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7 feb 2012

Quattro giorni


7 febbraio 2011

Il lunedì il Grande Raccordo era più trafficato, ma in fondo prima delle undici non potevamo entrare a trovarti. Erano stati chiari la sera prima.

Ritrovarti alle undici è stato bello, ma fortemente doloroso. La situazione iniziava ad essere critica. «Devo tenere la maschera grande, quella piccola non basta più» ci hai detto «Ho chiesto di metterla quando c’eravate voi». Eravamo la tua famiglia. Eravamo coloro che ti potevano dare sollievo. Eravamo gli unici che potevano starti accanto. Eravamo contenti di farlo, seppure a turno, anche se sapevamo che a te faceva piacere che stessimo vicini tutti insieme. Vicini a te.

Fu doloroso parlare con i medici. La situazione peggiorava. Minore scambio d’ossigeno. La situazione peggiorava ancora. C’era un blocco renale. Dovevamo stare lì, ma potevamo alternarci fintanto che nessun altro paziente era in terapia intensiva. Qualcuno dei medici ci teneva ancora su la speranza. Qualcun altro ci parlava delle manovre di emergenza, di intubazione forzata e dei problemi che si aspettavano per il fatto che tu non avevi una normale spina dorsale.


Quando ci hanno informato che dovevamo essere pronti a decidere se autorizzare manovre dolorose per tentare di salvarti oppure se preferivamo che i medici agissero al meglio, senza farti soffrire, ci siamo guardati negli occhi, indecisi tra la decisione egoistica di tentare il tutto per tutto, sapendo che avresti sofferto, e quella di tentare qualunque cosa potesse essere compatibile con il minore dolore possibile. Cosa potevamo decidere, sapendo che avevi già sofferto, tremendamente, da più di quindici anni ed eri stanca, visibilmente stanca, del tuo dolore? Autorizzare il dolore, per cosa? Per salvarti e tenerti ferma ed immobile su un letto, attaccata ad una macchina dell’ossigeno che ti tenesse in vita? Solo perché avevamo ancora bisogno di te? O potevamo autorizzarti a sbarazzarti  dal tuo corpo, da quel corpo che era già la tua tomba da anni, che lentamente ti aveva inibito anche il più semplice movimento, anche la semplice vista dei tuoi cari, lasciandoti in un mondo bianco ovattato che tu, semplicemente, avevi scelto di non vedere, restando la maggior parte del giorno ad occhi chiusi? Credo sia stato un bene, alla fine, che le cose siano precipitate improvvisamente, a tal punto che i medici hanno dovuto scelto direttamente da sé cosa fare. Per noi sarebbe stato decidere se farti morire già da viva o se farti morire e basta.

Il pomeriggio fu un alternarsi al tuo capezzale. Lo scambio di ossigeno insufficiente già ti portava a non essere più te stessa. Dormivi o semplicemente gli occhi erano chiusi. Non reagivi molto, ma ci sentivi. Sentivi la nostra presenza e ci volevi accanto. Uno alla volta, perché di più non si poteva. Ma ci faceva piacere sapere che ci volevi accanto a te, che ci chiamavi, che chiedevi di chi non c’era, che cercavi una carezza o una parola. In qualche modo ci faceva sentire speciali. Sapevamo che da un momento all’altro avresti potuto dirci cose tremende. Ce lo aspettavamo. Ci avevano informato i medici: è così, non ve la prendete, ma è solo l’effetto della scarsità di ossigeno.

Pensi ad un prato verde. Pensi ad una enorme campagna all’aperto. A quanto ossigeno ci sia, a quanto il tuo naso inspira ossigeno e a quanto butta fuori anidride carbonica. Pensi a questo meccanismo che è assolutamente involontario e naturale. Non fai nulla, eppure vivi. Poi ad un certo punto non fai nulla, e non ci sei più. Tutto indipendente dalla tua volontà di piccolo uomo.

Le carezze infinite. La mano sulla tua. Avanti e indietro, lungo la pelle scarna, ma liscia. Hai sempre avuto delle belle mani. Ricordo da piccola quanto mi piaceva accarezzarle. Ancora oggi quando vedo delle mani come le tue, le chiamo “le mani da mamma”. Ti accarezzo, le mani, il viso. Voglio assaporare questo momento perché sento che stai andando via e voglio trattenere tutto ciò che posso. Quando non sono con te, cerco di stare affianco agli altri, che vedo soffrire come me, che vedo spaesati come me. Un dolore comune e muto. Un dolore senza parole, perché non servono più. Bastano gli sguardi di paura, ogni volta che un medico esce dalla sala. Basta vedersi seduti su un divano, uno di fronte all’altro, sfatti, con lo sguardo perso nel vuoto, per capire quanto dolore c’è dentro. E non basterebbero le parole per esprimerlo. Si può solo provarlo, per capirlo.

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