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Domenica
Era una strana serata di fine maggio a Milano, con un’afa
che di solito solo in luglio colpiva la città, spolverizzandola con
quell’umidità penetrante che giungeva a togliere il fiato e bagnava la pelle
desiderosa di respirare.
Diletta aveva aperto tutte le finestre per creare un filo di
corrente e sedeva appena dietro la portafinestra della cucina, guardando un
pezzo di cielo stellato che faceva capolino tra due nuvole, illuminato da una
luna bianca quasi pallida. Si accese una sigaretta, guardando la fiamma
brillare davanti ai suoi occhi. Tirò su una boccata e si lasciò affascinare dal
tabacco quando iniziò a brillare a cinque centrimetri dal suo naso. Un po’ di
fumo le penetrò negli occhi facendoli lacrimare ed un colpo di tosse la colse
di sorpresa.
Si tirò indietro i capelli biondi, che le ridiscesero
dispettosi sul viso. Erano della stessa lunghezza, le arrivavano fin sotto le
orecchie, e li considerava insopportabilmente lunghi e fastidiosi quella notte.
Pensò che il giorno dopo sarebbe andata dal parrucchiere a tagliarli, corti, “ai
minimi termini”, per poter reggere quell’insolito caldo di fine maggio, ma poi
rise tra sé: era stata due giorni prima dal parrucchiere, perchè aveva visto
Meg Ryan in un film con quel taglio e l’aveva adorato fin da subito, almeno
quanto adorava l’attrice stessa, alla quale molti dicevano lei assomigliasse.
Scostò
appena la canotta dalla pelle umida e si soffiò un po’ d’aria sul petto. Non
portava reggiseno in casa e l’aria le solleticò i capezzoli regalandole un
brivido. Si portò la sigaretta alla bocca e aspirò con voluttà, mentre il
cellulare iniziò a squillare. Pigramente, Diletta allungò la mano sul tavolo
vicino e guardò il display: «Numero Privato». Pigiò la cornetta verde
bestemmiando tra sé, perchè odiava per principio chi non voleva farsi
riconoscere.
«Pronto?»
Non c’era
nessuno in linea. Riappoggiò il telefono sul tavolo e aspirò ancora una
boccata. Di nuovo squillò il cellulare. Di nuovo «Numero Privato».
«Pronto? Chi è?» rispose con un tono di voce un po’ più
alterato, ma di nuovo nessuno.
Si alzò nervosamente.
Era una settimana che tutti i giorni, alla stessa ora, il
telefono squillava due volte, sempre un numero privato e sempre nessuno
dall’altra parte del telefono quando lei rispondeva. Quella situazione stava
diventando una piccola pentola a pressione piena di acqua in ebollizione e
prima o poi sarebbe esplosa se non trovava il modo di controllarsi.
Si accostò alla porta finestra che conduceva al balcone e
continuò a fumare, guardando davanti a sé. La sua mente stava cercando di
trovare un modo per uscire da quella situazione. Chiamare il provider telefonico
e chiedere che le rendessero noto quel maledetto numero privato? Fuori
discussione... avrebbe dovuto fare una denuncia... ma i suoi colleghi avrebbero
riso e l’avrebbero presa in giro se fosse andata a denunciare uno sconosciuto
che ti telefona due volte al giorno e nemmeno ti parla... Chiedere a qualche
amico allora... sì, Michele era il mago delle intercettazioni...
Il cellulare squillò interrompendo i suoi pensieri. Diletta
guardò il display e si ritrovò con le lettere familiari che componevano la
scritta «Numero Privato». Decise di non rispondere e dopo cinque squilli il
cellulare cessò di suonare e vibrare. Non aveva ancora tirato un respiro di
sollievo, che il display si illuminò di nuovo. «Numero Privato». Stavolta lo
afferrò con rabbia e rispose:
«Chi cazzo
sei?»
«Non
dovresti fumare, ti fa male.»
«Chi cazzo
sei?».
«E non
dovresti parlare in modo così maleducato... Ah, Diletta, Diletta. Devi imparare
ancora molte cose su come si trattano le persone, anche se, ho visto, stai
facendo molti progressi...».
«Chi cazzo
sei?» rispose nervosamente, spegnendo la sigaretta sul pavimento del balcone e
schiacciandola con rabbia.
«No no no,
non andiamo d’accordo... avanti, su, come si risponde al telefono? Brava, vedo
che hai seguito il mio consiglio di non fumare, ma non dovresti spegnere la
sigaretta sul balcone: hai un posacenere o sbaglio, in cucina?»
Diletta spense il cellulare e si girò, chiuse la porta finestra, e rimase dietro i vetri, ferma, immobile, con lo sguardo fisso davanti a sé. Cercava tra le finestre della casa di fronte una luce, un puntino luminoso che le facesse capire dove fosse quel porco che la stava spiando, perchè per averla vista spegnere la sigaretta doveva essere lì da qualche parte, dietro una di quelle migliaia di finestre di quel palazzone a vetri che le stava di fronte. E chissà cos’altro aveva visto...
Ed ebbe paura. Una fitta le
sbudellò la pancia e da lì salì fino allo stomaco e la cena si riversò sul
pavimento. La testa iniziò a girarle vorticosamente, si sedette a terra e
iniziò a piangere e con il visto impiastricciato di lacrime e sudore si
appoggiò al sedile in paglia della sedia sulla quale prima si stava godendo le
stelle e il cielo. Gli occhi si trascinarono verso il basso: aveva appena
iniziato la discesa verso l’inferno.
Lunedì
Si era risvegliata tra la puzza di vomito ed il sudore che
le avevano impregnato i vestiti. La nausea le aveva preso lo stomaco e mentre
cercava di pulire gli umori del suo corpo dal pavimento, prima di infilarsi
nella doccia, si sentì di nuovo quel crampo dentro che le attanagliava corpo e
anima. Si sentiva braccata e in gabbia, nelle mani di qualcuno che non sapeva
chi fosse, con il cervello spappolato sul pavimento insieme al resto, incapace
di pensare ad una soluzione.
Si alzò sulle gambe magre che tremavano, si diresse in bagno
e aprì l’acqua della doccia, impostando il rubinetto sul freddo. Si spogliò, si
guardò nello specchio il viso dagli occhi lividi e spenti, i capelli unti e
imbrattati di cibo acido, si sentì addosso i suoi stessi liquidi e si sentì
sporca, fuori, ma soprattutto dentro.
Si infilò nella doccia e vi rimase per mezz’ora. Quando ne
uscì, si asciugò velocemente, infilò una canotta e una gonna lunga di cotone,
chiuse tutte le finestre, prese la sua piccola borsa a tracolla, le sigarette e
le chiavi e uscì. Stava per chiudere la porta quando si ricordò di aver
lasciato il cellulare sul tavolo, riaprì e tornò in cucina. Afferrò il suo
smartphone e lo percepì bollente, anche se si rese conto che era solo una sua
illusione, una maledetta illusione.
L’aria stagnante del mattino non prometteva nulla di buono.
Sarebbe stata un’altra giornata di caldo anomalo. Sarebbe stato così tutta la
settimana, l’avevano detto al meteo la sera prima. E lei rimpianse di non avere
l’aria condizionata a casa. Però almeno una casa ce l’aveva e ci si poteva
rifugiare e dormire in un letto, quando uno stronzo non decideva di farla vomitare
il suo disgusto e la sua paura sul pavimento...
Quando entrò nell’ufficio, il suo Comandante la squadrò con
un’aria schifata e lei l’anticipò ancora prima di qualunque domanda: «Sono
stata male stanotte...». Lui le rispose con un secco: «Sembri una di quelle
barbone che recuperiamo per la Caritas. Almeno metti il tesserino fuori, così
ti riconoscono». “Sempre carino...” pensò Diletta. Poi andò in bagno, si
sciacquò ancora con acqua fredda il viso, si passò un filo di fard per limitare
gli effetti del pallore ed un po’ di rimmel colorato per sembrare un po’ più
normale. Prima di uscire si infilò il cordino con il badge.
Tornò in ufficio e si sedette alla sua scrivania. Il
Comandante si avvicinò: «Guardami questi casi e dimmi se ci trovi qualcosa di
strano. Sempre se ci sei di testa...». Poi aggiunse: «Fanno miracoli i
cosmetici oggi, vero?»
Non poteva sopportarlo, centocinquanta chili di lardo ed un
sorriso idiota sulla faccia, due battute sempre pronte ad affossarti. Giovanni
Fucino, responsabile, si fa per dire, del Posto di Polizia presso l’Ospedale
Niguarda, le stava chiedendo di guardare alcuni incartamenti sanitari relativi
agli interventi di Pronto Soccorso del weekend precedente, per valutare se
qualche caso dovesse essere approfondito: era il suo lavoro e, nonostante lui,
le piaceva. Nella sua breve vita lavorativa aveva già sollevato dubbi che poi
erano diventati certezze su stupri, violenze ai minori, violenze alle donne.
Certo, le piaceva il lavoro “in strada”, lo aveva fatto anche per un certo
periodo, ma poi, da quando era approdata lì, aveva trovato una dimensione
diversa del lavoro di scrivania e, se non fosse per quella palla di lardo al
quale doveva rispondere, tutto sommato poteva dirsi contenta.
Iniziò a scartabellare un po’ di fogli ed alla fine trovò
uno che le parve “strano”, come diveva il Comandante. Ferite e lividi sul viso,
una donna di trentotto anni, marocchina. Dichiarava di essersele provocate
scivolando da una scala, ma in realtà solo una ferita era “fresca”. Le altre,
per i medici, erano lì da giorni, probabilmente dovute a maltrattamenti che,
ovviamente, la donna aveva negato. Continuò a sfogliare, guardando il solito
bollettino dell’ortopedia con feriti di incidenti che puzzavano di alcool e
droga lontano un miglio. Infine, si soffermò sull’ultimo della pila. Era una
bambina di tre anni, Serafina. Non parlava, piangeva e non voleva farsi
toccare. I genitori li conosceva già di nome: la madre era una ragazza di
vent’anni che si impasticcava appena poteva, il padre un alcolizzato arrestato
più volte per molestie. Sul corpo di Serafina una serie di ecchimosi, la più
grave alla testa: era stata ricoverata in osservazione.
Il solito
copione da replicare. Fu presa da un
conato di vomito e si rifugiò in bagno per mezz’ora. Poi tornò in ufficio,
prese i tre incartamenti, andò nell’ufficio del Comandante, e li appoggiò quasi
sbattendoli sulla sua scrivania.
«Eccotene
tre. Avvio il solito iter, ok?»
«Sì, vai al Comando e recupera un profilo dei sospettati.
Poi vattene a casa, ci vediamo domani, sarà meglio... hai ancora una faccia...»
Lo guardò incerta se ringraziarlo o meno.
Arrivò a casa verso le cinque. La testa le girava, era
sudata, forse per il caldo o forse perchè semplicemente la paura stava tornando
ad insediarsi nel suo stomaco. Infilò un paio di shorts, andò in cucina, prese
una birra dal frigo, fregandosene del suo stomaco rivoltato, aprì la
portafinestra e si mise a guardare le mille finestre che spiavano il suo
appartamento. Il sole batteva contro di loro e non poteva vedere nulla. Bevve
un sorso di birra, lasciando scivolare qualche goccia sul mento, che la
rinfrescò. Poi si spostò in soggiorno, accese la radio, si sdraiò sul divano e
si addormentò.
Erano circa le sette quando il citofono rimbombò sordo nelle
sue orecchie. La testa le doleva sul collo, aprì gli occhi, si convinse a
rimanere sdraiata pensando “Fottiti, chiunque tu sia!”, ma l’insistenza di quel
suono nei timpani la urtò profondamente e si risolse ad alzarsi. «Chi è?»
rispose sbraitando dentro la cornetta. «Fiori per lei» una voce timida da
ragazzino rispose.
Spinse giù il bottone dicendo «Settimo piano», con la voce
impastata dalla birra e dal sonno. Aprì la porta, recuperò il mazzo di fiori,
diede una mancia ad un ragazzino riccio e scuro che sembrava uscito da un film
su Spaccanapoli e chiuse la porta. Non si curò nemmeno di guardare il
biglietto: scaraventò i fiori sul tavolo della cucina, poi tornò in soggiorno e
si riaddormentò sul divano.
Notte tra Lunedì e Martedì
Diletta aprì gli occhi di colpo, percependo nettamente la
sensazione che qualcuno la stesse guardando. Guardò l’orologio sul muro di
fronte a sé: le tre di notte.
Si sollevò dal divano e andò in cucina. La luce abbagliante
che calava giù dalla lampada a sospensione le rimandò l’immagine dei fiori sul
tavolo della cucina, avvolti nel cellophane oramai appannato e pieno di
goccioline.
Staccò il biglietto, mettendolo da parte sul tavolo, prese
un paio di forbici dal cassetto e tagliò l’involucro. Rimase ferma a guardare
quei fiori, tre bellissimi tulipani di colore porpora quasi nero. Prese il
biglietto, con le mani che le tremavano. La carta era elegante, color avorio e
la calligrafia era di quelle un po’ retro. L’inchiostro era marroncino e non
era sbavato in nessun punto. La mano che aveva scritto il suo nome doveva
essere sicura. Aprì il biglietto e lesse:
Il nome di questo fiore
è “Regina della Notte”.
Sono Tre, uno per ieri,
uno per oggi ed uno per domani.
Guardò istintivamente fuori dalla
finestra e le sembrò che una sigaretta fosse accesa nel palazzo di fronte, due
piani sopra di lei, dove la sua vista però non poteva arrivare a guardare dritto
negli occhi quel malato osservatore.
Andò verso il frigorifero e si prese una birra. Quindi si
accostò alla portafinestra, e con un umore tendente quasi al sarcastico brindò
guardando le finestre, portando la birra verso quella finestra e urlando:
«Dovunque tu sia, alla tua fottuta salute!»
Il cellulare squillò e Diletta non se ne meravigliò. Lo
cercò e lo trovò appena in tempo per prenderlo in mano sull’ultimo squillo. Non
fece in tempo a rimetterlo giù che squillò ancora. «Numero Privato». Rispose
quasi allegra.
«Non dovevi
comprarmi dei fiori, brutto stronzo.»
«Sei scortese per essere una Regina, mia Diletta.»
Le diede quasi fastidio sentire il suo nome in bocca a
quell’uomo, l’ennesima violenza che le stava compiendo dopo essersi presa la
sua casa ed il suo tempo libero. Chiuse istintivamente il cellulare che si
rimise a squillare, ma stavolta Diletta non rispose.
Andò al computer e digitò su Google “tulipano Regina della
notte”. Trovò un link al significato dei fiori e lesse con l’angoscia che le
montava nello stomaco:
è il simbolico dell’amore perfetto (e dell’amante ideale),
della fama e della vita eterna.[...] I
tulipani variegati o con i petali arruffati sorprendono con una nota più
innovativa, mentre inserimenti di quelli color porpora scurissimo, quasi nero
(‘Regina della Notte’), sono ancora più stravaganti. [...] tulipani neri,
eleganti e dall’aura di mistero, simbolo di forza e di potere, ispirarono
autori di opere letterarie e cinematografiche. Nel breve romanzo storico
d’avventura dello scrittore francese Alexandre Dumas (Dumas Davy de la
Pailleterie, 1802-1870), un brutale linciaggio avvenuto in Olanda, nel 1672, è
nello sfondo di una vicenda romantica e di spionaggio industriale collegati
alla coltivazione dei tulipani. In un’allegoria politica contro la pratica
della tirannia in ogni tempo, il fatale ‘Tulipano Nero’ (1850) diventò simbolo
di tolleranza, di giustizia, di amore vero, e alla fine fiorì comunque
nonostante tanti impedimenti. Questo romanzo ispirò la trama di alcune
pellicole dal titolo omonimo a partire dal film muto di avventura del 1921, ma
anche indirettamente l’avventura farsesca di ‘Le Tulipe Noir’ (1963) di Christian
Jaque, trasposto nella regione del Roussillon al tempo della Rivoluzione
Francese. Il ‘tulipano nero’ (Alain Delon), un giovane nobile mascherato che
cercava giustizia per i rivoluzionari vendicandosi delle angherie degli
aristocratici, riuscì ad unirsi ai sanculotti e ad attaccare la Bastiglia
(1789). Mentre ‘Operazione Tulipano nero’ fu un piano attuato negli anni
1946-1948 dal ministro della Giustizia olandese Kolfschoten per deportare tutti
i tedeschi (3.691 persone) dai Paesi Bassi, nel breve documentario finlandese
(1988) diretto da Pacho Lane, ‘Il Tulipano Nero’ (The Black Tulip) era l'aereo
che rimpatriava le salme dei soldati sovietici che avevano combattuto in
Afghanistan.[1]
Iniziò a
parlare ad alta voce, girando intorno al tavolo della cucina e fumando una
sigaretta: «Dunque, una dichiarazione d’amore in piena regola. Vuole essere il
mio ‘amante perfetto’. E poi? Tre tulipani. Lo ha scritto: uno per ieri, uno
per oggi e uno per domani, che poi è oggi, vista l’ora... e poi? Cosa farà?
Verrà fuori allo scoperto?». Un brivido le percorse la schiena. Prese il
cellulare, aprì la Rubrica e cercò Michele Arrighi. Schiacciò la cornetta verde
e attese in linea. Il cellulare squillava libero ma nessuno rispondeva. “Che
pirla!” si disse “ ma è notte, cazzo!” e spense immediatamente. Dopo due
secondi il cellulare squillò e Diletta rispose velocemente, dando per scontato
che fosse Michele che la richiamava.
«Mic, devi
aiutarmi, c’è un pazzo...»
«Tu pensi che io sia pazzo, vero, Diletta?»
Diletta si
fermò, scostò il cellulare e vide che la chiamata giungeva da un numero
privato. Era lui e gli aveva appena detto che lo considerava un pazzo.
«Diletta, Diletta, mia cara. Sì, forse sono pazzo... ma sono
pazzo di te. E sono anche geloso. A chi telefonavi prima? Mic... Michele,
forse? E’ un tuo amico? Rispondi...» si fermò per aspettare una risposta e
sentendo che Diletta non parlava, riprese con la voce alterata: «Chi è Michele,
Diletta? Vuoi prenderti forse gioco di me con lui? E’ il tuo amante, eh? Non mi
sembra di averne visti in giro per casa tua... cosa fai? Vai da loro eh,
puttanella... con quel viso d’angelo non me la conti giusta...»
Diletta spense il cellulare, se ne fregò del fatto che
fossero le tre di notte e richiamò Michele. Una voce impastata dal sonno le rispose.
«Sì...»
«Michele,
sono Diletta. Scusami...»
«Di...
Diletta?»
«Diletta De
Robertis. Lavoro al Posto di Polizia del Niguarda. Ti ricordi? »
«Di...
Diletta, sì... che è successo?»
«C’è un
pazzo che mi chiama al cellulare. Numero Privato. Ho paura... scusami, ma non
so cosa fare...»
«Chi è?»
«Come chi è?
Se lo sapessi non ti avrei chiamato...»
«Scusami...
hai ragione... ma da quanto ti chiama?»
«Una
settimana. Ma è da ieri che ha cominciato a parlare...»
«Che vuol
dire? Diletta, scusa, sono mezzo addormentato, non ho i riflessi pronti...»
«Prima
faceva solo squilli e quando rispondevo chiudeva. Adesso mi parla... mi ha
mandato anche dei fiori...»
«Hai uno
spasimante, cosa c’è di male?»
«Uno
spasimante che probabilmente mi osserva da una delle finestre di fronte. Sa
tutto di me e l’ultima telefonata... beh, mi ha chiamato “puttanella”... ho
paura, io vivo sola...»
«Senti, stai
tranquilla... adesso dormi e domattina vienimi a trovare in ufficio. E porta il
cellulare.»
«Senti,
ma...»
«Non posso
fare nulla ora, Diletta... ci vediamo domani, stai tranquilla, okay?»
«O... Okay, ciao»
Chiuse il telefono delusa, ma in fondo, si chiese, cosa
poteva aspettarsi da uno che conosce appena, e che viene svegliato nel pieno
della notte? Bevve un sorso di birra e si sedette vicino alla portafinestra,
accendendo una sigaretta con rabbia, guardando davanti a sé con odio, come se
sapesse che lui, da qualche parte, la stesse osservando ancora, provando forse
piacere da quel moto di terrore che le aveva infuso in ogni cellula del suo
corpo.
Martedì
Erano circa le nove di mattina
quando Diletta si svegliò, gli occhi impastati di sonno e la bocca di birra. Si
era scolata tre lattine una dopo l’altra e poi era crollata sul divano. La
schiena le doleva e la testa era da tutt’altra parte.
Si fece una doccia gelata, si vestì ed uscì di casa.
Appena arrivò alla macchina, parcheggiata sotto casa, ebbe
un sussulto. Sul parabrezza spiccavano un tulipano porpora identico a quelli
che aveva ricevuto ed un biglietto, della stessa carta del precedente, con
l’identica calligrafia che disegnava il suo nome e cognome sul margine destro.
E in basso a sinistra la scritta “S.P.M”, Sue Proprie Mani. Insomma, consegna a
domicilio, effettuata personalmente dal pazzoide.
Afferrò il tulipano e lo buttò a terra con rabbia. Quindi aprì il
biglietto e lesse:
Per
mantenere più a lungo vivo il dono bastano pochi accorgimenti, come accorciare
il gambo tagliando i 3-4 centimetri finali dello stelo, non con le forbici, ma
con un coltello affilato e con un taglio netto e obliquo...
Le scivolò il biglietto dalle mani, mentre quelle parole le
risuonavano in testa “un coltello affilato ed un taglio netto e obliquo”.
Doveva considerarla una minaccia? Doveva avere paura? Poteva ora denunciarlo?
Aprì la portiera, si infilò in macchina e inspirò l’aria
lentamente, cercando di recuperare il fiato che le era venuto a mancare. Quindi
si voltò per appoggiare la borsa sul sedile affianco e vide che c’era un
pacchetto regalo. Non c’erano biglietti. La carta era elegante ed il fiocco
avorio di seta l’avvolgeva quasi del tutto. Lo prese e lo aprì con foga.
Dentro, una scatola di cartone. Aprì, svolse la carta velina e rimase
inchiodata all’oggetto: un coltellino molto affilato ed una etichetta dove lo
stesso inchiostro marroncino e la grafia elegante del biglietto riportavano:
Non ne hai a
casa uno come questo, ne sono sicuro, quindi accetta questo dono per curare i
miei fiori...
Scoppiò a piangere. Si sentiva sola, terrorizzata e non
sapeva a chi dirlo. Forse avrebbe potuto parlarne con il suo Comandante, ma
chissà cosa le avrebbe detto... sicuramente qualcosa di spiacevole. No, non se
la sentiva di andare in ufficio. Chiamò il suo collega e gli disse di informare
il Comandante che non stava bene e sarebbe restata a casa quel giorno. Poi girò
la chiave, accese il motore e sgommò diretta verso l’ufficio dove avrebbe
trovato Michele.
Non vennero a capo di molto e nel pomeriggio tornò a casa
con la stessa angoscia con la quale era partita la mattina. In mancanza di una denuncia
formale, Michele aveva solo potuto chiedere un favore ad un amico e questi
prima della sera non sarebbe stato in servizio per rispondere. Accidenti!
Prese l’ascensore e arrivata davanti alla porta di casa
rimase a bocca aperta. Una miriade di mazzi di fiori giaceva sul pavimento.
Erano tutti tulipani color porpora. Guardò alcuni mazzi e si rese conto che
erano tutti di diversi fiorai. Nessun biglietto. Sentì una serie di mandate da
una porta del pianerottolo e tremò, fino a che non uscì fuori la signora Ribon,
con un sorriso sdentato che l’avrebbe fatta ridere in un altro momento.
«Devi essere felice, Diletta... qualcuno ti vuole davvero
bene, eh? Sono andati e venuti tutto il giorno... da tutta Milano... Chi ti ha
fatto questo è una persona speciale, vero? Lo sai che i tulipani sono il
simbolo dell’amore perfetto?»
Non sapeva cosa rispondere... La guardò con un mezzo
sorriso, aprì la porta di casa e iniziò a tirar dentro quei mazzi di fiori. Poi
salutò la signora Ribon e chiuse la porta lasciandosi dietro i suoi sorrisi.
Scoppiò a piangere, e la nausea per il profumo che impestava oramai il
soggiorno e che le ricordava gli ingressi di un cimitero le produsse un conato
di vomito.
Prese un cartone che aveva sul balcone, radunò dentro tutti
i mazzi di fiori, schiacciandoli dentro con i piedi, quando non riusciva con le
mani, e poi portò giù il cartone dove il condominio raccoglieva l’immondizia.
Se ne fregava del fatto che “lui” poteva accorgersene e risentirsene. E “lui”
se ne doveva essere accorto, perchè dopo cinque minuti che era tornata su, il
cellulare squillò dal solito «Numero Privato».
Rispose e rimase in attesa.
«Non sarai mica arrabbiata con me per tutti questi regali,
Diletta? Pensavo di farti piacere, pensavo ti piacessero i tulipani porpora...
Ma come sei sciupata oggi...» e Diletta a quelle parole volse lo sguardo verso
la finestra due piani più in su rispetto a lei, come a volerlo guardare negli
occhi, dritto, per sfidarlo. «Tesoro, davvero, dovresti riposare un po’... vai,
vai a dormire, ti chiamo dopo... stasera sarà una serata speciale per noi...»
Fu lui ad agganciare e Diletta rimase con il telefono in
mano, incerta su cosa fare.
Quindi chiamò Michele.
«Sono
Diletta. Diletta De Robertis. Hai saputo nulla?»
«Ciao... ehm
no, non ancora. Ludo monta alle otto stasera, non ricordi? Penso sapremo
qualcosa domani... stai tranquilla...»
«Un cazzo
tranquilla! Quel pazzo mi ha fatto trovare decine di mazzi di tulipani davanti
casa e poi mi ha chiamato dicendomi che devo riposare perchè stasera sarà una
serata speciale... »
«Denuncialo...
stalking si chiama, Diletta... vai e denuncialo. Non so cosa dirti... vuoi...
vuoi che venga lì, ne parliamo un attimo?»
«No, no
grazie. Però appena sai qualcosa chiamami, okay?»
Stalking. Così si chiamava. Accese il
computer e iniziò a leggere su qualche link in giro per il web. Alla fine si
soffermò su una pagina interessante che descriveva in modo sintetico di cosa si
trattasse, chi ne fosse responsabile e come respingerlo. Lo stalking è
caratterizzato da comunicazione intrusiva,
contatti diretti, ripetizione, insistenza. “Ci siamo fin qui” pensò. Si
soffermò quindi sulle tipologie di stalker, per capire chi fosse quell’uomo che
si stava intromettendo indebitamente nella sua vita. Il risentito... qualcuno che ha subito un torto... “Bene” pensò
Diletta “con il lavoro che faccio c’è una fila di persone che potrebbero avermi
puntato”. Il bisognoso d’affetto che
si rivolge ad una vittima che ritiene lo possa aiutare sulla base di
caratteristiche osservate... “Anche questo, con il mio lavoro, è facile... e
dunque?”. In questi casi il rifiuto della vittima viene negato e reinterpretato
sviluppando la convinzione che la vittima abbia bisogno di sbloccarsi. Il corteggiatore incompetente, meno
resistente nel tempo, che cambia persona al primo rifiuto. “Questo no, non è il
caso” pensò Diletta. Il respinto, che
diventa persecutore sulla base di un rifiuto. “Impossibile, sono anni che non
ho uno stralcio di spasimante, di ex, o categorie affini”. Il predatore, un molestatore che ambisce ad
avere rapporti sessuali. “Sono messa bene, le uniche categorie che si sposano con
quel pazzo sono quelle peggiori...”
Continuò a leggere, soffermandosi
sul catalogo delle cose da fare: inutile negare il problema, “No, non lo
nego... sono gli altri che lo sminuiscono, io no...”; essere fermi nel dire di no “Non mi sembra di averlo assecondato
fino ad ora...”; essere prudenti “Lo
sono...”; non cambiare numero ma al
limite dotarsi di una seconda linea e rispondere sempre meno... “cioè? Per
questo stronzo devo comprarmi un altro telefono ed un’altra scheda? Non se ne
parla nemmeno, ‘fanculo!”; raccogliere
dettagli per la polizia “Oddio! Ho gettato tutti i tulipani... vabbé la
signora Ribon può testimoniare”; recarsi
dalle forze dell’ordine “Okay, domani ci vado...”.[2]
Erano circa le cinque, quando decise di fare un salto in
ufficio. Avrebbe iniziato a guardare i casi che aveva trattato di recente e che
si erano risolti in denunce concrete. Lo stalker avrebbe potuto nascondersi tra
quelli. Doveva soltanto prendere il suo quaderno degli appunti dove segnava
tutti i nomi, le tipologie di reato, le
condanne. E i casi risoltisi in niente.
Rientrò verso le sei, si preparò un panino, prese una birra,
pose tutto sul tavolino di fronte al divano, con le sigarette, l’accendino ed
il posacenere. Prese il suo quadernino e iniziò a sfogliare, pensando da che
data potesse essere utile iniziare a guardare. Dopo di che scelse la soluzione
più semplice: partire dai casi più recenti, dalla settimana precedente, cioè
dal momento in cui aveva più o meno iniziato a ricevere le telefonate “mute”.
Circa verso le otto si interruppe. Non veniva a capo di
nulla, perchè pensandoci e ripensandoci quell’uomo non aveva fornito nessun
dettaglio di sé che poteva in qualche modo aiutare ad identificarlo. Non sapeva
nulla di lui, se non che abitava o comunque aveva affittato un appartamento
davanti a casa sua e aveva qualcosa di signorile che riusciva a intuire dalla
sua grafia, dalla carta utilizzata, dalla conoscenza del significato dei fiori
e dalle cose che diceva... sì, almeno la maggior parte.
Prese un
foglio e annotò due cose: abita forse di fronte casa mia, uomo di una certa
cultura ed educazione. Con queste due note in mente, ritornò agli ultimi casi e
iniziò a evidenziare quelli che coinvolgevano persone che rispondevano al
profilo che aveva tracciato. Era appena arrivata alla conclusione che non erano
molti, circa una quindicina, quando il cellulare squillò.
Sovrappensiero
rispose:
«Sì?»
«Diletta, mia cara!»
Diletta
riconobbe subito la voce e rimase in silenzio. Guardò verso sinistra, verso la
finestra e scorse una luce accesa. Si diresse verso la portafinestra, mentre
l’uomo continuava a parlare.
«Oggi non ti
fai vedere, come vai? Proprio stasera, cara, che ho in serbo una sopresa per te...
Non sei curiosa?»
Decise che era tempo di conoscere
qualcosa di più di quell’uomo. Se voleva raccogliere elementi validi per
incastrarlo con una denuncia, doveva farlo parlare. Quindi rispose:
«Ci
conosciamo?»
«Oh, quale iniziativa! Diletta, mi parli? Mi riconosci,
finalmente non neghi che io esista. Dobbiamo festeggiare, dunque... vai a
prendere un bicchiere di spumante. Io il mio ce l’ho proprio qui per te... no,
piccola Diletta... la tua eleganza stride con la birra che bevi. Guarda in
frigo, mia cara...»
Diletta
tremò al pensiero di aprire il frigorifero e trovarci qualcosa che non avesse
comprato e riposto lì dentro lei stessa con le sue mani. Ma si convinse a
farlo, a seguire quella messa in scena patetica che l’uomo le chiedeva di
attuare, per il suo intimo e depravato piacere. Così aprì il frigo e trovò una
bottiglia che evidentemente non aveva notato prima, quando aveva preso la
birra. Una bottiglia di Dom Perignon Jeroboam, nella sua confezione d’argento.
La prese, recuperò dalla credenza un bicchiere di cristallo, appoggiò entrambi
sul tavolo e riprese il cellulare.
«Sono
pronta. Cosa dobbiamo festeggiare, ma soprattutto con chi sto festeggiando?»
«Vuoi sapere
troppe cose, mia cara. Ogni cosa a suo tempo. Apri la bottiglia e brindiamo a noi,
del resto è giusto inaugurare una proficua collaborazione con un buon bicchiere
di spumante... Non credevo cedessi così facilmente...»
Diletta eseguì con cura le
indicazioni, bevve e poi riprese il cellulare, sicura che lui la stesse
osservando da fuori.
«Mia cara,
brava, brava davvero. Adesso devo chiederti di fare qualcosa di speciale per
me, vuoi?»
«Prima dimmi
se ci conosciamo...»
«Sono io che
comando, Diletta. Quindi stai alle regole, altrimenti non è bello. Dunque, vuoi
fare per me qualcosa di speciale?»
Diletta si risentì di quella
reazione. Era evidente che l’uomo avesse qualcosa in testa e si sentiva
spiazzato dal fatto che lei non collaborasse appieno secondo ogni minimo
particolare. Doveva essere più accondiscendente verso di lui e vedere dove
voleva arrivare.
«Dimmi,
deciderò dopo...»
«Vuoi farmi
stare sulle spine... va bene va bene Diletta... almeno questo te lo concedo.
Dunque, adesso devi vestirti nel modo più elegante che puoi. Ci sarà un taxi
giù tra un quarto d’ora e ti porterà in un ristorante. Il menu è fissato, il
conto è pagato. Devi solo cenare e tornare
casa. Puoi fare questo per me?»
Sì, decise che poteva farlo e
sicuramente lui sarebbe stato lì: doveva prestare la massima attenzione alle
persone che incrociava e cercare di ricordare se ne avesse già vista qualcuna.
«Sì, d’accordo».
Spense il cellulare senza dare
all’uomo la possibilità di dire altro. Fece una doccia, si asciugò i capelli e
indossò un abito di seta nera, scollato sul davanti e sulla schiena. Prese una
collana di perle che le aveva lasciato sua madre, si truccò e puntuale scese.
Il taxi l’aspettava come le era stato detto. Dopo circa mezz’ora scendeva
davanti ad uno dei ristoranti più rinomati di Brera. Appena fu entrata, un
cameriere imbalsamato la condusse ad un tavolo dove era apparecchiato per uno,
con posate d’argento e piatti di fine porcellana. Una lunga candela nera ed
elegante spiccava da un portacandele con la forma di aquila. Affianco, un vaso
di cristallo nero avvolgeva un tulipano color porpora.
La cena fu squisita. Diletta ebbe
modo e tempo di guardare ogni commensale nella sala, studiarne le
caratteristiche, recuperare dagli archivi della sua memoria le immagini che più
rispondevano a quei visi per paragonarli, incrociare le informazioni. Eppure nulla,
nulla le rammentava seppur un piccolo particolare che la potesse condurre a
qualcosa. Fu uscendo, quando era sulla porta, che lo notò. Era un uomo molto
interessante, sulla quarantina, con i capelli grigi e gli occhi neri. La stava
fissando e si rese conto che, sì, in fondo l’aveva guardata per tutta la cena.
Che fosse lui? Fece finta di non accorgersene, cercando di scolpire quel viso
nella memoria, pur certa che la sua fisionomia non le fosse del tutto
sconosciuta.
Il taxi la riportò a casa, salì, si buttò
sul divano e si accese una sigaretta. Il cellulare, puntuale, squillò.
«Hai passato
una bella serata, Diletta?» le chiese la Voce, senza aspettare che lei dicesse
nulla.
«Vorrei
sapere chi sei. Non mi piace questo gioco al nascondino. Cosa vuoi da me?»
«Lo saprai a
tempo debito, cara. Adesso mi piacerebbe che tu facessi un bel bagno caldo e te
ne andassi a dormire. Non sta bene tutta quella stanchezza sul tuo viso,
piccola. Lo farai? Per me?»
«Per stasera
ho fatto abbastanza.» disse Diletta seccamente, chiudendo il cellulare, che
dopo due minuti riprese a squillare. Ma lei non rispose. Rimase sul divano con
la sigaretta accesa, fumandone boccata dopo boccata, accompagnata da quella
musica che oramai stava imparando ad odiare.
Mercoledì
Il viso di quell’uomo del
ristorante continuava a ossessionarla. Più pensava ai suoi lineamenti, più le
sembravano familiari. Eppure così fuori da ogni contesto, non sapeva associarlo
a nessun nome.
Chiamò Michele per sapere se il
suo amico avesse rintracciato il numero di telefono, ma si sentì rispondere che
non ce l’aveva fatta perchè era stato molto occupato. «Mi sta facendo un
favore, Diletta, abbi pazienza...». La cosa le fece rabbia. Si sentiva
impotente di fronte a quell’uomo ma capiva che non era ancora tempo per una
denuncia, perchè sarebbe ancora sembrata lo sfogo delirante di una donna in
crisi di solitudine. Doveva ancora aspettare.
Si tuffò nel lavoro. Doveva
esplorare i casi che aveva segnalato al suo capo due giorni prima e decise di
partire dal caso della marocchina. Doveva andare a parlare con la donna,
cercando il momento giusto per farlo, quando fosse sola, quando fosse libera di
parlare. Segnò nome cognome e indirizzo, salutò i colleghi ed uscì dall’ufficio
per tuffarsi nell’afa di Milano che ancora non dava tregua a nessuno. Quando
rientrò, distrutta dal colloquio con una donna alla quale aveva dovuto spiegare
che era un suo diritto denunciare suo marito per quello che faceva e stranita
per essersi confrontata con un mondo che era distante da lei quanto la stella
più lontana dell’universo, compilò la scheda da inoltrare al dipartimento
centrale con le sue osservazioni e se ne uscì.
Quando arrivò a casa, sul
pianerottolo, infilato sotto la porta, vide un tulipano porpora ed un biglietto
della stessa fattura dei precedenti e l’angoscia che l’aveva abbandonata nelle
ultime ore le tornò in gola. Deglutì a fatica, mentre la signora Ribon faceva
capolino da dietro la porta e le diceva sorridendo:
«E’
insistente, sembra un bravo signore...».
Diletta si voltò verso di lei e le
chiese:
«Perchè, lo
ha visto?».
La signora Ribon allora uscì da
dietro la sua porta di casa, incredula per quell’occasione di scambiare due
chiacchiere con qualcuno che non fosse il suo vecchio gatto e le spiegò:
«Stavo
tornando dal fare la spesa. Sa, io vivo sola e la spesa devo farla io, ogni
giorno un po’... non ce la faccio a portare tutte quelle buste...».
Diletta scalpitava ma si rendeva
conto di non poterle estorcere l’informazione senza quel contorno di stupidaggini.
Perciò stette ad ascoltarla.
«Ne compro
un po’ alla volta, un giorno il pane e il latte, un giorno la verdura, un
giorno la carne... I miei figli vivono lontani, loro non possono aiutarmi... ».
Diletta le sorrise: in fondo era una
buona vecchina e non doveva essere facile per lei vivere tutto il giorno e la
notte senza nemmeno qualcuno con cui scambiare due chiacchiere. Perciò la
interruppe, un po’ per darle retta, un po’ per sollecitare la “sua” risposta:
«Se ha
bisogno di qualcosa, io ho la macchina, si ricordi... posso accompagnarla... ma
mi diceva che lo ha visto?»
«Beh, non
so... è che ero qui sulle scale, stavo togliendo la roba dall’ascensore per
portarla in casa ed è sceso da su un signore che mi ha aiutato. Un signore
brizzolato, un bel signore con la faccia molto dolce. Sulla quarantina...
credo...»
«Ma non era
qui, allora... è sceso da su, è così?»
«Sì, eppure
prima di andare via mi ha chiesto se la signorina Diletta De Robertis abitasse
qui... proprio così “Abita qui, la signorina Diletta De Robertis?” e faceva
segno alla porta, alla tua porta...»
«Ah...»
«Ecco e
siccome sono uscita appena dopo per andare giù a prendere la posta, ho visto il
fiore ed il biglietto ed ho pensato che fosse stato lui...»
«Quindi non
l’ha visto metterlo...»
«No no, sono
uscita... beh, in realtà era forse un’ora... forse due... non ricordo bene, sai
Diletta, io sono vecchia e non ci bado più al tempo... passa da solo anche se
non faccio nulla, magari un po’ più lento...»
«Beh, grazie
signora Ribon... grazie davvero» disse Diletta e si dileguò dietro la porta
indecisa se essere contenta o meno per quello che aveva appena sentito.
Le venne in mente soltanto dopo un
po’ che anche l’uomo del ristorante era brizzolato. Le risultava familiare... e
dunque poteva essere qualcuno che lei aveva conosciuto in qualche occasione e
che da allora non si fosse più schiodato da lei. Doveva ricordare chi fosse o almeno dove lo
avesse visto... se fosse qualcuno che abitava nel palazzo...? Improvvisamente
ebbe un dubbio, pensando che due piani sopra di lei si era appena trasferito un
uomo divorziato, magari poteva essere lui. Ferma in cucina aprì la finestra e
subito capì che la sua intuizione non poteva essere esatta: l’uomo non poteva
spiarla, da due piani su... doveva essere qualcuno che abitava nel palazzo di
fronte. Decise che l’indomani avrebbe fatto un sopralluogo a leggere i nomi dai
citofoni, così forse qualcosa le sarebbe potuto venire in mente.
Aprì il frigo e stava per mangiare
uno yogurth quando il cellulare squillò. Non erano nemmeno le sette, perciò
rispose tranquillamente, senza pensare che potesse essere “lui”.
«Perdona, omnia Diletta. Stasera mi sono
permesso di regalarti ancora un’emozione...»
Diletta
rimase senza parole. Non si aspettava che l’uomo le telefonasse a quell’ora, nè
capiva di cosa stesse parlando, perchè aveva dimenticato di aprire il biglietto,
con tutte le chiacchiere della signora Ribon e le sue farneticazioni sul nuovo
inquilino. Rimase in silenzio, aspettando che lui dicesse qualcosa.
«Hai aperto il mio piccolo regalo, Diletta?»
Per non
lasciarsi cogliere impreparata, corse nel soggiorno e aprì la busta. Conteneva un
biglietto per l’opera La Sonnambula
di Bellini, ed era quella sera stessa, a teatro. Ma che significava?
«Dove vuoi
arrivare, e soprattutto chi sei?»
«No no no no
no Diletta. Così non andiamo d’accordo. Ti faccio un così bel regalo e tu? Ti
arrabbi e inveisci contro di me? No, Diletta, no. Tu adesso vai a farti una
doccia, ti metti un bell’abito, prendi il taxi che ho prenotato per te e vai
dritta a teatro senza discutere... Non vorrai disobbedirmi, vero?»
C’era qualcosa di minaccioso
nell’ultima frase, che inquietò Diletta al punto che si limitò a dire un secco
«Bene» e a chiudere il cellulare. Ubbidì in tutto: fece la doccia, si vestì con
un bell’abito scuro e scese in strada, dove un taxi l’aspettava.
Il teatro era pieno di gente.
Sarebbe stato davvero difficile non trovare qualcuno che conoscesse, eppure
ogni viso le risultava sconosciuto. Nessuno che richiamasse alla sua mente qualcosa,
seppur per un piccolo particolare. Seduta in prima fila, quando lo spettacolo
iniziò, lo seguì attentamente, alla scoperta di un indizio: era uno spettacolo
a caso oppure la storia poteva dirle qualcosa? Non trovò nulla di affine alla
sua vita, se non una canzone del primo atto, all’esordire della quale fece un
salto che suscitò la disapprovazione di tutte le vecchie incartapecorite che le
erano intorno. “Perdona omnia Diletta...”. Ma tutto qui. Una storia di amori e
intrighi e incomprensioni a causa del sonnambulismo di Amina, la protagonista,
che vien creduta traditrice dal suo fidanzato Elvino.
Fu solo alla fine, per un breve
attimo, che pensò di vedere l’uomo brizzolato, appena qualche fila dietro di
lei. Non era stato lui a cogliere la sua attenzione, ma la sua accompagnatrice,
nella quale aveva riconosciuto una giovane infermiera di pediatria con la quale
aveva parlato di un “caso” qualche mese prima. Era stato il suo bel viso che
l’aveva attirata, un ovale perfetto con due fanali verdi incastonati negli
occhi ed un sorriso che giudicava perfetto. Poi i suoi occhi si erano spostati
sull’uomo che l’accompagnava, molto alto, brizzolato e quando lui si era
girato, quasi intenzionalmente per guardarla, Diletta era trasalita. Era lo
stesso uomo che aveva visto al ristorante la sera prima. Poi un attimo di
confusione, e i due erano spariti alla sua vista.
Tornò a casa, si spogliò, indossò
top e shorts e si affacciò alla finestra della cucina, come se si sentisse in
dovere di farsi vedere e ringraziare per lo spettacolo. Lo squillo non si fece
attendere, il che le confermò che l’uomo doveva abitare per forza di fronte a
lei.
«Hai gradito
lo spettacolo, Diletta?»
Diletta decise di osare e
provocarlo. Forse lui aspettava solo quello per rivelarsi.
«Sarebbe
stato forse più carino se ci fossi venuto tu con me. Da sola è stato fin troppo
noioso.»
«Diletta, mi
stupisci... non ti faccio più paura, cara?»
«Vorrei
sapere chi sei.»
«Non avere
fretta, tesoro... verrà il tempo che mi conoscerai. Ma... visto che tu hai
osato, adesso, posso osare io?»
Un fremito percorse la schiena di
Diletta. Non era preparata a questo. Cosa le avrebbe chiesto, ora? Non rispose,
e lui continuò.
«Mi piacerebbe pensare che tu adesso vada a letto e ti
spogli del tuo top e dei tuoi shorts. Rimani con quel bel completo intimo blu
di pizzo che hai ed immagini di avermi al tuo fianco. Abbandonati a me,
completamente e dormi... Dopo una cena ed un teatro... non pensi di dovermi
almeno un pensiero felice, piccola “mia” » e sottolineò la parola – “mia” «diletta?»
Dunque era
arrivato a chiederle qualcosa di particolarmente intimo. E come faceva a sapere
che aveva indosso un intimo blu, di pizzo? Lo aveva cambiato appena prima di
uscire e la finestra della sua camera da letto non era nemmeno dallo stesso
lato della cucina, e lei aveva sempre avuto cura di chiudere le finestre quando
si spogliava. Chi era quel maledetto che era entrato così dentro la sua
intimità? Si stava finalmente rivelando... e lei iniziava ad avere paura.
Spense il cellulare, chiuse la finestra e se andò in camera. Si tuffò nel letto
e il cellulare riprese a squillare. Non rispose. Dopo cinque minuti il
cellulare squillò di nuovo e lei non rispose. Dopo altri cinque minuti il
cellulare squillò di nuovo e con la mano tremante rispose alla chiamata.
«Ho detto di toglierti il top e gli shorts, Diletta. Non mi
hai capito? Devi restare con l’intimo blu... altrimenti potrebbe succederti
qualcosa di brutto, piccola.... di tremendamente brutto, piccola Diletta e
sarebbe un peccato, sì... un vero peccato»
Diletta
rispense il cellulare. Con terrore tolse gli shorts e il top, rimanendo con il
suo completo intimo blu. Sentiva di essere spiata, si guardava intorno cercando
una telecamera o qualcosa che potesse darle il conforto di un mezzo che l’uomo
stava usando per spiarla, ma non vide in giro nulla di strano. Si coprì con il
lenzuolo ed il cellulare squillò di nuovo. Sentiva che doveva rispondere:
quell’uomo stava diventando pian piano il suo padrone e lei aveva paura di
contrariarlo. Se le era così vicino da poterla spiare, le era così vicino anche
da poterle fare del male?
«Diletta,
togli quel brutto lenzuolo... sei così bella senza...»
Fu lui che chiuse la
comunicazione, lasciandola con il terrore nell’anima.
Dunque in qualche modo era lì con lei, adesso ne era
convinta. La spiava, sapeva tutto, perfino come dormiva. Sicuramente sapeva
della telefonata a Michele... perciò poteva aver preso provvedimenti. Iniziò ad
immaginare che utilizzasse un telefono diverso per ogni chiamata, per non farsi
riconoscere. Pensò ai suoi momenti più intimi, sotto la doccia, nel bagno:
anche lì la spiava? Quanto sapeva di lei, della sua vita e soprattutto, da
quanto tempo?
Non riusciva a dormire. Si girava e rigirava al buio
cercando di accontentarsi dell’idea che almeno al buio potesse essere
tranquilla e poi si riagitava al pensiero che esistono le videocamere che
girano anche quando è buio, lo sapeva con certezza, lo aveva visto al corso.
Quindi non aveva scampo?
Giovedì
Indagare sul caso di Serafina fu
più complesso di quello che Diletta immaginava, ma pensò che fosse anche
un’ottima occasione per andare a parlare con l’infermiera di pediatria e capire
chi fosse l’uomo che l’aveva accompagnata a teatro la sera prima. Diletta non
riusciva a togliersi di testa l’idea che quell’uomo, proprio lui, potesse
essere il suo persecutore.
Così appena arrivò in ufficio,
mollò la borsa nell’armadietto e si recò nel reparto di pediatria. Non
ricordava il nome dell’infermiera e girò per i corridoi guardando nelle varie
sale. Alla fine la trovò nella sala di osservazione temporanea. Si fermò fuori
ed attese per circa mezz’ora, prima che uscisse.
Appena fu
fuori, la fermò.
«Ciao. Sono
Diletta De Robertis, del Posto di Polizia. Hai un attimo, per favore?»
La donna le fece segno di seguirla
ed entrarono in una piccola infermeria dove non c’era nessuno.
«Dimmi
tutto... siediti, prendi pure quella sedia...»
Diletta si sedette al di là del
tavolo e osservò la donna. Era visibilmente tesa, nonostante fosse normale che
ogni tanto lei sottoponesse a domande il personale medico e paramedico.
«Scusami,
non ricordo il tuo nome.»
«Marina.
Marina Gabrielli.»
«Sì, Marina,
scusa... Ho un caso per le mani di una bambina di tre anni, Serafina. Domenica
sera è stata portata in pronto soccorso in stato di choc: non parlava,
continuava a piangere, non voleva farsi toccare. I genitori sono schedati: la
madre è drogata ed il padre alcolizzato. Era stata trattenuta in osservazione,
non so se è ancora qui, aveva varie ecchimosi, una alla testa.»
«Non mi
sembra di averla vista... io sono rientrata oggi dalle ferie. Dovresti parlare
con la capo reparto...»
«No,
ascolta. Ho bisogno di parlare con te. Noi avevamo parlato già una volta, non
so se ricordi...»
«Sì, sì,
ricordo. Era per quel bambino al quale avevamo riscontrato i sintomi di
overdose... qualche mese fa?»
«Sì, Pietro.
Ecco, io volevo chiederti... ma non c’entra. Ti prego, scusami, ma sono sotto
pressione. Ecco, vedi, credo di averti vista ieri sera.» La donna la guardò
stranita. Non riusciva a capire dove volesse arrivare. La lasciò continuare.
«Tu eri a teatro, con un uomo.»
Marina la guardò negli occhi
irritata e poi sbottò:
«La mia vita
privata è fuori da questa discussione.»
«Ho bisogno
di sapere chi era quell’uomo, ti prego.»
«Che vuoi da
me?» disse Marina alzandosi e girando intorno alla scrivania per uscire dalla
stanza.
«Solo il
nome di quell’uomo. Ti prego. E’ importante, non posso spiegarti perchè.»
«Mi spiace.
Questo non è lavoro e non credo di poterti aiutare.»
«Marina, ti
prego, sono nei guai e lui potrebbe aiutarmi.» disse Diletta, afferrando Marina
per il camice.
«Non credo
davvero. Mi spiace» Marina si strattonò dalla presa di Diletta e uscì.
Diletta si sedette e scoppiò a
piangere. Quindi si ricompose, e uscì dalla stanza, cercando la donna nei
corridoi. La vide da lontano ed era affianco all’uomo brizzolato della sera
prima. Entrambi si voltarono dall’altra parte e scomparvero dietro un angolo.
Diletta provò a seguirli, ma appena girato per il corridoio, non li vide più.
Guardò l’incartamento nelle sue
mani. Decise che avrebbe ritentato dopo con Marina. Forse, spiegandole la
situazione in cui era, lei avrebbe capito.
Si recò presso il posto delle
infermiere e chiese del Dottor Francesco Caetani, il pediatra che era di turno
la domenica sera, quando Serafina era stata portata al Pronto Soccorso. Le
indicarono una piccola stanza e le chiesero di attendere. Dopo circa un’ora,
l’uomo entrò e quando Marina si voltò, ebbe un sussulto: era lui.
***
Quando tornò a casa, ebbe un fremito
appena le porte si aprirono. Un pacchetto stazionava davanti alla sua porta,
con su un tulipano porpora.
Prese il pacchetto ed il tulipano
ed entró in casa. Decise di leggere prima il biglietto, che le annunciò solo
parzialmente il contenuto della scatola
Vorrei
indossassi questo per me stasera
Slegò il fiocco e aprì la scatola. L'oggetto era dentro una
carta velina color porpora. Diletta l'aprì con delicatezza e si trovò davanti
ad un completo intimo della sua misura, anch'esso color porpora. Il regalo la
infastidì parecchio, ma cercò di non mostrare alcuna emozione, convinta oramai
che da qualche parte lui avesse piazzato una videocamera per tenerla sotto
controllo.
Mangiò qualcosa in piedi davanti al frigo, bevve una birra e
fumò una sigaretta cercando di scrutare le finestre davanti a sé. Dentro e
fuori, sentiva violata la sua intimità e si ripropose di andare il mattino
seguente in Questura a denunciare il caso.
Passò la serata tra il computer e la TV. Michele non si
faceva vivo e pur di non chiamarlo e irritare il suo persecutore all’ascolto,
gli scrisse una email attivando la ricevuta di ritorno. Prima di andare a letto
controllò la posta, ma Michele sembrava non aver aperto l'email.
Non fece nemmeno la doccia, convinta che in qualche modo
l'uomo potesse vederla, indossò il completo ricevuto in regalo e si stese sul
letto, implorando Dio di potersi addormentare subito.
Quella notte il cellulare rimase muto.
Venerdì
«Buongiorno Diletta, è ora di
alzarsi»
La mano che le carezzò il viso le infuse un senso di
tenerezza, appena prima che si rendesse conto, con gli occhi ancora chiusi, che
lei viveva da sola in casa, si era addormentata da sola e nessuno poteva essere
in casa con lei, almeno nessuno che lei avesse ospitato volontariamente.
Una nuova carezza le infuse un brivido e le bloccò le
palpebre: lui era lí e lei non aveva il coraggio di aprire gli occhi. Come
aveva fatto ad entrare? Come poteva essere lì con lei?
«Diletta, è ora di alzarti, mia cara, e di conoscerci»
Il freddo di una lama le percorse la gola, dal mento fino
all'attaccatura dei seni. Decise che era arrivato il momento di aprire gli
occhi e vedere da vicino il suo incubo.
L'uomo era seduto sul letto, affianco a lei. La prima cosa
che vide furono un paio di jeans che nascondevano un paio di gambe lunghe e muscolose.
Una maglietta bianca con disegnato un tulipano porpora gli copriva il petto.
Una scritta sopra e sotto il fiore: “Perdiamo tempo cercando il perfetto
amante, invece di creare il perfetto amore”.
Infine Diletta alzò lo sguardo verso il suo viso e riconobbe
tratti conosciuti, ma non familiari. Era elegante, nell’aspetto e nei modi, ma
questo in nessun modo riusciva a tranquillizzarla. Era forse un medico, lo
associava per qualche motivo al dottor Caetani, ma non era il dottor Caetani.
Era evidente che il suo era stato solo un abbaglio dettato da piccole
coincidenze.
Si trattava forse di un altro pediatra, che lavorava con
Caetani e che aveva visto in reparto o al Pronto Soccorso? Poteva avere circa
trentacinque anni, anche se li portava decisamente male.
L'uomo ruppe
lo stupore ed il silenzio.
«Ti ricordi di me, Diletta?»
«Vagamente,
non so...»
«Sono il
padre di Pietro, ti ricordi di Pietro, vero?»
«Sì, me lo
ricordo. Cosa vuoi da me?»
«Non stare
sulla difensiva, mia cara...»
«Mi spii, mi
tormenti e infine entri in casa mia. E non dovrei stare sulla difensiva? Cosa
vuoi?»
«Sai che per
colpa tua io e Jenny non abbiamo più la custodia di Pietro? Ce lo hanno tolto,
lo sai?»
«Era il
minimo dopo quello che gli avete fatto...»
«Questo è
discutibile, Diletta... ma io non sono qui per quello... non sono un tipo
vendicativo...»
«E perchè
sei qui?»
«Sto cercando
una madre per mio figlio ed una compagna per me e tu mi sembri perfetta...
Integerrima, dolce, giovane...»
«Ma che
cazzo stai dicendo?»
«Ah no no no
no no» la rimproverò mettendole il dito proprio sotto il naso «Non si dicono le
parolacce, Diletta. No no no no no. Tu adesso stai buona qui... va bene? Oggi
starai a casa con me e parleremo un mucchio e ci conosceremo meglio, okay?»
«Lasciami
andare. Non puoi trattenermi qui. E tu lo sai...»
L’uomo alzò il coltello all’altezza
degli occhi di Diletta. Era un coltello simile a quello che le aveva regalato,
solo più grosso, e le vennero in mente le parole trancianti del biglietto “un
coltello affilato”, “un taglio obliquo e netto”. L’uomo le passò la lama tra le
sopracciglia, lungo il naso, sulla bocca, sul mento e già di nuovo fino al
petto.
«Oh sì che
posso...»
Quando
l’uomo uscì dalla stanza da letto, Diletta guardò in giro cercando il suo
cellulare, ma non lo trovò. Era evidente che lui lo avesse preso con sé. Ma ci
doveva essere pure un modo, si scervellava, per uscire da quella situazione!
L’uomo tornò
dopo dieci minuti con una tazza di caffé bollente.
Lo posò sul
comodino e le diede un biglietto, dove c’era scritta una poesia e le chiese di
leggerla ad alta voce. Diletta eseguì obbediente, incapace di ribellarsi:
Oh mia diletta
Oh mia diletta,
l’onore è ormai venduto
Chi vuole mammelle,
vada a Taza
O tu che sei tutta un vezzo,
mi fai morire di dolcezza!
Stanotte dormiamo insieme,
domani ce ne andremo.
«Ti piace, Diletta? E’ una poesia
erotica dei Tuareg. L’ho letta nei “Canti erotici dei Primitivi” di Alfonso di
Nola. Non la conosci, immagino... ma non è tutta... piano piano, se farai la
brava, io te ne svelerò un’altra strofa e poi ancora un’altra... fino alla
fine... ma solo, dico “solo” se farai la brava.»
«Cosa devo
fare?»
«Tutto ciò
che ti chiederò... Adesso, da brava, prendi il caffé.»
***
A Michele sembrava strano che Diletta non rispondesse né al
telefono dell’ufficio, nè al cellulare. Così nel pomeriggio si decise a passare
al Niguarda a chiedere direttamente di lei, ma nessuno gli seppe dire qualcosa:
non si era presentata e non si era nemmeno fatta viva.
Michele
iniziò a preoccuparsi. Qualcosa non gli tornava. Diletta era seriamente
preoccupata per quelle telefonate che riceveva e il suo amico non gli aveva
ancora fatto sapere nulla. Decise di telefonargli per sollecitarlo. Dopo circa
un’ora, l’amico gli ritelefonò:
«Sono due i
telefoni dai quali la tua amica ha ricevuto chiamate negli orari che mi hai
detto e sono dello stesso provider. Appartengono a Giovanni De Magistris e
Piera Del Monaco. La cella dalla quale hanno trasmesso è la stessa di quella
nella quale si trova Diletta.»
«Puoi
controllare adesso dove sono i tre cellulari?»
«Eh Eh Eh
amico, ma per chi mi prendi? Già fatto, ma mi spiace, in questo momento sono
tutti e tre spenti... Posso fare altro per te?»
«Nulla,
grazie ciao!»
Michele chiamò immediatamente la
Centrale per chiedere informazioni in merito ai due proprietari. Dopo poco lo
richiamò una collega per informarlo che entrambi erano schedati per spaccio di
droga e sevizie a minori. Michele decise di parlare con il suo capo per
decidere cosa fare. Sentiva che Diletta era in pericolo.
***
«E adesso ti prepari per la notte,
tesoro... Guarda cosa ti ho comprato!»
L’uomo estrasse da una scatola una
camicia da notte color porpora e la diede a Diletta, chiedendole di indossarla
per la notte. Diletta obbedì. Per tutto il giorno l’uomo l’aveva fatta bere e
si era convinta che in qualche modo oltre all’alcool aveva ingerito qualche droga
in corpo, per cui le risultava difficile controllare la sua volontà. Aveva subìto
le sue attenzioni, le sue carezze, aveva fatto cose che non avrebbe mai fatto
se fosse stata lucida, eppure le ricordava una per una. Ricordava l’umiliazione
che aveva provato, l’eccitazione di lui nel vederla eseguire passo per passo
tutte le sue indicazioni. Aveva dovuto ballare, sfilare con indosso vari
completi intimi, fingere di essere con lui una madre, accarezzarlo e
coccolarlo, aveva dovuto mangiare imboccata da lui, lavarsi, pettinarsi e
truccarsi, e tutto questo con una sensazione di vomito e terrore addosso che si
erano mischiati nel suo stomaco e rischiavano di farla crollare da un momento
all’altro. Eppure, aveva deciso di non cedere e cercava di tenere svegli tutti
i suoi sensi, per approfittare di un singolo attimo di debolezza e scappare.
Diletta indossò la camicia da notte
e lui le andò vicino. La mano sinistra teneva sempre, ad ogni comando che le
dava, il coltello affilato con la quale la minacciava. Anche adesso l’acciaio
le era vicino, appena sotto la gola, mentre lui le chiedeva di stendersi e
sistemarsi nella posizione dell’Uomo di Vitruvio, di Leonardo.
Poi estrasse un biglietto e le
chiese di leggerlo ad alta voce. Ancora la poesia, ancora un’altra strofa.
O
voi, cui ancora il ventre è intatto,
lasciatemi la mia porzione!
Con voi possa io dormire fino al
mattino
e il mio cuore sarà sazio.
Titem, o Titem
dalla variopinta cintura!
Sei un doce pomo
innestato alla radice!
Quindi l’uomo le diede da bere qualcosa e
dopo poco Diletta perse i sensi.
***
La polizia irruppe nell’appartamento nel quale Giovanni De
Magistris e Piera Del Monaco avevano abitato con il piccolo Pietro.
Un forte e nauseante odore colpì immediatamente tutta la
squadra, fungendo da presagio all’orribile spettacolo che dopo poco si presentò
ai loro occhi. La donna giaceva a terra in soggiorno, squartata nel ventre, una
ferita netta e tranciante, con il sangue e le budella che si riversavano fuori dal
corpo, sul pavimento.
La scientifica fu chiamata immediatamente. Nel giro di
qualche ora l’appartamento pullulava di poliziotti ed il primo rapporto fu
stilato. La morte era avvenuta Domenica mattina, di questo i tecnici ne erano
certi, ma nessuno, sembrava, era più stato nell’appartamento da allora.
***
Quando si riebbe, Diletta si ritrovò mani e piedi legate al
letto. Il ventre le bruciava e riuscì ad alzare appena la testa. Riuscì a
vedere una macchia di sangue sul suo ventre, poco più di un graffio, ma ne sentì forte nelle narici il profumo
metallico ed ebbe paura.
Si girò intorno e non vide nessuno. Nessun rumore proveniva
dalle altre stanze e si chiese dove fosse l’uomo. Cercò di alzare un po’ di più
la testa, ma tutto girava intorno a lei. Poi, dopo pochi secondi, sentì una
voce che recitava la poesia, di nuovo, con una cantilena simile a quella delle
nenie che i bambini si cantano prima di addormentarsi.
Oh mia diletta
Oh mia diletta,
l’onore è ormai venduto
Chi vuole mammelle,
vada a Taza
Si sentì nuda. Completamente sotto il suo controllo e la
cosa non le piacque. Provò a svincolarsi dalle corde, ma erano strette e
iniziava a sentire male sui polsi ed alle caviglie.
«Ti prego liberami, ho male...» lo implorò, ma per tutta
risposta l’uomo continuò a cantilenare la sua poesia.
O tu che sei tutta un vezzo,
mi fai morire di dolcezza!
Stanotte dormiamo insieme,
domani ce ne andremo.
«Sì, domani ti porto via di qui...
Ti porto con me, dove nessuno potrà trovarci. Resteremo soli io, te e il
piccolo Pietro. Piera non c’è più... lei non era una mamma adeguata come potrai
esserlo tu... quando Pietro piangeva mi implorava di fargli una dose, non
sopportava quel pianto... ed io, io cosa potevo fare? Piera piangeva ed io non
sopportavo di vederli piangere così, nessuno dei due... invece tu ci puoi
aiutare... domani andiamo a prenderci Pietro... lo so dove l’hanno portato... e
poi sei bella, sì, sei più bella di Piera, tu. Io posso innamorarmi di te e
staremo insieme... piccola Diletta, sarai una madre perfetta, lo so...» e nel
delirio riprese la cantilena.
O voi, cui ancora il ventre è
intatto,
lasciatemi la mia porzione!
Con voi possa io dormire fino al
mattino
e il mio cuore sarà sazio.
Si avvicinò al ventre di Diletta,
con il coltello tra le mani e passò ripetutamente la lama sul suo ventre.
Mentre andava su e giù ripeteva “il ventre è intatto” più volte e poi
ricominciava quella strofa. Quando Diletta si muoveva, lui le accarezzava il
ventre e lo baciava e quando lei cercava di sottrarsi, tornava a solcarlo con
la lama.
Titem, o Titem
dalla variopinta cintura!
Sei un doce pomo
innestato alla radice!
Diletta voleva reagire, ma tutti i
muscoli in lei erano come bloccati. Dentro di sé piangeva, ma cercava di
trattenere le lacrime per evitare che lui le vedesse. Si mordeva le labbra,
mentre la cantilena stillava parole di sangue e terrore. Fu in quel momento che
l’ultima strofa fece capolino.
Alla fonte la incontrai.
Mi diede da bere.
La ghermii per il piccolo collo,
la baciai a mio piacimento.
L’uomo si chinò sul suo collo e
iniziò a baciarla. Diletta scoppiò a piangere e questo sembrò innervosirlo parecchio,
perchè mentre con una mano le accarezzava i capelli e appoggiava la bocca sotto
il suo orecchio per baciarla, con l’altra continuava a passare la lama affilata
in su e in giù per il suo ventre, non profondamente ma al punto di graffiarla
in più parti. Tra l’orrore che provava per i baci non desiderati ed il bruciore
che le saliva dal ventre, Diletta era sconvolta e si agitava sempre di più,
cercando di divincolarsi. E più si divincolava, più la corda segava i suoi
polsi e le sue caviglie, aumentando la sensazione di impotenza e la paura per
ciò che stava per accadere.
L’uomo si fermò un attimo. Si alzò
su di lei e cambiò il coltello di mano. Quindi, iniziò a scorrere la lama lungo
il collo chiedendole in continuazione: «Ti piacciono di più i miei baci o la
mia lama?». Ad un certo punto affondò la lama appena sotto la superficie della
pelle e Diletta sentì un rivolo di sangue scorrerle lungo il seno,
attraversarlo e scivolare giù sul lenzuolo. Fu allora che perse il controllo e
si sentì urlare:
«Cosa vuoi
da me, maledetto?»
L’uomo la schiaffeggiò e le inveì
contro, puntandole la lama deciso alla base del collo.
«Non è così
che si comporta una buona madre, piccola Diletta. Devi assecondarmi, giurarmi
che farai quello che voglio e poi farlo. Io adesso ti farò mia... Lo dice anche
la poesia, Diletta “la baciai a mio piacimento” e tu devi lasciarti baciare...
senza protestare o altro... sennò che razza di madre sarai per il mio Pietro?»
«Lasciami
andare, ti prego, non voglio...»
La lama affondò in una gamba, appena
sotto l’inguine e il sangue iniziò a fiottare fuori un po’ più deciso. Diletta
urlò e la lama per ripicca affondò nell’altra gamba. Diletta sentiva il liquido
scenderle sulle cosce e il lenzuolo completamente bagnato sotto di lei, tirava
contro le corde, ma le ferite che avevano iniziato a formarsi sotto lo spessore
duro le inculcavano profonde fitte e più
cercava di reagire, più si sentiva debole, completamente a disposizione del suo
persecutore.
L’uomo si spogliò e si pose affianco
a lei, dondolandosi alla nenia della sua poesia erotica. Ad ogni strofa le
faceva bere del liquido amaro, poi si fermava ed accarezzava il corpo di
Diletta.
Oh mia diletta
Oh mia diletta,
l’onore è ormai venduto
Chi vuole mammelle,
vada a Taza
O tu che sei tutta un vezzo,
mi fai morire di dolcezza!
Stanotte dormiamo insieme,
domani ce ne andremo.
O voi, cui ancora il ventre è
intatto,
lasciatemi la mia porzione!
Con voi possa io dormire fino al
mattino
e il mio cuore sarà sazio.
L’uomo si fermò e Diletta percepì netto un ago che la
penetrava. Le stava iniettando qualcosa, ma nessuna forza in lei riuscì ad
opporsi a quello che Diletta immaginava stare succedendo.
Titem, o Titem
dalla variopinta cintura!
Sei un doce pomo
innestato alla radice!
Alla fonte la incontrai.
Mi diede da bere.
La ghermii per il piccolo collo,
A quel punto l’uomo si spostò esattamente sul corpo di
Diletta e vi si appoggiò sopra, iniziando a baciarla. Diletta non riusciva a
muovere più alcun muscolo, sentiva la testa che dondolava, l’amaro in bocca le
era sceso nello stomaco e la sensazione di vomitare era diventata sempre più
forte. Chiuse gli occhi, sentendo che oramai non poteva fare più nulla per
salvare se stessa.
Giornale del Mattino, Pagina di cronaca - Sabato
Giovanni De Magistris, trentasette
anni, è stato arrestato ieri notte per aver rapito, drogato e tentato di
stuprare una giovane poliziotta di venticinque anni. L’uomo è stato rinvenuto,
drogato, nell’appartamento di lei, dove si era intrufolato nella serata di
giovedì sera. Ha confessato di aver conosciuto la donna in ospedale, dove il
figlio era stato ricoverato in seguito ad un’overdose di eroina, che l’uomo gli
aveva iniettato, spinto dalla madre del bambino, Piera Del Monaco, che non ne
sopportava il pianto.
Nella serata di domenica l’uomo aveva
ucciso la sua compagna Piera, dopo una e si è quindi insediato in un
appartamento al piano superiore di quello nel quale abita la poliziotta. Ha
quindi iniziato a perseguitarla per telefono. La polizia sta ancora cercando di
verificare come l’uomo abbia potuto installare un avanzato sistema di
videocamere nell’appartamento della donna, che usava regolarmente per spiarla in
casa.
Sull’uomo pende, oltre a quelle già
citate, anche l’accusa di stalking. La poliziotta aveva parlato con un collega di
telefonate insistenti ricevute da parte di un numero privato. Poichè la donna
non aveva ancora voluto sporgere denuncia formale, il collega ha avviato alcune
indagini a titolo privato, che lo hanno portato ad identificare Giovanni De
Magistris come un possibile sospettato. Da qui la scoperta del cadavere della sua
compagna ed il sospetto che la poliziotta, non rintracciabile già da giovedì
sera, stesse correndo un reale pericolo.
Il profilo di Giovanni De Magistris è
ora alle analisi della polizia criminale. Si sta cercando di capire se il
movente sia una vendetta per l’accusa di violenza su minori, mossa a seguito
del ricovero in ospedale del piccolo Pietro, oppure se le attenzioni verso la
poliziotta siano nate solo accidentalmente nate in quella occasione.
La poliziotta è ora ricoverata in
osservazione, ma i medici ritengono che possa riprendersi nel giro di una
decina di giorni.
[3] Poesia erotica dei primitivi
Tuareg tratta da: “Canti erotici dei Primitivi” di Alfonso di Nola – Ed.
Garzanti - http://espressioniletterarie.blog.tiscali.it/2006/06/27/oh_mia_diletta___poesia_tuareg_1586620-shtml/
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