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8 mar 2012

Il Tulipano nero [The Stalker]

Stalker_by_Krumas.jpg
www.deviantart.com

Domenica

Era una strana serata di fine maggio a Milano, con un’afa che di solito solo in luglio colpiva la città, spolverizzandola con quell’umidità penetrante che giungeva a togliere il fiato e bagnava la pelle desiderosa di respirare.

Diletta aveva aperto tutte le finestre per creare un filo di corrente e sedeva appena dietro la portafinestra della cucina, guardando un pezzo di cielo stellato che faceva capolino tra due nuvole, illuminato da una luna bianca quasi pallida. Si accese una sigaretta, guardando la fiamma brillare davanti ai suoi occhi. Tirò su una boccata e si lasciò affascinare dal tabacco quando iniziò a brillare a cinque centrimetri dal suo naso. Un po’ di fumo le penetrò negli occhi facendoli lacrimare ed un colpo di tosse la colse di sorpresa.

Si tirò indietro i capelli biondi, che le ridiscesero dispettosi sul viso. Erano della stessa lunghezza, le arrivavano fin sotto le orecchie, e li considerava insopportabilmente lunghi e fastidiosi quella notte. Pensò che il giorno dopo sarebbe andata dal parrucchiere a tagliarli, corti, “ai minimi termini”, per poter reggere quell’insolito caldo di fine maggio, ma poi rise tra sé: era stata due giorni prima dal parrucchiere, perchè aveva visto Meg Ryan in un film con quel taglio e l’aveva adorato fin da subito, almeno quanto adorava l’attrice stessa, alla quale molti dicevano lei assomigliasse.

Scostò appena la canotta dalla pelle umida e si soffiò un po’ d’aria sul petto. Non portava reggiseno in casa e l’aria le solleticò i capezzoli regalandole un brivido. Si portò la sigaretta alla bocca e aspirò con voluttà, mentre il cellulare iniziò a squillare. Pigramente, Diletta allungò la mano sul tavolo vicino e guardò il display: «Numero Privato». Pigiò la cornetta verde bestemmiando tra sé, perchè odiava per principio chi non voleva farsi riconoscere.
«Pronto?»

Non c’era nessuno in linea. Riappoggiò il telefono sul tavolo e aspirò ancora una boccata. Di nuovo squillò il cellulare. Di nuovo «Numero Privato».
«Pronto? Chi è?» rispose con un tono di voce un po’ più alterato, ma di nuovo nessuno.

Si alzò nervosamente.
Era una settimana che tutti i giorni, alla stessa ora, il telefono squillava due volte, sempre un numero privato e sempre nessuno dall’altra parte del telefono quando lei rispondeva. Quella situazione stava diventando una piccola pentola a pressione piena di acqua in ebollizione e prima o poi sarebbe esplosa se non trovava il modo di controllarsi.
Si accostò alla porta finestra che conduceva al balcone e continuò a fumare, guardando davanti a sé. La sua mente stava cercando di trovare un modo per uscire da quella situazione. Chiamare il provider telefonico e chiedere che le rendessero noto quel maledetto numero privato? Fuori discussione... avrebbe dovuto fare una denuncia... ma i suoi colleghi avrebbero riso e l’avrebbero presa in giro se fosse andata a denunciare uno sconosciuto che ti telefona due volte al giorno e nemmeno ti parla... Chiedere a qualche amico allora... sì, Michele era il mago delle intercettazioni...
Il cellulare squillò interrompendo i suoi pensieri. Diletta guardò il display e si ritrovò con le lettere familiari che componevano la scritta «Numero Privato». Decise di non rispondere e dopo cinque squilli il cellulare cessò di suonare e vibrare. Non aveva ancora tirato un respiro di sollievo, che il display si illuminò di nuovo. «Numero Privato». Stavolta lo afferrò con rabbia e rispose:
«Chi cazzo sei?»
«Non dovresti fumare, ti fa male.»
«Chi cazzo sei?».
«E non dovresti parlare in modo così maleducato... Ah, Diletta, Diletta. Devi imparare ancora molte cose su come si trattano le persone, anche se, ho visto, stai facendo molti progressi...».
«Chi cazzo sei?» rispose nervosamente, spegnendo la sigaretta sul pavimento del balcone e schiacciandola con rabbia.
«No no no, non andiamo d’accordo... avanti, su, come si risponde al telefono? Brava, vedo che hai seguito il mio consiglio di non fumare, ma non dovresti spegnere la sigaretta sul balcone: hai un posacenere o sbaglio, in cucina?»

Diletta spense il cellulare e si girò, chiuse la porta finestra, e rimase dietro i vetri, ferma, immobile, con lo sguardo fisso davanti a sé. Cercava tra le finestre della casa di fronte una luce, un puntino luminoso che le facesse capire dove fosse quel porco che la stava spiando, perchè per averla vista spegnere la sigaretta doveva essere lì da qualche parte, dietro una di quelle migliaia di finestre di quel palazzone a vetri che le stava di fronte. E chissà cos’altro aveva visto...
Ed ebbe paura. Una fitta le sbudellò la pancia e da lì salì fino allo stomaco e la cena si riversò sul pavimento. La testa iniziò a girarle vorticosamente, si sedette a terra e iniziò a piangere e con il visto impiastricciato di lacrime e sudore si appoggiò al sedile in paglia della sedia sulla quale prima si stava godendo le stelle e il cielo. Gli occhi si trascinarono verso il basso: aveva appena iniziato la discesa verso l’inferno.
Lunedì

Si era risvegliata tra la puzza di vomito ed il sudore che le avevano impregnato i vestiti. La nausea le aveva preso lo stomaco e mentre cercava di pulire gli umori del suo corpo dal pavimento, prima di infilarsi nella doccia, si sentì di nuovo quel crampo dentro che le attanagliava corpo e anima. Si sentiva braccata e in gabbia, nelle mani di qualcuno che non sapeva chi fosse, con il cervello spappolato sul pavimento insieme al resto, incapace di pensare ad una soluzione.

Si alzò sulle gambe magre che tremavano, si diresse in bagno e aprì l’acqua della doccia, impostando il rubinetto sul freddo. Si spogliò, si guardò nello specchio il viso dagli occhi lividi e spenti, i capelli unti e imbrattati di cibo acido, si sentì addosso i suoi stessi liquidi e si sentì sporca, fuori, ma soprattutto dentro.

Si infilò nella doccia e vi rimase per mezz’ora. Quando ne uscì, si asciugò velocemente, infilò una canotta e una gonna lunga di cotone, chiuse tutte le finestre, prese la sua piccola borsa a tracolla, le sigarette e le chiavi e uscì. Stava per chiudere la porta quando si ricordò di aver lasciato il cellulare sul tavolo, riaprì e tornò in cucina. Afferrò il suo smartphone e lo percepì bollente, anche se si rese conto che era solo una sua illusione, una maledetta illusione.
L’aria stagnante del mattino non prometteva nulla di buono. Sarebbe stata un’altra giornata di caldo anomalo. Sarebbe stato così tutta la settimana, l’avevano detto al meteo la sera prima. E lei rimpianse di non avere l’aria condizionata a casa. Però almeno una casa ce l’aveva e ci si poteva rifugiare e dormire in un letto, quando uno stronzo non decideva di farla vomitare il suo disgusto e la sua paura sul pavimento...

Quando entrò nell’ufficio, il suo Comandante la squadrò con un’aria schifata e lei l’anticipò ancora prima di qualunque domanda: «Sono stata male stanotte...». Lui le rispose con un secco: «Sembri una di quelle barbone che recuperiamo per la Caritas. Almeno metti il tesserino fuori, così ti riconoscono». “Sempre carino...” pensò Diletta. Poi andò in bagno, si sciacquò ancora con acqua fredda il viso, si passò un filo di fard per limitare gli effetti del pallore ed un po’ di rimmel colorato per sembrare un po’ più normale. Prima di uscire si infilò il cordino con il badge.

Tornò in ufficio e si sedette alla sua scrivania. Il Comandante si avvicinò: «Guardami questi casi e dimmi se ci trovi qualcosa di strano. Sempre se ci sei di testa...». Poi aggiunse: «Fanno miracoli i cosmetici oggi, vero?»

Non poteva sopportarlo, centocinquanta chili di lardo ed un sorriso idiota sulla faccia, due battute sempre pronte ad affossarti. Giovanni Fucino, responsabile, si fa per dire, del Posto di Polizia presso l’Ospedale Niguarda, le stava chiedendo di guardare alcuni incartamenti sanitari relativi agli interventi di Pronto Soccorso del weekend precedente, per valutare se qualche caso dovesse essere approfondito: era il suo lavoro e, nonostante lui, le piaceva. Nella sua breve vita lavorativa aveva già sollevato dubbi che poi erano diventati certezze su stupri, violenze ai minori, violenze alle donne. Certo, le piaceva il lavoro “in strada”, lo aveva fatto anche per un certo periodo, ma poi, da quando era approdata lì, aveva trovato una dimensione diversa del lavoro di scrivania e, se non fosse per quella palla di lardo al quale doveva rispondere, tutto sommato poteva dirsi contenta.

Iniziò a scartabellare un po’ di fogli ed alla fine trovò uno che le parve “strano”, come diveva il Comandante. Ferite e lividi sul viso, una donna di trentotto anni, marocchina. Dichiarava di essersele provocate scivolando da una scala, ma in realtà solo una ferita era “fresca”. Le altre, per i medici, erano lì da giorni, probabilmente dovute a maltrattamenti che, ovviamente, la donna aveva negato. Continuò a sfogliare, guardando il solito bollettino dell’ortopedia con feriti di incidenti che puzzavano di alcool e droga lontano un miglio. Infine, si soffermò sull’ultimo della pila. Era una bambina di tre anni, Serafina. Non parlava, piangeva e non voleva farsi toccare. I genitori li conosceva già di nome: la madre era una ragazza di vent’anni che si impasticcava appena poteva, il padre un alcolizzato arrestato più volte per molestie. Sul corpo di Serafina una serie di ecchimosi, la più grave alla testa: era stata ricoverata in osservazione.

Il solito copione da replicare.  Fu presa da un conato di vomito e si rifugiò in bagno per mezz’ora. Poi tornò in ufficio, prese i tre incartamenti, andò nell’ufficio del Comandante, e li appoggiò quasi sbattendoli sulla sua scrivania.
«Eccotene tre. Avvio il solito iter, ok?»
«Sì, vai al Comando e recupera un profilo dei sospettati. Poi vattene a casa, ci vediamo domani, sarà meglio... hai ancora una faccia...»

Lo guardò incerta se ringraziarlo o meno.
Arrivò a casa verso le cinque. La testa le girava, era sudata, forse per il caldo o forse perchè semplicemente la paura stava tornando ad insediarsi nel suo stomaco. Infilò un paio di shorts, andò in cucina, prese una birra dal frigo, fregandosene del suo stomaco rivoltato, aprì la portafinestra e si mise a guardare le mille finestre che spiavano il suo appartamento. Il sole batteva contro di loro e non poteva vedere nulla. Bevve un sorso di birra, lasciando scivolare qualche goccia sul mento, che la rinfrescò. Poi si spostò in soggiorno, accese la radio, si sdraiò sul divano e si addormentò.

Erano circa le sette quando il citofono rimbombò sordo nelle sue orecchie. La testa le doleva sul collo, aprì gli occhi, si convinse a rimanere sdraiata pensando “Fottiti, chiunque tu sia!”, ma l’insistenza di quel suono nei timpani la urtò profondamente e si risolse ad alzarsi. «Chi è?» rispose sbraitando dentro la cornetta. «Fiori per lei» una voce timida da ragazzino rispose.

Spinse giù il bottone dicendo «Settimo piano», con la voce impastata dalla birra e dal sonno. Aprì la porta, recuperò il mazzo di fiori, diede una mancia ad un ragazzino riccio e scuro che sembrava uscito da un film su Spaccanapoli e chiuse la porta. Non si curò nemmeno di guardare il biglietto: scaraventò i fiori sul tavolo della cucina, poi tornò in soggiorno e si riaddormentò sul divano.

Notte tra Lunedì e Martedì

Diletta aprì gli occhi di colpo, percependo nettamente la sensazione che qualcuno la stesse guardando. Guardò l’orologio sul muro di fronte a sé: le tre di notte.

Si sollevò dal divano e andò in cucina. La luce abbagliante che calava giù dalla lampada a sospensione le rimandò l’immagine dei fiori sul tavolo della cucina, avvolti nel cellophane oramai appannato e pieno di goccioline.

Staccò il biglietto, mettendolo da parte sul tavolo, prese un paio di forbici dal cassetto e tagliò l’involucro. Rimase ferma a guardare quei fiori, tre bellissimi tulipani di colore porpora quasi nero. Prese il biglietto, con le mani che le tremavano. La carta era elegante, color avorio e la calligrafia era di quelle un po’ retro. L’inchiostro era marroncino e non era sbavato in nessun punto. La mano che aveva scritto il suo nome doveva essere sicura. Aprì il biglietto e lesse:
Il nome di questo fiore è “Regina della Notte”.
Sono Tre, uno per ieri, uno per oggi ed uno per domani.
Guardò istintivamente fuori dalla finestra e le sembrò che una sigaretta fosse accesa nel palazzo di fronte, due piani sopra di lei, dove la sua vista però non poteva arrivare a guardare dritto negli occhi quel malato osservatore.

Andò verso il frigorifero e si prese una birra. Quindi si accostò alla portafinestra, e con un umore tendente quasi al sarcastico brindò guardando le finestre, portando la birra verso quella finestra e urlando: «Dovunque tu sia, alla tua fottuta salute!»

Il cellulare squillò e Diletta non se ne meravigliò. Lo cercò e lo trovò appena in tempo per prenderlo in mano sull’ultimo squillo. Non fece in tempo a rimetterlo giù che squillò ancora. «Numero Privato». Rispose quasi allegra.
«Non dovevi comprarmi dei fiori, brutto stronzo.»
«Sei scortese per essere una Regina, mia Diletta.»

Le diede quasi fastidio sentire il suo nome in bocca a quell’uomo, l’ennesima violenza che le stava compiendo dopo essersi presa la sua casa ed il suo tempo libero. Chiuse istintivamente il cellulare che si rimise a squillare, ma stavolta Diletta non rispose.

Andò al computer e digitò su Google “tulipano Regina della notte”. Trovò un link al significato dei fiori e lesse con l’angoscia che le montava nello stomaco:

è il simbolico dell’amore perfetto (e dell’amante ideale), della fama e della vita eterna.[...]  I tulipani variegati o con i petali arruffati sorprendono con una nota più innovativa, mentre inserimenti di quelli color porpora scurissimo, quasi nero (‘Regina della Notte’), sono ancora più stravaganti. [...] tulipani neri, eleganti e dall’aura di mistero, simbolo di forza e di potere, ispirarono autori di opere letterarie e cinematografiche. Nel breve romanzo storico d’avventura dello scrittore francese Alexandre Dumas (Dumas Davy de la Pailleterie, 1802-1870), un brutale linciaggio avvenuto in Olanda, nel 1672, è nello sfondo di una vicenda romantica e di spionaggio industriale collegati alla coltivazione dei tulipani. In un’allegoria politica contro la pratica della tirannia in ogni tempo, il fatale ‘Tulipano Nero’ (1850) diventò simbolo di tolleranza, di giustizia, di amore vero, e alla fine fiorì comunque nonostante tanti impedimenti. Questo romanzo ispirò la trama di alcune pellicole dal titolo omonimo a partire dal film muto di avventura del 1921, ma anche indirettamente l’avventura farsesca di ‘Le Tulipe Noir’ (1963) di Christian Jaque, trasposto nella regione del Roussillon al tempo della Rivoluzione Francese. Il ‘tulipano nero’ (Alain Delon), un giovane nobile mascherato che cercava giustizia per i rivoluzionari vendicandosi delle angherie degli aristocratici, riuscì ad unirsi ai sanculotti e ad attaccare la Bastiglia (1789). Mentre ‘Operazione Tulipano nero’ fu un piano attuato negli anni 1946-1948 dal ministro della Giustizia olandese Kolfschoten per deportare tutti i tedeschi (3.691 persone) dai Paesi Bassi, nel breve documentario finlandese (1988) diretto da Pacho Lane, ‘Il Tulipano Nero’ (The Black Tulip) era l'aereo che rimpatriava le salme dei soldati sovietici che avevano combattuto in Afghanistan.[1]

Iniziò a parlare ad alta voce, girando intorno al tavolo della cucina e fumando una sigaretta: «Dunque, una dichiarazione d’amore in piena regola. Vuole essere il mio ‘amante perfetto’. E poi? Tre tulipani. Lo ha scritto: uno per ieri, uno per oggi e uno per domani, che poi è oggi, vista l’ora... e poi? Cosa farà? Verrà fuori allo scoperto?». Un brivido le percorse la schiena. Prese il cellulare, aprì la Rubrica e cercò Michele Arrighi. Schiacciò la cornetta verde e attese in linea. Il cellulare squillava libero ma nessuno rispondeva. “Che pirla!” si disse “ ma è notte, cazzo!” e spense immediatamente. Dopo due secondi il cellulare squillò e Diletta rispose velocemente, dando per scontato che fosse Michele che la richiamava.
«Mic, devi aiutarmi, c’è un pazzo...»
«Tu pensi che io sia pazzo, vero, Diletta?»

Diletta si fermò, scostò il cellulare e vide che la chiamata giungeva da un numero privato. Era lui e gli aveva appena detto che lo considerava un pazzo.
«Diletta, Diletta, mia cara. Sì, forse sono pazzo... ma sono pazzo di te. E sono anche geloso. A chi telefonavi prima? Mic... Michele, forse? E’ un tuo amico? Rispondi...» si fermò per aspettare una risposta e sentendo che Diletta non parlava, riprese con la voce alterata: «Chi è Michele, Diletta? Vuoi prenderti forse gioco di me con lui? E’ il tuo amante, eh? Non mi sembra di averne visti in giro per casa tua... cosa fai? Vai da loro eh, puttanella... con quel viso d’angelo non me la conti giusta...»

Diletta spense il cellulare, se ne fregò del fatto che fossero le tre di notte e richiamò Michele. Una voce impastata dal sonno le rispose.
«Sì...»
«Michele, sono Diletta. Scusami...»
«Di... Diletta?»
«Diletta De Robertis. Lavoro al Posto di Polizia del Niguarda. Ti ricordi? »
«Di... Diletta, sì... che è successo?»
«C’è un pazzo che mi chiama al cellulare. Numero Privato. Ho paura... scusami, ma non so cosa fare...»
«Chi è?»
«Come chi è? Se lo sapessi non ti avrei chiamato...»
«Scusami... hai ragione... ma da quanto ti chiama?»
«Una settimana. Ma è da ieri che ha cominciato a parlare...»
«Che vuol dire? Diletta, scusa, sono mezzo addormentato, non ho i riflessi pronti...»
«Prima faceva solo squilli e quando rispondevo chiudeva. Adesso mi parla... mi ha mandato anche dei fiori...»
«Hai uno spasimante, cosa c’è di male?»
«Uno spasimante che probabilmente mi osserva da una delle finestre di fronte. Sa tutto di me e l’ultima telefonata... beh, mi ha chiamato “puttanella”... ho paura, io vivo sola...»
«Senti, stai tranquilla... adesso dormi e domattina vienimi a trovare in ufficio. E porta il cellulare.»
«Senti, ma...»
«Non posso fare nulla ora, Diletta... ci vediamo domani, stai tranquilla, okay?»
«O... Okay, ciao»

Chiuse il telefono delusa, ma in fondo, si chiese, cosa poteva aspettarsi da uno che conosce appena, e che viene svegliato nel pieno della notte? Bevve un sorso di birra e si sedette vicino alla portafinestra, accendendo una sigaretta con rabbia, guardando davanti a sé con odio, come se sapesse che lui, da qualche parte, la stesse osservando ancora, provando forse piacere da quel moto di terrore che le aveva infuso in ogni cellula del suo corpo.

Martedì

Erano circa le nove di mattina quando Diletta si svegliò, gli occhi impastati di sonno e la bocca di birra. Si era scolata tre lattine una dopo l’altra e poi era crollata sul divano. La schiena le doleva e la testa era da tutt’altra parte.
Si fece una doccia gelata, si vestì ed uscì di casa.
Appena arrivò alla macchina, parcheggiata sotto casa, ebbe un sussulto. Sul parabrezza spiccavano un tulipano porpora identico a quelli che aveva ricevuto ed un biglietto, della stessa carta del precedente, con l’identica calligrafia che disegnava il suo nome e cognome sul margine destro. E in basso a sinistra la scritta “S.P.M”, Sue Proprie Mani. Insomma, consegna a domicilio, effettuata personalmente dal pazzoide.
Afferrò il tulipano e lo buttò a terra con rabbia. Quindi aprì il biglietto e lesse:
Per mantenere più a lungo vivo il dono bastano pochi accorgimenti, come accorciare il gambo tagliando i 3-4 centimetri finali dello stelo, non con le forbici, ma con un coltello affilato e con un taglio netto e obliquo...
Le scivolò il biglietto dalle mani, mentre quelle parole le risuonavano in testa “un coltello affilato ed un taglio netto e obliquo”. Doveva considerarla una minaccia? Doveva avere paura? Poteva ora denunciarlo?

Aprì la portiera, si infilò in macchina e inspirò l’aria lentamente, cercando di recuperare il fiato che le era venuto a mancare. Quindi si voltò per appoggiare la borsa sul sedile affianco e vide che c’era un pacchetto regalo. Non c’erano biglietti. La carta era elegante ed il fiocco avorio di seta l’avvolgeva quasi del tutto. Lo prese e lo aprì con foga. Dentro, una scatola di cartone. Aprì, svolse la carta velina e rimase inchiodata all’oggetto: un coltellino molto affilato ed una etichetta dove lo stesso inchiostro marroncino e la grafia elegante del biglietto riportavano:
Non ne hai a casa uno come questo, ne sono sicuro, quindi accetta questo dono per curare i miei fiori...

Scoppiò a piangere. Si sentiva sola, terrorizzata e non sapeva a chi dirlo. Forse avrebbe potuto parlarne con il suo Comandante, ma chissà cosa le avrebbe detto... sicuramente qualcosa di spiacevole. No, non se la sentiva di andare in ufficio. Chiamò il suo collega e gli disse di informare il Comandante che non stava bene e sarebbe restata a casa quel giorno. Poi girò la chiave, accese il motore e sgommò diretta verso l’ufficio dove avrebbe trovato Michele.

Non vennero a capo di molto e nel pomeriggio tornò a casa con la stessa angoscia con la quale era partita la mattina. In mancanza di una denuncia formale, Michele aveva solo potuto chiedere un favore ad un amico e questi prima della sera non sarebbe stato in servizio per rispondere. Accidenti!

Prese l’ascensore e arrivata davanti alla porta di casa rimase a bocca aperta. Una miriade di mazzi di fiori giaceva sul pavimento. Erano tutti tulipani color porpora. Guardò alcuni mazzi e si rese conto che erano tutti di diversi fiorai. Nessun biglietto. Sentì una serie di mandate da una porta del pianerottolo e tremò, fino a che non uscì fuori la signora Ribon, con un sorriso sdentato che l’avrebbe fatta ridere in un altro momento.
«Devi essere felice, Diletta... qualcuno ti vuole davvero bene, eh? Sono andati e venuti tutto il giorno... da tutta Milano... Chi ti ha fatto questo è una persona speciale, vero? Lo sai che i tulipani sono il simbolo dell’amore perfetto?»

Non sapeva cosa rispondere... La guardò con un mezzo sorriso, aprì la porta di casa e iniziò a tirar dentro quei mazzi di fiori. Poi salutò la signora Ribon e chiuse la porta lasciandosi dietro i suoi sorrisi. Scoppiò a piangere, e la nausea per il profumo che impestava oramai il soggiorno e che le ricordava gli ingressi di un cimitero le produsse un conato di vomito.

Prese un cartone che aveva sul balcone, radunò dentro tutti i mazzi di fiori, schiacciandoli dentro con i piedi, quando non riusciva con le mani, e poi portò giù il cartone dove il condominio raccoglieva l’immondizia. Se ne fregava del fatto che “lui” poteva accorgersene e risentirsene. E “lui” se ne doveva essere accorto, perchè dopo cinque minuti che era tornata su, il cellulare squillò dal solito «Numero Privato».

Rispose e rimase in attesa.
«Non sarai mica arrabbiata con me per tutti questi regali, Diletta? Pensavo di farti piacere, pensavo ti piacessero i tulipani porpora... Ma come sei sciupata oggi...» e Diletta a quelle parole volse lo sguardo verso la finestra due piani più in su rispetto a lei, come a volerlo guardare negli occhi, dritto, per sfidarlo. «Tesoro, davvero, dovresti riposare un po’... vai, vai a dormire, ti chiamo dopo... stasera sarà una serata speciale per noi...»

Fu lui ad agganciare e Diletta rimase con il telefono in mano, incerta su cosa fare.
Quindi chiamò Michele.
«Sono Diletta. Diletta De Robertis. Hai saputo nulla?»
«Ciao... ehm no, non ancora. Ludo monta alle otto stasera, non ricordi? Penso sapremo qualcosa domani... stai tranquilla...»
«Un cazzo tranquilla! Quel pazzo mi ha fatto trovare decine di mazzi di tulipani davanti casa e poi mi ha chiamato dicendomi che devo riposare perchè stasera sarà una serata speciale... »
«Denuncialo... stalking si chiama, Diletta... vai e denuncialo. Non so cosa dirti... vuoi... vuoi che venga lì, ne parliamo un attimo?»
«No, no grazie. Però appena sai qualcosa chiamami, okay?»

Stalking. Così si chiamava. Accese il computer e iniziò a leggere su qualche link in giro per il web. Alla fine si soffermò su una pagina interessante che descriveva in modo sintetico di cosa si trattasse, chi ne fosse responsabile e come respingerlo. Lo stalking è caratterizzato da comunicazione intrusiva, contatti diretti, ripetizione, insistenza. “Ci siamo fin qui” pensò. Si soffermò quindi sulle tipologie di stalker, per capire chi fosse quell’uomo che si stava intromettendo indebitamente nella sua vita. Il risentito... qualcuno che ha subito un torto... “Bene” pensò Diletta “con il lavoro che faccio c’è una fila di persone che potrebbero avermi puntato”. Il bisognoso d’affetto che si rivolge ad una vittima che ritiene lo possa aiutare sulla base di caratteristiche osservate... “Anche questo, con il mio lavoro, è facile... e dunque?”. In questi casi il rifiuto della vittima viene negato e reinterpretato sviluppando la convinzione che la vittima abbia bisogno di sbloccarsi. Il corteggiatore incompetente, meno resistente nel tempo, che cambia persona al primo rifiuto. “Questo no, non è il caso” pensò Diletta. Il respinto, che diventa persecutore sulla base di un rifiuto. “Impossibile, sono anni che non ho uno stralcio di spasimante, di ex, o categorie affini”. Il predatore, un molestatore che ambisce ad avere rapporti sessuali. “Sono messa bene, le uniche categorie che si sposano con quel pazzo sono quelle peggiori...”
Continuò a leggere, soffermandosi sul catalogo delle cose da fare:  inutile negare il problema, “No, non lo nego... sono gli altri che lo sminuiscono, io no...”; essere fermi nel dire di no “Non mi sembra di averlo assecondato fino ad ora...”; essere prudenti “Lo sono...”; non cambiare numero ma al limite dotarsi di una seconda linea e rispondere sempre meno... “cioè? Per questo stronzo devo comprarmi un altro telefono ed un’altra scheda? Non se ne parla nemmeno, ‘fanculo!”; raccogliere dettagli per la polizia “Oddio! Ho gettato tutti i tulipani... vabbé la signora Ribon può testimoniare”; recarsi dalle forze dell’ordine “Okay, domani ci vado...”.[2]
Erano circa le cinque, quando decise di fare un salto in ufficio. Avrebbe iniziato a guardare i casi che aveva trattato di recente e che si erano risolti in denunce concrete. Lo stalker avrebbe potuto nascondersi tra quelli. Doveva soltanto prendere il suo quaderno degli appunti dove segnava tutti  i nomi, le tipologie di reato, le condanne. E i casi risoltisi in niente.
Rientrò verso le sei, si preparò un panino, prese una birra, pose tutto sul tavolino di fronte al divano, con le sigarette, l’accendino ed il posacenere. Prese il suo quadernino e iniziò a sfogliare, pensando da che data potesse essere utile iniziare a guardare. Dopo di che scelse la soluzione più semplice: partire dai casi più recenti, dalla settimana precedente, cioè dal momento in cui aveva più o meno iniziato a ricevere le telefonate “mute”.

Circa verso le otto si interruppe. Non veniva a capo di nulla, perchè pensandoci e ripensandoci quell’uomo non aveva fornito nessun dettaglio di sé che poteva in qualche modo aiutare ad identificarlo. Non sapeva nulla di lui, se non che abitava o comunque aveva affittato un appartamento davanti a casa sua e aveva qualcosa di signorile che riusciva a intuire dalla sua grafia, dalla carta utilizzata, dalla conoscenza del significato dei fiori e dalle cose che diceva... sì, almeno la maggior parte.

Prese un foglio e annotò due cose: abita forse di fronte casa mia, uomo di una certa cultura ed educazione. Con queste due note in mente, ritornò agli ultimi casi e iniziò a evidenziare quelli che coinvolgevano persone che rispondevano al profilo che aveva tracciato. Era appena arrivata alla conclusione che non erano molti, circa una quindicina, quando il cellulare squillò. 

Sovrappensiero rispose:
«Sì?»
«Diletta, mia cara!»
Diletta riconobbe subito la voce e rimase in silenzio. Guardò verso sinistra, verso la finestra e scorse una luce accesa. Si diresse verso la portafinestra, mentre l’uomo continuava a parlare.
«Oggi non ti fai vedere, come vai? Proprio stasera, cara, che ho in serbo una sopresa per te... Non sei curiosa?»
Decise che era tempo di conoscere qualcosa di più di quell’uomo. Se voleva raccogliere elementi validi per incastrarlo con una denuncia, doveva farlo parlare. Quindi rispose:
«Ci conosciamo?»
«Oh, quale iniziativa! Diletta, mi parli? Mi riconosci, finalmente non neghi che io esista. Dobbiamo festeggiare, dunque... vai a prendere un bicchiere di spumante. Io il mio ce l’ho proprio qui per te... no, piccola Diletta... la tua eleganza stride con la birra che bevi. Guarda in frigo, mia cara...»

Diletta tremò al pensiero di aprire il frigorifero e trovarci qualcosa che non avesse comprato e riposto lì dentro lei stessa con le sue mani. Ma si convinse a farlo, a seguire quella messa in scena patetica che l’uomo le chiedeva di attuare, per il suo intimo e depravato piacere. Così aprì il frigo e trovò una bottiglia che evidentemente non aveva notato prima, quando aveva preso la birra. Una bottiglia di Dom Perignon Jeroboam, nella sua confezione d’argento. La prese, recuperò dalla credenza un bicchiere di cristallo, appoggiò entrambi sul tavolo e riprese il cellulare.
«Sono pronta. Cosa dobbiamo festeggiare, ma soprattutto con chi sto festeggiando?»
«Vuoi sapere troppe cose, mia cara. Ogni cosa a suo tempo. Apri la bottiglia e brindiamo a noi, del resto è giusto inaugurare una proficua collaborazione con un buon bicchiere di spumante... Non credevo cedessi così facilmente...»
Diletta eseguì con cura le indicazioni, bevve e poi riprese il cellulare, sicura che lui la stesse osservando da fuori.
«Mia cara, brava, brava davvero. Adesso devo chiederti di fare qualcosa di speciale per me, vuoi?»
«Prima dimmi se ci conosciamo...»
«Sono io che comando, Diletta. Quindi stai alle regole, altrimenti non è bello. Dunque, vuoi fare per me qualcosa di speciale?»
Diletta si risentì di quella reazione. Era evidente che l’uomo avesse qualcosa in testa e si sentiva spiazzato dal fatto che lei non collaborasse appieno secondo ogni minimo particolare. Doveva essere più accondiscendente verso di lui e vedere dove voleva arrivare.
«Dimmi, deciderò dopo...»
«Vuoi farmi stare sulle spine... va bene va bene Diletta... almeno questo te lo concedo. Dunque, adesso devi vestirti nel modo più elegante che puoi. Ci sarà un taxi giù tra un quarto d’ora e ti porterà in un ristorante. Il menu è fissato, il conto è pagato. Devi solo cenare e tornare  casa. Puoi fare questo per me?»
Sì, decise che poteva farlo e sicuramente lui sarebbe stato lì: doveva prestare la massima attenzione alle persone che incrociava e cercare di ricordare se ne avesse già vista qualcuna. «Sì, d’accordo».
Spense il cellulare senza dare all’uomo la possibilità di dire altro. Fece una doccia, si asciugò i capelli e indossò un abito di seta nera, scollato sul davanti e sulla schiena. Prese una collana di perle che le aveva lasciato sua madre, si truccò e puntuale scese. Il taxi l’aspettava come le era stato detto. Dopo circa mezz’ora scendeva davanti ad uno dei ristoranti più rinomati di Brera. Appena fu entrata, un cameriere imbalsamato la condusse ad un tavolo dove era apparecchiato per uno, con posate d’argento e piatti di fine porcellana. Una lunga candela nera ed elegante spiccava da un portacandele con la forma di aquila. Affianco, un vaso di cristallo nero avvolgeva un tulipano color porpora.
La cena fu squisita. Diletta ebbe modo e tempo di guardare ogni commensale nella sala, studiarne le caratteristiche, recuperare dagli archivi della sua memoria le immagini che più rispondevano a quei visi per paragonarli, incrociare le informazioni. Eppure nulla, nulla le rammentava seppur un piccolo particolare che la potesse condurre a qualcosa. Fu uscendo, quando era sulla porta, che lo notò. Era un uomo molto interessante, sulla quarantina, con i capelli grigi e gli occhi neri. La stava fissando e si rese conto che, sì, in fondo l’aveva guardata per tutta la cena. Che fosse lui? Fece finta di non accorgersene, cercando di scolpire quel viso nella memoria, pur certa che la sua fisionomia non le fosse del tutto sconosciuta.
Il taxi la riportò a casa, salì, si buttò sul divano e si accese una sigaretta. Il cellulare, puntuale, squillò.
«Hai passato una bella serata, Diletta?» le chiese la Voce, senza aspettare che lei dicesse nulla.
«Vorrei sapere chi sei. Non mi piace questo gioco al nascondino. Cosa vuoi da me?»
«Lo saprai a tempo debito, cara. Adesso mi piacerebbe che tu facessi un bel bagno caldo e te ne andassi a dormire. Non sta bene tutta quella stanchezza sul tuo viso, piccola. Lo farai? Per me?»
«Per stasera ho fatto abbastanza.» disse Diletta seccamente, chiudendo il cellulare, che dopo due minuti riprese a squillare. Ma lei non rispose. Rimase sul divano con la sigaretta accesa, fumandone boccata dopo boccata, accompagnata da quella musica che oramai stava imparando ad odiare.

Mercoledì

Il viso di quell’uomo del ristorante continuava a ossessionarla. Più pensava ai suoi lineamenti, più le sembravano familiari. Eppure così fuori da ogni contesto, non sapeva associarlo a nessun nome.
Chiamò Michele per sapere se il suo amico avesse rintracciato il numero di telefono, ma si sentì rispondere che non ce l’aveva fatta perchè era stato molto occupato. «Mi sta facendo un favore, Diletta, abbi pazienza...». La cosa le fece rabbia. Si sentiva impotente di fronte a quell’uomo ma capiva che non era ancora tempo per una denuncia, perchè sarebbe ancora sembrata lo sfogo delirante di una donna in crisi di solitudine. Doveva ancora aspettare.
Si tuffò nel lavoro. Doveva esplorare i casi che aveva segnalato al suo capo due giorni prima e decise di partire dal caso della marocchina. Doveva andare a parlare con la donna, cercando il momento giusto per farlo, quando fosse sola, quando fosse libera di parlare. Segnò nome cognome e indirizzo, salutò i colleghi ed uscì dall’ufficio per tuffarsi nell’afa di Milano che ancora non dava tregua a nessuno. Quando rientrò, distrutta dal colloquio con una donna alla quale aveva dovuto spiegare che era un suo diritto denunciare suo marito per quello che faceva e stranita per essersi confrontata con un mondo che era distante da lei quanto la stella più lontana dell’universo, compilò la scheda da inoltrare al dipartimento centrale con le sue osservazioni e se ne uscì.
Quando arrivò a casa, sul pianerottolo, infilato sotto la porta, vide un tulipano porpora ed un biglietto della stessa fattura dei precedenti e l’angoscia che l’aveva abbandonata nelle ultime ore le tornò in gola. Deglutì a fatica, mentre la signora Ribon faceva capolino da dietro la porta e le diceva sorridendo:
«E’ insistente, sembra un bravo signore...».
Diletta si voltò verso di lei e le chiese:
«Perchè, lo ha visto?».
La signora Ribon allora uscì da dietro la sua porta di casa, incredula per quell’occasione di scambiare due chiacchiere con qualcuno che non fosse il suo vecchio gatto e le spiegò:
«Stavo tornando dal fare la spesa. Sa, io vivo sola e la spesa devo farla io, ogni giorno un po’... non ce la faccio a portare tutte quelle buste...».
Diletta scalpitava ma si rendeva conto di non poterle estorcere l’informazione senza quel contorno di stupidaggini. Perciò stette ad ascoltarla.
«Ne compro un po’ alla volta, un giorno il pane e il latte, un giorno la verdura, un giorno la carne... I miei figli vivono lontani, loro non possono aiutarmi... ».
Diletta le sorrise: in fondo era una buona vecchina e non doveva essere facile per lei vivere tutto il giorno e la notte senza nemmeno qualcuno con cui scambiare due chiacchiere. Perciò la interruppe, un po’ per darle retta, un po’ per sollecitare la “sua” risposta:
«Se ha bisogno di qualcosa, io ho la macchina, si ricordi... posso accompagnarla... ma mi diceva che lo ha visto?»
«Beh, non so... è che ero qui sulle scale, stavo togliendo la roba dall’ascensore per portarla in casa ed è sceso da su un signore che mi ha aiutato. Un signore brizzolato, un bel signore con la faccia molto dolce. Sulla quarantina... credo...»
«Ma non era qui, allora... è sceso da su, è così?»
«Sì, eppure prima di andare via mi ha chiesto se la signorina Diletta De Robertis abitasse qui... proprio così “Abita qui, la signorina Diletta De Robertis?” e faceva segno alla porta, alla tua porta...»
«Ah...»
«Ecco e siccome sono uscita appena dopo per andare giù a prendere la posta, ho visto il fiore ed il biglietto ed ho pensato che fosse stato lui...»
«Quindi non l’ha visto metterlo...»
«No no, sono uscita... beh, in realtà era forse un’ora... forse due... non ricordo bene, sai Diletta, io sono vecchia e non ci bado più al tempo... passa da solo anche se non faccio nulla, magari un po’ più lento...»
«Beh, grazie signora Ribon... grazie davvero» disse Diletta e si dileguò dietro la porta indecisa se essere contenta o meno per quello che aveva appena sentito.
Le venne in mente soltanto dopo un po’ che anche l’uomo del ristorante era brizzolato. Le risultava familiare... e dunque poteva essere qualcuno che lei aveva conosciuto in qualche occasione e che da allora non si fosse più schiodato da lei.  Doveva ricordare chi fosse o almeno dove lo avesse visto... se fosse qualcuno che abitava nel palazzo...? Improvvisamente ebbe un dubbio, pensando che due piani sopra di lei si era appena trasferito un uomo divorziato, magari poteva essere lui. Ferma in cucina aprì la finestra e subito capì che la sua intuizione non poteva essere esatta: l’uomo non poteva spiarla, da due piani su... doveva essere qualcuno che abitava nel palazzo di fronte. Decise che l’indomani avrebbe fatto un sopralluogo a leggere i nomi dai citofoni, così forse qualcosa le sarebbe potuto venire in mente.
Aprì il frigo e stava per mangiare uno yogurth quando il cellulare squillò. Non erano nemmeno le sette, perciò rispose tranquillamente, senza pensare che potesse essere “lui”.
«Perdona, omnia Diletta. Stasera mi sono permesso di regalarti ancora un’emozione...»

Diletta rimase senza parole. Non si aspettava che l’uomo le telefonasse a quell’ora, nè capiva di cosa stesse parlando, perchè aveva dimenticato di aprire il biglietto, con tutte le chiacchiere della signora Ribon e le sue farneticazioni sul nuovo inquilino. Rimase in silenzio, aspettando che lui dicesse qualcosa.
«Hai aperto il mio piccolo regalo, Diletta?»
Per non lasciarsi cogliere impreparata, corse nel soggiorno e aprì la busta. Conteneva un biglietto per l’opera La Sonnambula di Bellini, ed era quella sera stessa, a teatro. Ma che significava?
«Dove vuoi arrivare, e soprattutto chi sei?»
«No no no no no Diletta. Così non andiamo d’accordo. Ti faccio un così bel regalo e tu? Ti arrabbi e inveisci contro di me? No, Diletta, no. Tu adesso vai a farti una doccia, ti metti un bell’abito, prendi il taxi che ho prenotato per te e vai dritta a teatro senza discutere... Non vorrai disobbedirmi, vero?»
C’era qualcosa di minaccioso nell’ultima frase, che inquietò Diletta al punto che si limitò a dire un secco «Bene» e a chiudere il cellulare. Ubbidì in tutto: fece la doccia, si vestì con un bell’abito scuro e scese in strada, dove un taxi l’aspettava.
Il teatro era pieno di gente. Sarebbe stato davvero difficile non trovare qualcuno che conoscesse, eppure ogni viso le risultava sconosciuto. Nessuno che richiamasse alla sua mente qualcosa, seppur per un piccolo particolare. Seduta in prima fila, quando lo spettacolo iniziò, lo seguì attentamente, alla scoperta di un indizio: era uno spettacolo a caso oppure la storia poteva dirle qualcosa? Non trovò nulla di affine alla sua vita, se non una canzone del primo atto, all’esordire della quale fece un salto che suscitò la disapprovazione di tutte le vecchie incartapecorite che le erano intorno. “Perdona omnia Diletta...”. Ma tutto qui. Una storia di amori e intrighi e incomprensioni a causa del sonnambulismo di Amina, la protagonista, che vien creduta traditrice dal suo fidanzato Elvino.
Fu solo alla fine, per un breve attimo, che pensò di vedere l’uomo brizzolato, appena qualche fila dietro di lei. Non era stato lui a cogliere la sua attenzione, ma la sua accompagnatrice, nella quale aveva riconosciuto una giovane infermiera di pediatria con la quale aveva parlato di un “caso” qualche mese prima. Era stato il suo bel viso che l’aveva attirata, un ovale perfetto con due fanali verdi incastonati negli occhi ed un sorriso che giudicava perfetto. Poi i suoi occhi si erano spostati sull’uomo che l’accompagnava, molto alto, brizzolato e quando lui si era girato, quasi intenzionalmente per guardarla, Diletta era trasalita. Era lo stesso uomo che aveva visto al ristorante la sera prima. Poi un attimo di confusione, e i due erano spariti alla sua vista.
Tornò a casa, si spogliò, indossò top e shorts e si affacciò alla finestra della cucina, come se si sentisse in dovere di farsi vedere e ringraziare per lo spettacolo. Lo squillo non si fece attendere, il che le confermò che l’uomo doveva abitare per forza di fronte a lei.
«Hai gradito lo spettacolo, Diletta?»
Diletta decise di osare e provocarlo. Forse lui aspettava solo quello per rivelarsi.
«Sarebbe stato forse più carino se ci fossi venuto tu con me. Da sola è stato fin troppo noioso.»
«Diletta, mi stupisci... non ti faccio più paura, cara?»
«Vorrei sapere chi sei.»
«Non avere fretta, tesoro... verrà il tempo che mi conoscerai. Ma... visto che tu hai osato, adesso, posso osare io?»
Un fremito percorse la schiena di Diletta. Non era preparata a questo. Cosa le avrebbe chiesto, ora? Non rispose, e lui continuò.
«Mi piacerebbe pensare che tu adesso vada a letto e ti spogli del tuo top e dei tuoi shorts. Rimani con quel bel completo intimo blu di pizzo che hai ed immagini di avermi al tuo fianco. Abbandonati a me, completamente e dormi... Dopo una cena ed un teatro... non pensi di dovermi almeno un pensiero felice, piccola “mia” » e sottolineò la parola – “mia” «diletta?»
Dunque era arrivato a chiederle qualcosa di particolarmente intimo. E come faceva a sapere che aveva indosso un intimo blu, di pizzo? Lo aveva cambiato appena prima di uscire e la finestra della sua camera da letto non era nemmeno dallo stesso lato della cucina, e lei aveva sempre avuto cura di chiudere le finestre quando si spogliava. Chi era quel maledetto che era entrato così dentro la sua intimità? Si stava finalmente rivelando... e lei iniziava ad avere paura. Spense il cellulare, chiuse la finestra e se andò in camera. Si tuffò nel letto e il cellulare riprese a squillare. Non rispose. Dopo cinque minuti il cellulare squillò di nuovo e lei non rispose. Dopo altri cinque minuti il cellulare squillò di nuovo e con la mano tremante rispose alla chiamata.
«Ho detto di toglierti il top e gli shorts, Diletta. Non mi hai capito? Devi restare con l’intimo blu... altrimenti potrebbe succederti qualcosa di brutto, piccola.... di tremendamente brutto, piccola Diletta e sarebbe un peccato, sì... un vero peccato»
Diletta rispense il cellulare. Con terrore tolse gli shorts e il top, rimanendo con il suo completo intimo blu. Sentiva di essere spiata, si guardava intorno cercando una telecamera o qualcosa che potesse darle il conforto di un mezzo che l’uomo stava usando per spiarla, ma non vide in giro nulla di strano. Si coprì con il lenzuolo ed il cellulare squillò di nuovo. Sentiva che doveva rispondere: quell’uomo stava diventando pian piano il suo padrone e lei aveva paura di contrariarlo. Se le era così vicino da poterla spiare, le era così vicino anche da poterle fare del male?
«Diletta, togli quel brutto lenzuolo... sei così bella senza...»
Fu lui che chiuse la comunicazione, lasciandola con il terrore nell’anima.
Dunque in qualche modo era lì con lei, adesso ne era convinta. La spiava, sapeva tutto, perfino come dormiva. Sicuramente sapeva della telefonata a Michele... perciò poteva aver preso provvedimenti. Iniziò ad immaginare che utilizzasse un telefono diverso per ogni chiamata, per non farsi riconoscere. Pensò ai suoi momenti più intimi, sotto la doccia, nel bagno: anche lì la spiava? Quanto sapeva di lei, della sua vita e soprattutto, da quanto tempo?
Non riusciva a dormire. Si girava e rigirava al buio cercando di accontentarsi dell’idea che almeno al buio potesse essere tranquilla e poi si riagitava al pensiero che esistono le videocamere che girano anche quando è buio, lo sapeva con certezza, lo aveva visto al corso. Quindi non aveva scampo?

Giovedì

Indagare sul caso di Serafina fu più complesso di quello che Diletta immaginava, ma pensò che fosse anche un’ottima occasione per andare a parlare con l’infermiera di pediatria e capire chi fosse l’uomo che l’aveva accompagnata a teatro la sera prima. Diletta non riusciva a togliersi di testa l’idea che quell’uomo, proprio lui, potesse essere il suo persecutore.
Così appena arrivò in ufficio, mollò la borsa nell’armadietto e si recò nel reparto di pediatria. Non ricordava il nome dell’infermiera e girò per i corridoi guardando nelle varie sale. Alla fine la trovò nella sala di osservazione temporanea. Si fermò fuori ed attese per circa mezz’ora, prima che uscisse.
Appena fu fuori, la fermò.
«Ciao. Sono Diletta De Robertis, del Posto di Polizia. Hai un attimo, per favore?»
La donna le fece segno di seguirla ed entrarono in una piccola infermeria dove non c’era nessuno.
«Dimmi tutto... siediti, prendi pure quella sedia...»
Diletta si sedette al di là del tavolo e osservò la donna. Era visibilmente tesa, nonostante fosse normale che ogni tanto lei sottoponesse a domande il personale medico e paramedico.
«Scusami, non ricordo il tuo nome.»
«Marina. Marina Gabrielli.»
«Sì, Marina, scusa... Ho un caso per le mani di una bambina di tre anni, Serafina. Domenica sera è stata portata in pronto soccorso in stato di choc: non parlava, continuava a piangere, non voleva farsi toccare. I genitori sono schedati: la madre è drogata ed il padre alcolizzato. Era stata trattenuta in osservazione, non so se è ancora qui, aveva varie ecchimosi, una alla testa.»
«Non mi sembra di averla vista... io sono rientrata oggi dalle ferie. Dovresti parlare con la capo reparto...»
«No, ascolta. Ho bisogno di parlare con te. Noi avevamo parlato già una volta, non so se ricordi...»
«Sì, sì, ricordo. Era per quel bambino al quale avevamo riscontrato i sintomi di overdose... qualche mese fa?»
«Sì, Pietro. Ecco, io volevo chiederti... ma non c’entra. Ti prego, scusami, ma sono sotto pressione. Ecco, vedi, credo di averti vista ieri sera.» La donna la guardò stranita. Non riusciva a capire dove volesse arrivare. La lasciò continuare. «Tu eri a teatro, con un uomo.»
Marina la guardò negli occhi irritata e poi sbottò:
«La mia vita privata è fuori da questa discussione.»
«Ho bisogno di sapere chi era quell’uomo, ti prego.»
«Che vuoi da me?» disse Marina alzandosi e girando intorno alla scrivania per uscire dalla stanza.
«Solo il nome di quell’uomo. Ti prego. E’ importante, non posso spiegarti perchè.»
«Mi spiace. Questo non è lavoro e non credo di poterti aiutare.»
«Marina, ti prego, sono nei guai e lui potrebbe aiutarmi.» disse Diletta, afferrando Marina per il camice.
«Non credo davvero. Mi spiace» Marina si strattonò dalla presa di Diletta e uscì.
Diletta si sedette e scoppiò a piangere. Quindi si ricompose, e uscì dalla stanza, cercando la donna nei corridoi. La vide da lontano ed era affianco all’uomo brizzolato della sera prima. Entrambi si voltarono dall’altra parte e scomparvero dietro un angolo. Diletta provò a seguirli, ma appena girato per il corridoio, non li vide più.
Guardò l’incartamento nelle sue mani. Decise che avrebbe ritentato dopo con Marina. Forse, spiegandole la situazione in cui era, lei avrebbe capito.
Si recò presso il posto delle infermiere e chiese del Dottor Francesco Caetani, il pediatra che era di turno la domenica sera, quando Serafina era stata portata al Pronto Soccorso. Le indicarono una piccola stanza e le chiesero di attendere. Dopo circa un’ora, l’uomo entrò e quando Marina si voltò, ebbe un sussulto: era lui.
***
Quando tornò a casa, ebbe un fremito appena le porte si aprirono. Un pacchetto stazionava davanti alla sua porta, con su un tulipano porpora.
Prese il pacchetto ed il tulipano ed entró in casa. Decise di leggere prima il biglietto, che le annunciò solo parzialmente il contenuto della scatola
Vorrei indossassi questo per me stasera

Slegò il fiocco e aprì la scatola. L'oggetto era dentro una carta velina color porpora. Diletta l'aprì con delicatezza e si trovò davanti ad un completo intimo della sua misura, anch'esso color porpora. Il regalo la infastidì parecchio, ma cercò di non mostrare alcuna emozione, convinta oramai che da qualche parte lui avesse piazzato una videocamera per tenerla sotto controllo.

Mangiò qualcosa in piedi davanti al frigo, bevve una birra e fumò una sigaretta cercando di scrutare le finestre davanti a sé. Dentro e fuori, sentiva violata la sua intimità e si ripropose di andare il mattino seguente in Questura a denunciare il caso.

Passò la serata tra il computer e la TV. Michele non si faceva vivo e pur di non chiamarlo e irritare il suo persecutore all’ascolto, gli scrisse una email attivando la ricevuta di ritorno. Prima di andare a letto controllò la posta, ma Michele sembrava non aver aperto l'email.

Non fece nemmeno la doccia, convinta che in qualche modo l'uomo potesse vederla, indossò il completo ricevuto in regalo e si stese sul letto, implorando Dio di potersi addormentare subito.

Quella notte il cellulare rimase muto.

Venerdì

«Buongiorno Diletta, è ora di alzarsi»
La mano che le carezzò il viso le infuse un senso di tenerezza, appena prima che si rendesse conto, con gli occhi ancora chiusi, che lei viveva da sola in casa, si era addormentata da sola e nessuno poteva essere in casa con lei, almeno nessuno che lei avesse ospitato volontariamente.
Una nuova carezza le infuse un brivido e le bloccò le palpebre: lui era lí e lei non aveva il coraggio di aprire gli occhi. Come aveva fatto ad entrare? Come poteva essere lì con lei?
«Diletta, è ora di alzarti, mia cara, e di conoscerci»

Il freddo di una lama le percorse la gola, dal mento fino all'attaccatura dei seni. Decise che era arrivato il momento di aprire gli occhi e vedere da vicino il suo incubo.

L'uomo era seduto sul letto, affianco a lei. La prima cosa che vide furono un paio di jeans che nascondevano un paio di gambe lunghe e muscolose. Una maglietta bianca con disegnato un tulipano porpora gli copriva il petto. Una scritta sopra e sotto il fiore: “Perdiamo tempo cercando il perfetto amante, invece di creare il perfetto amore”.

Infine Diletta alzò lo sguardo verso il suo viso e riconobbe tratti conosciuti, ma non familiari. Era elegante, nell’aspetto e nei modi, ma questo in nessun modo riusciva a tranquillizzarla. Era forse un medico, lo associava per qualche motivo al dottor Caetani, ma non era il dottor Caetani. Era evidente che il suo era stato solo un abbaglio dettato da piccole coincidenze.

Si trattava forse di un altro pediatra, che lavorava con Caetani e che aveva visto in reparto o al Pronto Soccorso? Poteva avere circa trentacinque anni, anche se li portava decisamente male.
L'uomo ruppe lo stupore ed il silenzio.
«Ti ricordi di me, Diletta?»
«Vagamente, non so...»
«Sono il padre di Pietro, ti ricordi di Pietro, vero?»
«Sì, me lo ricordo. Cosa vuoi da me?»
«Non stare sulla difensiva, mia cara...»
«Mi spii, mi tormenti e infine entri in casa mia. E non dovrei stare sulla difensiva? Cosa vuoi?»
«Sai che per colpa tua io e Jenny non abbiamo più la custodia di Pietro? Ce lo hanno tolto, lo sai?»
«Era il minimo dopo quello che gli avete fatto...»
«Questo è discutibile, Diletta... ma io non sono qui per quello... non sono un tipo vendicativo...»
«E perchè sei qui?»
«Sto cercando una madre per mio figlio ed una compagna per me e tu mi sembri perfetta... Integerrima, dolce, giovane...»
«Ma che cazzo stai dicendo?»
«Ah no no no no no» la rimproverò mettendole il dito proprio sotto il naso «Non si dicono le parolacce, Diletta. No no no no no. Tu adesso stai buona qui... va bene? Oggi starai a casa con me e parleremo un mucchio e ci conosceremo meglio, okay?»
«Lasciami andare. Non puoi trattenermi qui. E tu lo sai...»
L’uomo alzò il coltello all’altezza degli occhi di Diletta. Era un coltello simile a quello che le aveva regalato, solo più grosso, e le vennero in mente le parole trancianti del biglietto “un coltello affilato”, “un taglio obliquo e netto”. L’uomo le passò la lama tra le sopracciglia, lungo il naso, sulla bocca, sul mento e già di nuovo fino al petto.
«Oh sì che posso...»

Quando l’uomo uscì dalla stanza da letto, Diletta guardò in giro cercando il suo cellulare, ma non lo trovò. Era evidente che lui lo avesse preso con sé. Ma ci doveva essere pure un modo, si scervellava, per uscire da quella situazione!
L’uomo tornò dopo dieci minuti con una tazza di caffé bollente.
Lo posò sul comodino e le diede un biglietto, dove c’era scritta una poesia e le chiese di leggerla ad alta voce. Diletta eseguì obbediente, incapace di ribellarsi:

Oh mia diletta
Oh mia diletta,
l’onore è ormai venduto
Chi vuole mammelle,
vada a Taza

O tu che sei tutta un vezzo,
mi fai morire di dolcezza!
Stanotte dormiamo insieme,
domani ce ne andremo.
«Ti piace, Diletta? E’ una poesia erotica dei Tuareg. L’ho letta nei “Canti erotici dei Primitivi” di Alfonso di Nola. Non la conosci, immagino... ma non è tutta... piano piano, se farai la brava, io te ne svelerò un’altra strofa e poi ancora un’altra... fino alla fine... ma solo, dico “solo” se farai la brava.»
«Cosa devo fare?»
«Tutto ciò che ti chiederò... Adesso, da brava, prendi il caffé.»

***
A Michele sembrava strano che Diletta non rispondesse né al telefono dell’ufficio, nè al cellulare. Così nel pomeriggio si decise a passare al Niguarda a chiedere direttamente di lei, ma nessuno gli seppe dire qualcosa: non si era presentata e non si era nemmeno fatta viva.
Michele iniziò a preoccuparsi. Qualcosa non gli tornava. Diletta era seriamente preoccupata per quelle telefonate che riceveva e il suo amico non gli aveva ancora fatto sapere nulla. Decise di telefonargli per sollecitarlo. Dopo circa un’ora, l’amico gli ritelefonò:
«Sono due i telefoni dai quali la tua amica ha ricevuto chiamate negli orari che mi hai detto e sono dello stesso provider. Appartengono a Giovanni De Magistris e Piera Del Monaco. La cella dalla quale hanno trasmesso è la stessa di quella nella quale si trova Diletta.»
«Puoi controllare adesso dove sono i tre cellulari?»
«Eh Eh Eh amico, ma per chi mi prendi? Già fatto, ma mi spiace, in questo momento sono tutti e tre spenti... Posso fare altro per te?»
«Nulla, grazie ciao!»
Michele chiamò immediatamente la Centrale per chiedere informazioni in merito ai due proprietari. Dopo poco lo richiamò una collega per informarlo che entrambi erano schedati per spaccio di droga e sevizie a minori. Michele decise di parlare con il suo capo per decidere cosa fare. Sentiva che Diletta era in pericolo.
***
«E adesso ti prepari per la notte, tesoro... Guarda cosa ti ho comprato!»
L’uomo estrasse da una scatola una camicia da notte color porpora e la diede a Diletta, chiedendole di indossarla per la notte. Diletta obbedì. Per tutto il giorno l’uomo l’aveva fatta bere e si era convinta che in qualche modo oltre all’alcool aveva ingerito qualche droga in corpo, per cui le risultava difficile controllare la sua volontà. Aveva subìto le sue attenzioni, le sue carezze, aveva fatto cose che non avrebbe mai fatto se fosse stata lucida, eppure le ricordava una per una. Ricordava l’umiliazione che aveva provato, l’eccitazione di lui nel vederla eseguire passo per passo tutte le sue indicazioni. Aveva dovuto ballare, sfilare con indosso vari completi intimi, fingere di essere con lui una madre, accarezzarlo e coccolarlo, aveva dovuto mangiare imboccata da lui, lavarsi, pettinarsi e truccarsi, e tutto questo con una sensazione di vomito e terrore addosso che si erano mischiati nel suo stomaco e rischiavano di farla crollare da un momento all’altro. Eppure, aveva deciso di non cedere e cercava di tenere svegli tutti i suoi sensi, per approfittare di un singolo attimo di debolezza e scappare.
Diletta indossò la camicia da notte e lui le andò vicino. La mano sinistra teneva sempre, ad ogni comando che le dava, il coltello affilato con la quale la minacciava. Anche adesso l’acciaio le era vicino, appena sotto la gola, mentre lui le chiedeva di stendersi e sistemarsi nella posizione dell’Uomo di Vitruvio, di Leonardo.
Poi estrasse un biglietto e le chiese di leggerlo ad alta voce. Ancora la poesia, ancora un’altra strofa.
O voi, cui ancora il ventre è intatto,
lasciatemi la mia porzione!
Con voi possa io dormire fino al mattino
e il mio cuore sarà sazio.

Titem, o Titem
dalla variopinta cintura!
Sei un doce pomo
innestato alla radice!

Quindi l’uomo le diede da bere qualcosa e dopo poco Diletta perse i sensi.

***

La polizia irruppe nell’appartamento nel quale Giovanni De Magistris e Piera Del Monaco avevano abitato con il piccolo Pietro.
Un forte e nauseante odore colpì immediatamente tutta la squadra, fungendo da presagio all’orribile spettacolo che dopo poco si presentò ai loro occhi. La donna giaceva a terra in soggiorno, squartata nel ventre, una ferita netta e tranciante, con il sangue e le budella che si riversavano fuori dal corpo, sul pavimento.
La scientifica fu chiamata immediatamente. Nel giro di qualche ora l’appartamento pullulava di poliziotti ed il primo rapporto fu stilato. La morte era avvenuta Domenica mattina, di questo i tecnici ne erano certi, ma nessuno, sembrava, era più stato nell’appartamento da allora.

***

Quando si riebbe, Diletta si ritrovò mani e piedi legate al letto. Il ventre le bruciava e riuscì ad alzare appena la testa. Riuscì a vedere una macchia di sangue sul suo ventre, poco più di un graffio, ma  ne sentì forte nelle narici il profumo metallico ed ebbe paura.

Si girò intorno e non vide nessuno. Nessun rumore proveniva dalle altre stanze e si chiese dove fosse l’uomo. Cercò di alzare un po’ di più la testa, ma tutto girava intorno a lei. Poi, dopo pochi secondi, sentì una voce che recitava la poesia, di nuovo, con una cantilena simile a quella delle nenie che i bambini si cantano prima di addormentarsi.

Oh mia diletta
Oh mia diletta,
l’onore è ormai venduto
Chi vuole mammelle,
vada a Taza

Si sentì nuda. Completamente sotto il suo controllo e la cosa non le piacque. Provò a svincolarsi dalle corde, ma erano strette e iniziava a sentire male sui polsi ed alle caviglie.
«Ti prego liberami, ho male...» lo implorò, ma per tutta risposta l’uomo continuò a cantilenare la sua poesia.

O tu che sei tutta un vezzo,
mi fai morire di dolcezza!
Stanotte dormiamo insieme,
domani ce ne andremo.
«Sì, domani ti porto via di qui... Ti porto con me, dove nessuno potrà trovarci. Resteremo soli io, te e il piccolo Pietro. Piera non c’è più... lei non era una mamma adeguata come potrai esserlo tu... quando Pietro piangeva mi implorava di fargli una dose, non sopportava quel pianto... ed io, io cosa potevo fare? Piera piangeva ed io non sopportavo di vederli piangere così, nessuno dei due... invece tu ci puoi aiutare... domani andiamo a prenderci Pietro... lo so dove l’hanno portato... e poi sei bella, sì, sei più bella di Piera, tu. Io posso innamorarmi di te e staremo insieme... piccola Diletta, sarai una madre perfetta, lo so...» e nel delirio riprese la cantilena.
O voi, cui ancora il ventre è intatto,
lasciatemi la mia porzione!
Con voi possa io dormire fino al mattino
e il mio cuore sarà sazio.
Si avvicinò al ventre di Diletta, con il coltello tra le mani e passò ripetutamente la lama sul suo ventre. Mentre andava su e giù ripeteva “il ventre è intatto” più volte e poi ricominciava quella strofa. Quando Diletta si muoveva, lui le accarezzava il ventre e lo baciava e quando lei cercava di sottrarsi, tornava a solcarlo con la lama.
Titem, o Titem
dalla variopinta cintura!
Sei un doce pomo
innestato alla radice!
Diletta voleva reagire, ma tutti i muscoli in lei erano come bloccati. Dentro di sé piangeva, ma cercava di trattenere le lacrime per evitare che lui le vedesse. Si mordeva le labbra, mentre la cantilena stillava parole di sangue e terrore. Fu in quel momento che l’ultima strofa fece capolino.

Alla fonte la incontrai.
Mi diede da bere.
La ghermii per il piccolo collo,
la baciai a mio piacimento.
L’uomo si chinò sul suo collo e iniziò a baciarla. Diletta scoppiò a piangere e questo sembrò innervosirlo parecchio, perchè mentre con una mano le accarezzava i capelli e appoggiava la bocca sotto il suo orecchio per baciarla, con l’altra continuava a passare la lama affilata in su e in giù per il suo ventre, non profondamente ma al punto di graffiarla in più parti. Tra l’orrore che provava per i baci non desiderati ed il bruciore che le saliva dal ventre, Diletta era sconvolta e si agitava sempre di più, cercando di divincolarsi. E più si divincolava, più la corda segava i suoi polsi e le sue caviglie, aumentando la sensazione di impotenza e la paura per ciò che stava per accadere.
L’uomo si fermò un attimo. Si alzò su di lei e cambiò il coltello di mano. Quindi, iniziò a scorrere la lama lungo il collo chiedendole in continuazione: «Ti piacciono di più i miei baci o la mia lama?». Ad un certo punto affondò la lama appena sotto la superficie della pelle e Diletta sentì un rivolo di sangue scorrerle lungo il seno, attraversarlo e scivolare giù sul lenzuolo. Fu allora che perse il controllo e si sentì urlare:
«Cosa vuoi da me, maledetto?»
L’uomo la schiaffeggiò e le inveì contro, puntandole la lama deciso alla base del collo.
«Non è così che si comporta una buona madre, piccola Diletta. Devi assecondarmi, giurarmi che farai quello che voglio e poi farlo. Io adesso ti farò mia... Lo dice anche la poesia, Diletta “la baciai a mio piacimento” e tu devi lasciarti baciare... senza protestare o altro... sennò che razza di madre sarai per il mio Pietro?»
«Lasciami andare, ti prego, non voglio...»
La lama affondò in una gamba, appena sotto l’inguine e il sangue iniziò a fiottare fuori un po’ più deciso. Diletta urlò e la lama per ripicca affondò nell’altra gamba. Diletta sentiva il liquido scenderle sulle cosce e il lenzuolo completamente bagnato sotto di lei, tirava contro le corde, ma le ferite che avevano iniziato a formarsi sotto lo spessore duro le inculcavano profonde fitte  e più cercava di reagire, più si sentiva debole, completamente a disposizione del suo persecutore.
L’uomo si spogliò e si pose affianco a lei, dondolandosi alla nenia della sua poesia erotica. Ad ogni strofa le faceva bere del liquido amaro, poi si fermava ed accarezzava il corpo di Diletta.

Oh mia diletta
Oh mia diletta,
l’onore è ormai venduto
Chi vuole mammelle,
vada a Taza

O tu che sei tutta un vezzo,
mi fai morire di dolcezza!
Stanotte dormiamo insieme,
domani ce ne andremo.

O voi, cui ancora il ventre è intatto,
lasciatemi la mia porzione!
Con voi possa io dormire fino al mattino
e il mio cuore sarà sazio.

L’uomo si fermò e Diletta percepì netto un ago che la penetrava. Le stava iniettando qualcosa, ma nessuna forza in lei riuscì ad opporsi a quello che Diletta immaginava stare succedendo.

Titem, o Titem
dalla variopinta cintura!
Sei un doce pomo
innestato alla radice!

Alla fonte la incontrai.
Mi diede da bere.
La ghermii per il piccolo collo,
la baciai a mio piacimento.[3]

A quel punto l’uomo si spostò esattamente sul corpo di Diletta e vi si appoggiò sopra, iniziando a baciarla. Diletta non riusciva a muovere più alcun muscolo, sentiva la testa che dondolava, l’amaro in bocca le era sceso nello stomaco e la sensazione di vomitare era diventata sempre più forte. Chiuse gli occhi, sentendo che oramai non poteva fare più nulla per salvare se stessa.

Giornale del Mattino, Pagina di cronaca - Sabato

Giovanni De Magistris, trentasette anni, è stato arrestato ieri notte per aver rapito, drogato e tentato di stuprare una giovane poliziotta di venticinque anni. L’uomo è stato rinvenuto, drogato, nell’appartamento di lei, dove si era intrufolato nella serata di giovedì sera. Ha confessato di aver conosciuto la donna in ospedale, dove il figlio era stato ricoverato in seguito ad un’overdose di eroina, che l’uomo gli aveva iniettato, spinto dalla madre del bambino, Piera Del Monaco, che non ne sopportava il pianto.
Nella serata di domenica l’uomo aveva ucciso la sua compagna Piera, dopo una e si è quindi insediato in un appartamento al piano superiore di quello nel quale abita la poliziotta. Ha quindi iniziato a perseguitarla per telefono. La polizia sta ancora cercando di verificare come l’uomo abbia potuto installare un avanzato sistema di videocamere nell’appartamento della donna, che usava regolarmente per spiarla in casa.
Sull’uomo pende, oltre a quelle già citate, anche l’accusa di stalking. La poliziotta aveva parlato con un collega di telefonate insistenti ricevute da parte di un numero privato. Poichè la donna non aveva ancora voluto sporgere denuncia formale, il collega ha avviato alcune indagini a titolo privato, che lo hanno portato ad identificare Giovanni De Magistris come un possibile sospettato. Da qui la scoperta del cadavere della sua compagna ed il sospetto che la poliziotta, non rintracciabile già da giovedì sera, stesse correndo un reale pericolo.
Il profilo di Giovanni De Magistris è ora alle analisi della polizia criminale. Si sta cercando di capire se il movente sia una vendetta per l’accusa di violenza su minori, mossa a seguito del ricovero in ospedale del piccolo Pietro, oppure se le attenzioni verso la poliziotta siano nate solo accidentalmente nate in quella occasione.
La poliziotta è ora ricoverata in osservazione, ma i medici ritengono che possa riprendersi nel giro di una decina di giorni.

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