferite dell'incidente ancora fresche dentro e fuori di lei, la rabbia ancora padrona del suo cuore. La memoria dei gesti di suo padre guidò la sua mano tremante lungo gli interruttori, tirandoli giù uno alla volta, facendo scomparire pian piano il castello, ala per ala, nel plumbeo nero della notte. Alla fine allungò la mano verso una piccola cassetta nascosta su un armadio affianco al generatore e prese le forbici. Quindi si spostò al lato del generatore, cercò con le mani il filo che suo padre aveva marcato con una scritta braille e lo tagliò. Ricordò le parole di suo padre: «Se mai ti sentissi in pericolo, gioca ad armi pari".» e le aveva spiegato come tagliare i fili della corrente.

Uscì dalla stanza e ripercorse il corridoio verso la scala.

Fu sul primo gradino che ne percepì la presenza dal suo respiro affannoso. E insieme a lui percepì uno strano calore ed una leggera puzza di fumo, forse un accendino o una candela. Non erano ancora ad armi pari.

Le parole le giunsero poco dopo quelle sensazioni.

«Non ti servirà a nulla lasciarmi al buio. Hai solo 7 minuti, Meredith...»

Secondo minuto

Meredith si allontanò dall'interrato mentre la voce le giungeva alle orecchie miste al suono del vento: «Aspetta Meredith. Meredith, Meredith, non vuoi sapere perchè? Non t’importa?».

Si bloccò un attimo, tentata da quella domanda del suo persecutore. Sì, avrebbe voluto sapere perchè, ma l'istinto le imponeva di fregarsene: ci sarebbe stato tempo dopo, forse, per capire perchè. Ora doveva salvarsi.

Con il cuore in gola si diresse verso le cucine e cercò la porta che dava sul giardino, tastando il muro con incertezza, perchè la tensione non le consentiva di trovare la serratura al primo colpo. Il legno marcio della porta le penetrò la pelle ferendola con piccole schegge. Meredith si morse le labbra e continuò a muovere le sue mani dove avrebbe dovuto essere la maniglia. Una volta trovata quella, il buco della serratura sarebbe stato a portata di mano e le chiavi le aveva in tasca.

Con gli occhi era già avanti, nel giardino, figurandosi la strada che avrebbe dovuto percorrere per raggiungere la dependence dei domestici. Lì sarebbe stata salva, ne era certa, e non ci avrebbe messo che cinque minuti della sua corsa lenta e zoppicante, per raggiungerla. Dunque, avrebbe fatto in tempo. Se solo fosse riuscita a trovare subito la maniglia...

Lo sentì dietro, fermo dietro di lei. Sentì prima il suo acre sudore, poi ancora quel respiro affannoso, ma si impose di concentrarsi sulla porta di fronte a sé facendo finta di niente, mentre le piccole schegge nella pelle la facevano sangunare e le facevano perdere un po' di sensibilità sulle dita.

Si sentiva braccata. Sapeva che lui non l'avrebbe fatta uscire dal castello. Sapeva che lui la voleva lì per completare il suo disegno, qualunque fosse. Si innervosì e si appoggiò alla porta, abbandonandosi alle lacrime e alla rabbia. Cosa avrebbe potuto fare? Un moto di orgoglio le riportò le mani sulla porta, mentre la voce giunse alle sue spalle: «E’ inutile fuggire. Non può aiutarti nessuno. Nella dependence sono tutti morti». Gli urlò: «Non è vero. Menti!» E lui le rispose: «Li ho uccisi io stesso, fidati, con queste mani. Così come ho ucciso quel bastardo del tuo cane e così come ucciderò te. 6 minuti, Meredith, 6 minuti».

Terzo minuto

La sensazione che l’uomo fosse dietro di sé scomparve poco dopo, insieme al suo odore ed al suo respiro. Doveva fermarsi un attimo, doveva pensare cosa fare. Ripassò a mente la pianta del piano terra, cercando un rifugio dove potersi nascondere, visto che non riusciva a scappare fuori dal castello.
Si ricordò improvvisamente del grande armadio nella biblioteca dove si nascondeva da piccola. Non entrava nell'immensa sala da anni, aveva paura di non farcela e di perdere tempo, ma sentì l'urgenza almeno di provarci, di non perdere nemmeno una possibilità di sottrarsi a quel maniaco.

Si allontanò dalle cucine, con passo sempre più incerto e le mani avanti, perchè aveva perso oramai tutta la sua sicurezza. L'uomo che la braccava sembrava non essere stato affatto penalizzato dal buio. «Evidentemente ha una torcia» pensò, perchè non riusciva a capire come facesse a seguirla così repentinamente nei suoi movimenti.

Stava per raggiungere la porta della biblioteca, quando percepì dei passi dietro di sé ed ebbe la certezza che lui la stesse seguendo. Quale vantaggio aveva? Nessuno, poteva solo sperare di aprire la porta della biblioteca e chiuderla con il lucchetto prima che lui entrasse, ma sentiva dal rumore delle sue scarpe che l'uomo era abbastanza vicino. E dopo che fosse entrata? Se lui fosse riuscito ad entrare, come avrebbe potuto raggiungere l'armadio al piano superiore, senza che il suo fiato potesse raggiungerla, prima che riuscisse a nascondersi? Non ce l'avrebbe fatta, non senza vedere, non senza correre.

Aprì la porta, la richiuse e riuscì a passare il lucchetto attraverso il gancio della serratura. Il suo cuore rallentò i battiti. Non sentiva rumori, non sentiva battiti, né respiri intorno a lei. Si chiese se ce l'avesse fatta, poi decise che non poteva perdere tempo. Corse verso il primo piano, tenendosi con la mano la gamba zoppicante, salì le scale appoggiandosi con l'altra al corrimano e raggiunse il pianerottolo del piano superiore, con l'affanno e il cuore in gola. Corse lungo il corridoio, tra gli scaffali che puzzavano di carta marcita dal tempo, raggiunse l'archivio e aprì l'armadio.

Si bloccò mentre stava tirando un sospiro di sollievo. Sentì il respiro di fronte a sè ed una mano che le sfiorava la guancia. «Meredith, povera Meredith. Sembra tu non abbia scampo da me. Non fuggire. Non puoi farcela. Mancano solo 5 minuti.»

La tensione ed il ribrezzo per il tocco ricevuto aguzzarono i suoi ricordi e rammentò la botola che conduceva nella caverna dove arrivava il fiume. Si voltò di scatto, mentre sentì la mano dell’uomo quasi afferrarle il braccio. Meredith si strattonò da lui e riprese la sua corsa disperata.

Quarto minuto

Le lacrime solcavano copiose sulle sue guance. La paura stava affondando nella sua mente. Provava a scacciarla, provava a concentrarsi sul percorso che aveva fatto tante volte da ragazzina, quando voleva fuggire dalla rabbia che sentiva dentro e riusciva ad annullare solo immergendosi nelle acque chete e profumate del piccolo fiume che scorreva nella caverna.


L'idea di rituffarsi lì dopo anni sembrò tranquillizzarla quel tanto che bastava a percorrere sicura la scala in discesa, affrontare i corridoi della biblioteca e trovare il piccolo anello di ferro arrugginito che apriva il cunicolo sottoterra che conduceva alla caverna. Sollevò con fatica la pietra e si calò giù per il piccolo buco dove entrava a stento, ora che era una donna, e pensò che forse il suo inseguitore non sarebbe riuscito ad infilarsi lì dentro. La voce che aveva sentito e la mano che l’aveva sfiorata più volte le rimandavano l'immagine di un uomo tozzo, e questo pensiero le smorzò il terrore e le lacrime.
Atterrò sulla roccia che sentì bagnata. Il fiume scorreva ancora. Lo avrebbe trovato tra poco, avrebbe sentito le sue acque bagnarle i piedi, ci si sarebbe immersa e avrebbe nuotato fino all'ingresso esterno della caverna. Lì avrebbe dovuto percorrere un piccolo pezzetto di radura fino ai garage. Poteva prendere una macchina per fuggire! Certo, non vedeva, ma una volta Franz, il figlio dei domestici, le aveva insegnato a guidare, trasformandosi nei suoi occhi, e aveva guidato la Limousine di suo padre lungo il viale d'ingresso. Ce l'avrebbe fatta. Conosceva bene il viale, lo aveva percorso a piedi molte volte. L'unico problema sarebbe stato il cancello. «In qualche modo farò», si disse, mentre percepì l'acqua che le bagnava i piedi nudi.
Si tuffò e nuotò seguendo il percorso del fiume disegnato nella sua mente. L'aria fresca la guidava verso l'uscita. Ricordò che, una volta uscita all'aperto, avrebbe dovuto salire un pezzetto di roccia e avrebbe trovato il camminamento verso il garage subito alla sua sinistra. Le braccia si muovevano spedite: sapeva nuotare bene e in acqua il fastidioso impedimento delle gambe si scioglieva come burro fra le mani. Arrivò in fretta all'uscita e cercò lo spuntone di roccia, che sotto le sue mani percepì molto più liscio dell'ultima volta che vi si era appoggiata.

Stava per darsi lo slancio per salire, quando una mano l'afferrò e trascinò il suo corpo fuori dall'acqua.

«Meredith, piccola Meredith, potevi dirmelo. Ti avrei portato io qui... Che fatica, vero? Tutto per niente... Te l'ho detto, non serve a nulla fuggire. Sono il tuo destino... Meredith, ora dove andrai? Perchè non ti siedi ed ascolti la mia storia? Mancano solo 4 minuti».

Quinto minuto

«No!» Il suo urlo le rimbombò in testa. Si rifiutava di cedere a quell’uomo. Iniziò a correre verso il camminamento, mentre il suo orecchio si tendeva a percepire i rumori dietro di sé. L’uomo non la seguiva. Perchè la faceva soffrire così? Perchè non ucciderla subito, invece di farla scappare e poi riprenderla? In fondo sarebbe bastato un attimo e l’avrebbe potuta prendere. In fondo gli era stata così vicina più di una volta. Gli piaceva invece stuzzicarla con quel gioco perverso, gli piaceva essere una clessidra parlante che scandisce il passare di ogni minuto. Cosa ne guadagnava? Cosa guadagnava dalla sua morte?
La sterpaglia finì e sentì il duro asfalto graffiarle le piante dei piedi. “Dieci passi”, si ricordò e si trovò di fronte alla porta. Sollevò la claire del garage e si portò verso la macchina. Sentì il metallo freddo sotto le sue mani. Cercò la maniglia e aprì la portiera. Si infilò dentro e portò le mani verso il blocchetto sotto il volante, cercando le chiavi. Erano lì: Franz non aveva perso l’abitudine che aveva un tempo, per fortuna! Girò la chiave e il motore rombò per un attimo e poi si spense. Riprovò a girare e il motore rombò ancora. Rimase accesso e Meredith tirò un sospiro di sollievo. Schiacciò la frizione, innestò la prima e poi alzò lentamente il piede dalla frizione, iniziando a premere delicatamente il pedale dell’acceleratore. Funzionava! Si ricordava!
Mentre l’auto solcava piano il viale d’ingresso fino al grande cancello, Meredith contava gli alberi che immaginava ai lati della strada, la lunga fila di alberi di ciliegio dietro i quali si nascondeva da piccola quando giocava con Franz nei pressi della dependence. Arrivò a venti e frenò dolcemente.
Fu allora che sentì il respiro dietro di sè. “E’ sempre stato qui” fu il suo primo pensiero.
«Meredith, mi hai stupito, cara. Non sapevo sapessi guidare. Eppure ora dove vai? Il cancello è chiuso. C’è un grosso catenaccio e tu non ne hai le chiavi, cara. E ti mancano solo 3 minuti. Ti conviene fermarti ed ascoltarmi... solo 3 minuti, piccola».
Meredith aprì la portiera dell’auto e scappò velocemente verso il cancello.

Sesto minuto

Le dita di Meredith toccarono il freddo metallo del cancello di ferro battuto e iniziarono a intrecciarsi con gli anelli disegnati, mentre i piedi accompagnavano quel movimento cercando appoggi sicuri per salire. Con fatica giunse in alto, toccò le guglie appuntite e delicatamente si portò dall’altra parte. “Sono fuori”, pensò. “Sì, ma lui dov’è?”.
Era dietro di lei. Era sempre dietro di lei e non si spiegava come facesse. All’improvviso non lo sentiva più ed il suo udito era molto fine da poter giurare che non ci fosse anima viva nel raggio di almeno cento metri. Riappariva all’improvviso, quando il suo cuore si era messo al sicuro, quando sentiva tra le mani la sensazione della vittoria. Riappariva per sprofondarla di nuovo nel terrore.
“Destra o sinistra?” si chiese, cercando di calcolare velocemente se le potesse convenire di più raggiungere il paese o il piccolo borgo che distava solo cinquecento metri da casa sua. Girò a destra, il paese era appena più in là, ma aveva più opportunità di trovare qualcuno che l’aiutasse. Iniziò a correre, maledicendo la sua gamba che non le stava dietro, cercando di farsi guidare sull’asfalto dai suoi piedi, martoriati dalle piaghe aperte dalle radici sulla strada, dai sassi appuntiti che si infilavano dappertutto sotto di lei. Cercava di ignorare quel dolore lancinante che la trafiggeva dal basso, l’anca che iniziava a cederle sotto lo sforzo della gamba che sentiva sempre meno. Correva contando i secondi.
Fu proprio nel momento in cui arrivò a trenta che pensò “Non ce la farò”, arrestando la sua corsa andando a sbattere proprio contro il corpo del suo carnefice. Lui rise. Una risata diabolica e possente. Una risata che non finiva mai, che la umiliò nel profondo, facendola sentire ancora più cieca e zoppa, se mai fosse possibile.
«2 minuti. Fermati Meredith. Sei stanca. Vuoi da bere? Vuoi riposarti un attimo prima che inizi? 2 minuti... decidi tu, oramai ci siamo!»
Meredith non seppe mai dove trovò la forza di buttarglisi contro. Premendo con tutto il suo corpo, sbilanciò l’uomo che traballò, inciampò contro una radice e si ritrovò per terra. Il suo respiro cessò all’improvviso. Aveva sbattuto la testa ed era morto? Non era il caso di verificare. Meredith riprese la corsa con rinnovato vigore, contando i secondi che mancavano.

Settimo Minuto

Mentre correva, urlava. Sperava che qualcuno la sentisse. Sperava che qualcuno passasse di lì per caso, la vedesse correre scarmigliata e sanguinante e la potesse aiutare. Ma la radura era muta, anche i gufi che di solito la infastidivano di notte tacevano, sonnecchiando sugli alberi. Non poteva essere certa di cosa fosse successo all’uomo. Si ricordò all’improvviso che il suo portachiavi aveva una specie di coltellino svizzero multifunzione appeso tra le chiavi. Mentre correva si portò la mano in tasca e iniziò a tastare il mazzo pian piano per identificare il coltello. Quando lo trovò, le scappò un “Sì” urlato al vento. Con le unghie oramai spezzate cercò di estrarre la lama e ci riuscì poco dopo. La impugnò con la mano destra e spinse ancora di più la sua corsa.
Non sembrava arrivare mai. Ogni pietra della strada le lacerava ancora di più la pelle. Sentiva un dolore lancinante ma non voleva arrendersi, non ora. Il suo esecutore l’aveva lasciata vivere fino a quel momento e lei si sentiva in dovere di lottare per non morire. Continuava ad urlare “Aiuto” ogni cinque passi, ma la speranza di incontrare qualcuno la lasciò dopo un po’ e smise di urlare, lasciando che il freddo si posasse solo sulle sue labbra, senza osare spingersi fin dentro la gola ed i polmoni.
Sbatté contro un cancello basso e la fitta sulla pancia le tolse il respiro. Si ritrovò a terra dopo aver fatto una capovolta e cercò di alzarsi. Si fermò un attimo, perchè aveva perso completamente il senso dell’orientamento.
«Sei più in gamba di quello che pensassi, Meredith. Adesso l’ultimo minuto decido io cosa fai. Siediti qui.»

Ottavo minuto

L’uomo la spinse contro la cancellata e la fece sedere, spingendole il busto contro il legno marcio. Le portò un coltello alla gola e Meredith ne percepì il freddo odore metallico.
«Tu non vuoi parlare con me, vero Meredith? Eppure ti starai chiedendo chi sono, perchè sono qui. Come mai sono venuto nel tuo castello, ho ucciso i tuoi domestici, ho ucciso il tuo cane ed ora voglio uccidere te. O non ti interessa? Beh, te lo dirò lo stesso...
Cara Meredith, non è semplice. Eppure mi sembra strano che tu non abbia riconosciuto la mia voce. Forse perchè ci siamo conosciuti molto tempo fa e tu ora non ricordi. Sì, mi sembra strano, tesoro, perchè ci siamo parlati a lungo. Perchè voi ciechi avete l’udito molto sviluppato...
Però è comprensibile, sì, penso di sì. Sei stata tutta presa dallo scappare da me, non potevi anche attivare tutti i sensi che non fossero quelli legati ad una situazione di pericolo. No? Cosa mi dici, Meredith? Dimmi qualcosa... sono le tue ultime parole...»
Meredith sentì la lama penetrarle lungo la guancia, sentì i lembi della pelle che si staccavano ed un rivolo di sangue scenderle verso il basso. La ferità iniziò subito a bruciare e la sensazione di bruciore la penetrò sempre di più. Sentì la bocca dell’uomo accostarsi al suo orecchio ed una puzza di vino e sigarette le allargò le narici, mentre l’uomo iniziò a parlare:
«Beh Meredith, io sono quel funzionario comunale con il quale hai trattato a lungo, ricordi? In realtà lavoravo a tempo perso per il comune, ma la mia attività principale, segreta, era legata al mondo dell’edilizia... procacciavo affari per il mio padrone, grossi affari... tesoro... molti affari... eppure non sono riuscito a convincere te. E il mio padrone non l’ha gradito. Voleva farci un residence per ricchi con il tuo castello, ma io non gliel’ho portato e mi ha mandato via in malo modo, senza nemmeno darmi tutto ciò che mi era dovuto. Non potevo protestare. Non potevo fare nulla. Sono ridotto in miseria, Meredith. La mia famiglia è ridotta in miseria per colpa tua... mia moglie se n’è andata con i miei figli: mi ha detto che sono un fallito e non merito di stare con lei, devo arrangiarmi. »
La lama si staccò dalla guancia destra per riappoggiarsi sulla sinistra. Qui affondò e Meredith sentì il sangue scendere lentamente, da destra e da sinistra: si posava sulla base del collo e continuava a scorrere, prima sul petto e poi tra i seni. Era ferma, non riusciva a muovere nemmeno una piccola parte del suo corpo. Il dolore la bloccava del tutto e quelle parole sussurrate dentro il suo orecchio rimbombavano nella sua mente, mentre pian piano perdeva lucidità.
«Ho rifletto a lungo sulla mia situazione, cara. Non pensare che io sia arrivato qui alla leggera. No, ci ho pensato e ripensato. Ho provato a pensare a qualsiasi proposta che a te potesse andare bene. Ma alla fine mi sono dovuto arrendere: l’unica cosa che posso fare è ucciderti, piccola Meredith, così potrò consegnarge al mio padrone il castello che desiderava e riguadagnare stima ai suoi occhi. E lui mi riprenderà... oh sì... e tornerò a guadagnare abbastanza per riconquistare mia moglie ed i miei figli. Tornerò a non dovermi più preoccupare di come vivere... magari vivrò nel tuo castello, tesoro! Oggi me ne hai mostrato delle meraviglie impensate...»
Ora la lama le si appoggiò alla base della gola. Qui affondò appena sotto pelle e iniziò a scenderle sul petto. La sua camicetta già fradicia del sangue caduto dalle guance fu lacerata dalla lama e si ritrovò con il seno scoperto pieno di sangue. Mentre la lama feriva la pelle ed il dolore si faceva insopportabile, il freddo le si insinuava dentro e dalle ferite insieme al sangue se ne usciva anche parte della sua coscienza.
«Ecco, Meredith. Il tuo tempo è scaduto. Sono passati 8 minuti... 8 minuti come gli otto anni che io ho sofferto per colpa tua. Del resto sono stato buono: un minuto per ogni anno... una sofferenza breve, se pensi, confrontandola con quella che ho dovuto subire io per colpa tua...»
Meredith chiuse gli occhi, abbandonandosi, pronta a ricevere il colpo finale. Si aspettava ad ogni secondo di sentire affondare nel suo corpo la lama che l’avrebbe uccisa. La sua coscienza si spinse fuori da ogni singolo poro della pelle e in quell’istante Meredith si guardò come distaccata dal proprio corpo. Si concentrò sul suo viso, che ricordava riflesso negli specchi di quando era bambina. Ricordava i suoi occhi verdi, che forse avevano perso colore insieme alla vista. Immaginava l’ovale regolare del viso e le labbra rosee, le guance un po’ piene, i capelli lunghi, neri e ricci che aveva odiato da bambina, a causa dei lunghi pomeriggi che era costretta a passare con la bambinaia, per pettinarli prima di scendere a cena. Non conosceva il suo corpo di donna. Provò ad immaginarselo uguale a quello di sua madre. Fece scorrere i suoi occhi lungo il petto ed i fianchi e lì si arrestò, nel punto in cui le mani si congiungevano quasi in grembo e si rese conto che non era ancora finita.
L’uomo era davanti a sé. La stava guardando e stava canticchiando una canzone che lei non conosceva. Sentiva il suo corpo odioso, era come se lo vedesse di fronte a sé e contro di lui alzò la mano destra, affondando la lama del coltello svizzero dritto nella sua giugulare.
L’uomo ululò e l’afferrò cercando di colpirla a sua volta e le ferì la base del viso, tagliandole la gola, pur se non in profondità. Meredith cercò in sé tutte le sue forze e colpì l’uomo di nuovo, finchè non sentì un rantolo e il corpo che si accasciava inerte su di lei.
Scoppiò a piangere. Fu quella la sua prima reazione. Poi le forze vennero meno, sentì la sua piccola mente librarsi nel vento, ululare dall’alto tra le foglie dei ciliegi ripercorrendo il  viale d’ingresso di casa sua, passeggiare sull’erba bagnata del prato. E quando giunse al castello si fermò, adagiandosi sulla tomba di suo padre e di sua madre, sorridendo ad essi, che riusciva ora a vedere, con il loro sorriso splendente e le loro braccia che si aprivano ad accoglierla.
E dietro di loro, finalmente, la Luce.

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