Quando le luci furono spente e solo un
faro rimaneva ad illuminare il pianoforte, si fece forza ed uscì sul palco, si
inchinò davanti al suo pubblico e si avviò al pianoforte. Un lungo applauso
aveva seguito il suo ingresso nella sala, ma nel momento in cui si era seduto
al pianoforte, il pubblico aveva taciuto in un silenzio quasi religioso.
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Seduta in platea, Carola riconobbe l’attacco dell’Allegretto del K.467 e fu rapita da quella musica: i violini che si contendevano le note, il pianoforte che iniziava a suonare, l’alternarsi e l’accompagnarsi degli strumenti. Non ricordava l’ultima volta che era stata al Conservatorio. Andava sempre con Simone, tutti i mercoledì. Da quando si erano lasciati, non era tornata più, non perché non le piacesse la musica, ma perché non voleva trascinarsi dietro ricordi inutili. La musica che sentiva riuscì a trascinare nel suo cuore, piano piano, tutte le fotografie della sua vita. Ricordava la città natale; il lungomare d’inverno, le onde spumeggianti che arrivavano fino al marciapiede nelle giornate più ventose o fin su in cima ai lampioni, che si ergevano sul muretto bianco per chilometri intorno alla città; la muraglia della città vecchia, dove si era incautamente avventurata tante volte, quando si offriva come guida turistica a parenti e amici che l’andavano a trovare; il liceo, le amicizie dell’adolescenza, i ritrovi nella via centrale la sera, nella speranza di trovare qualcuno con il quale passare qualche ora di libertà dalla famiglia; l’università, la laurea e poi la partenza verso un mondo sconosciuto, che le avrebbe regalato tante esperienze quante non ne avesse mai fatte fino ad allora. E poi, Milano. Da quella città si era aspettata tanto e lei l’aveva ricambiata, con la sua vita, i suoi locali, i suoi cinema, i suoi divertimenti. L’amore, no: quello se n’era andato, due volte nella sua vita, ma ora si sentiva tranquilla e serena. Aveva un compagno al quale era affezionata e che era un padre splendido, due bimbi che, per quanto la facessero ammattire, erano la sua vita. Sorrise verso Lisa come per ringraziarla di quel regalo. Lisa: l’amica che aveva sempre desiderato, l’amica che non aveva più, l’amica con la quale avrebbe condiviso quella serata un po’ folle.
La musica finì e portò via in un
attimo tutte le sue fotografie. Le luci della sala si accesero gradualmente. Il
pianista si alzò, fece un inchino al pubblico, che era rimasto per l’intero
concerto in silenzio, ma applaudiva ora fortissimo e sembrava non voler
smettere più.
Gabriel si avviò deciso dietro le quinte e
si ritirò quasi subito nel suo camerino a riposarsi un attimo. Suonare per lui
era sempre uno sforzo intenso, seppur piacevole. Si sentiva molto stanco dopo i
concerti e adorava quelle pause che gli consentivano di prendere fiato,
ripensare ai pezzi successivi che avrebbe dovuto suonare. Fumava un sigaro tra
un tempo ed un altro e anche stavolta ne accese uno, inspirando la prima
boccata con gusto. Daniele lo aveva portato lì e gliene era grato, pensando con
quale dovizia aveva curato ogni particolare, dall’albergo ai fiori sul palco,
ai sigari in camerino. Bussarono alla porta: era Daniele.
- Gabriel… Sei stato eccezionale! Credimi! Hai visto che non la smettevano più di applaudire? Oh, prepara il bis perché glielo devi… So che difficilmente lo concedi… eh, eh, ti ho seguito in quasi tutti i concerti. Ma stasera, se te la senti, fai un bel regalo a questo pubblico entusiasta! Pensaci.
- Vediamo, dài. Conta i secondi che applaudono al secondo tempo e poi me lo dici, così decido.
- Stupido Spagnolo! Non sei mica cambiato in ventidue anni, sempre la testa matta!!! Bobo che no sei altro.
- Va’ là… non vedi che sono invecchiato? Chissà dov’è quel ragazzino lì…
- Ah, Gabriel. Ti fermi a cena con me dopo. Non hai possibilità di replica. Ho una sorpresa. Devi venire.
- Una sorpresa, quale?
- No, no, non te lo dico... Una “vecchia” sorpresa. Sarai mica venuto a Milano solo per suonare?
- Se non me lo dici non faccio il bis….
- No… dài. E’ una sorpresa.
- Se non me lo dici non faccio il bis...
- Vabbè, ti perdi la sorpresa! Te lo dico…?
- Sì, spara.
- Ricordi Carola? La sorella di Tommy…
- Sì…. Perché?
- Beh, non escludere che sia lei che abbia trascinato il pubblico in quel lungo applauso. L’ho incrociata prima. E’ stata anche per me una sorpresa! Ha avuto un biglietto da un’amica ed è qui, in platea. Ci vediamo dopo a cena. C’è anche lei, ma non sono davvero sicuro che ti abbia riconosciuto… Ti passo a prendere dopo in camerino… Vai ora, ti stanno chiamando…
Uscì sul palcoscenico sconvolto da quella
rivelazione, affrontando il pubblico per scrutarlo, per cercare quei dolcissimi
occhi verdi che l’avevano stregato a sedici anni, quella treccia sbarazzina,
quell’essere magrino per il quale aveva perduto il suo sonno per anni, prima di
riuscire a liberarsene quel tanto da condurre un’esistenza decente e
tranquilla. Si avvicinò al pianoforte camminando all’indietro, con le luci che
lo accecavano e che non riuscivano a fargli vedere nulla, se non gli splendidi
fiori sul palco. Si sedette al pianoforte, cercò per un minuto, lungo,
lunghissimo, la concentrazione ormai persa e diede un veloce assenso con il
capo al Maestro, per incominciare il concerto K.595. Sentiva i violini dolci
rincorrersi nell’Allegro velocemente, giocare l’uno con l’altro a rimpiattino e
unirsi all’unisono per trionfare altisonanti nel silenzio che era tornato nella
sala. Attaccò deciso al suo momento, giocò con i violini e non smise un attimo
di rincorrere, con gli occhi chiusi, la partitura del concerto. Ma il suo
pensiero era solo uno e ora sapeva di stare suonando solo per lei: Carola.
Tornò al loro ultimo bacio. Quanto l’aveva
amata. Era stato il suo primo amore e non l’aveva mai dimenticata. Per anni si
era alzato pensando a lei, si era coricato pensando a lei, avendo solo lei nel
cuore e nessun’altra. Ma era un uomo pigro, per il quale il tempo passava
davanti ad un pianoforte o ad una tela da riempire con i sentimenti. Le parole
non erano mai state per lui. Le aveva scritto tre lettere in tre anni, ognuna
che incominciava con delle scuse banali, ricordava. Non aveva mai tempo. La
scuola, il giornalino scolastico, le prove, i concerti, la pittura: in realtà
aveva cercato di occupare tutto il tempo per non pensare a lei, a quanto quella
distanza fosse per lui iniqua, insopportabile e alla fine il tempo l’aveva
allontanata da lei. I primi anni, ricordava bene, riceveva regolarmente le sue
lettere e le sue telefonate. Aveva risposto a qualche lettera e aveva
ricambiato qualche telefonata, ma non aveva mai trovato nessuna occasione per
dirle quanto l’amasse e quanto la desiderasse. Gli sembrava impossibile che
quella ragazzina potesse pensare a lui e ricambiare quel sentimento così forte
che per la prima volta aveva provato in vita sua. Si erano sposati per
telefono, una sera, e da allora la considerava davvero sua “moglie” e la
chiamava così, nelle telefonate che ogni tanto capitavano quando erano ancora
ragazzi… Avrebbe voluto averla sposata su un vero altare, vestita di bianco,
con i capelli sciolti finalmente da quella treccia ribelle, raccolti solo da
una coroncina di roselline piccole e bianche, come aveva visto nella foto di
sua mamma sposa. Aveva immaginato il suo esile corpo in un vestito di seta
color champagne; aveva immaginato quel vestito un po’ aderente in vita e sui
fianchi farle risaltare l’acerbo seno ed i sottili fianchi; aveva visto quel
vestito allargarsi in fondo e morbidamente nascondere ed accompagnare le sue
belle gambe abbronzate. Aveva visto quegli occhi verdi scambiarsi con i suoi
innocenti frasi d’amore con la sola intensità dello sguardo. Aveva udito la sua
voce pronunciare un “Sì” per la vita e aveva udito la propria risponderle in
egual modo. Aveva assaporato quel bacio nuziale, aveva infilato dolcemente
quell’anello sul suo anulare e l’aveva così legata a sé per sempre, contro ogni
violenza del destino. A sé per sempre… E invece l’aveva persa e se ne dava la
colpa ogni giorno. Si rimproverava di non averle più scritto, di non averle più
telefonato. Aveva avuto paura, paura di non ritrovare più quella ragazza, ma
una persona diversa che avrebbe potuto ferirlo. Aveva avuto paura di
quell’amore così violento per il suo cuore di sedicenne. Aveva avuto timore di
perdere per sempre il suo cuore dietro a qualcuno, che non avrebbe potuto
essere lì quando ne aveva bisogno, a consolarlo con un sorriso, a mettergli una
mano sulla spalla, ad incoraggiarlo e a ricambiare il suo amore. E per notti
intere era rimasto sveglio con la finestra aperta a guardare le stelle, per
riconoscere quelle che avevano accompagnato il loro amore acerbo. Per giorni
interi aveva suonato il pianoforte immaginandola dietro di sé, con la sua
treccia scombinata, con i suoi occhioni verdi pronti a sorridere non appena lui
si fosse voltato. Aveva fatto lunghe camminate solitarie, solo con il suo
dolore, lungo la costa dell’Oceano, sedendosi sulla spiaggia e lanciando sassi
contro il mare, quasi questi fosse colpevole della loro distanza. Ed era
cresciuto con quel dolore, incapace di interessarsi ad altro che non fosse il
pianoforte, la sua musica, la sua pittura, la sua arte, uniche espressioni
lecite di quel dolore che in sé provava ancora forte, come il giorno che
l’aveva lasciata.
Dopo dieci anni di quella solitudine,
nella quale si era accompagnato svogliatamente a occasionali compagne solo per
fare piacere agli amici, aveva incontrato Leya. Lei era così giovane, aveva
poco più di vent’anni e il suo candore l’aveva fatto risvegliare dal torpore
nel quale era caduto. Si era lasciato guidare verso la riscoperta delle piccole
gioie di ogni giorno e la sua presenza costante, la sua guida, la sua mano
sicura gli avevano offerto un porto nel quale ben presto aveva cercato di
affondare il suo dolore. Pensava a Leya, a quanto fosse diversa da Carola:
ricordava Carola così sbarazzina, sempre con il sorriso sulle labbra; Leya
invece quasi sentiva il suo dolore e ne era turbata. Aveva capito che lui non
l’avrebbe mai amata davvero e Gabriel poteva sentire la sua sofferenza, certe
notti che gli si abbracciava contro, quasi a temere lui potesse andare via.
Carola...
Un solo pensiero mentre suonava: i suoi
occhi verdi che lo stavano scrutando, che gli stavano contando i segni
dell’età. Le sarebbe ancora piaciuto? E lei, com’era diventata dopo ventidue
anni? Non la ricordava bene fisicamente, se non quei particolari sui quali
aveva giocato per anni: i suoi occhi verdi, i suoi capelli ricci, il suo corpo
magro e abbronzato. Non ricordava i dettagli di quella estate: era solo in sé
il ricordo, non in fotografie che poteva sbirciare per ritornare a frammenti di
quella vita. E quella vacanza era lei, soltanto lei, con gli occhi verdi, i
capelli ricci. L’avrebbe riconosciuta, se l’avesse vista per caso in giro, per
strada? L’avrebbe riconosciuta tra il pubblico, se avesse potuto scorrere viso
dopo viso ogni poltrona della sala? Non sapeva rispondere. Carola…
Chiuse il concerto giocando con un
violino e poi un altro e poi staccò con veemenza le mani dalla tastiera,
abbassando la testa verso il pianoforte, quasi a voler sbattere lì i suoi
pensieri. Si alzò, accecato ancora dalle luci che oramai si erano accese
completamente nella sala. Si inchinò al pubblico, si alzò, e mentre questi
instancabile continuava ad applaudire al suo talento, sostò per dieci minuti
ancora lì davanti a tutti solo per scrutare “gli” occhi verdi in platea. Non
sapeva cosa cercare, non aveva un solo elemento, fosse il colore del vestito,
fosse il colore dei capelli – magari lo aveva cambiato!
Alla fine la vide. Era seduta in seconda
fila, un po’ di lato, defilata. Aveva immaginato per tutto il secondo tempo del
concerto che lei fosse al centro della sala, così com’era stata al centro della
sua vita. Invece era in quell’angolo, a godere della sua presenza e della sua
musica, vicini di nuovo, ma quanto ancora lontani? Era bellissima nel suo abito
nero, con le braccia abbronzate che fremevano per ogni applauso. Quegli occhi
verdi gli penetrarono il cuore con la stessa forza di ventidue anni prima e non
seppe più resistere al suo richiamo e si lasciò tentare.
Zittì il pubblico con un cenno della
mano, prese un microfono e annunciò al pubblico che avrebbe suonato ancora,
solo per ringraziarlo di tanto calore. Si avvicinò al pianoforte e sfiorò le
prime note…
Carola riconobbe una musica che le spezzò
il cuore: Chopin, Opera 10, Studio n.3 in Mi Maggiore, “Tristezza”.
All’improvviso non riuscì più a distogliere gli occhi dal palco. All’improvviso
non ci fu più nessuno nella sala, era sola davanti a lui e quelle note non
erano le note comuni di un pianista su un palco, in una divertente serata di
fine settembre: erano le “sue” note, che trascinarono sul suo viso incredulo la
prima lacrima e dopo di essa altre, copiose, senza che lei potesse fare nulla
per fermarle. Le bagnavano le labbra e ne assaporava il gusto salato, una dopo
l’altra e quando si fermarono un istante, davanti ai suoi occhi non c’era più
un uomo di trent’otto anni. Seduto a quel pianoforte c’era solo un ragazzo, di
sedici anni, bruno, con gli occhi nocciola, il naso all’insù, la pelle
abbronzata ed un sorriso dolcissimo.
Sentiva che stava suonando il piano solo per lei, facendole provare delle
sensazioni intense, che le sembravano così reali, che ebbe paura si potesse
svegliare da un momento all’altro. Doveva essere lui per forza, doveva essere
Gabriel.
D’un tratto non ci fu più nemmeno il
palco davanti a lei, ma solo il mare, il mare di Samos, con le sue spiaggie
bianche ed i suoi colori unici ed intensi. Vedeva le colline di Samos e le
baite dove si erano fermati a mangiare lo yogurth con il miele e avevano finito
per leccarsi l’uno con l’altro le mani per togliere la sensazione di
appiccicaticcio. Vedeva i prati verdi dove lui le aveva fatto mangiare l’erba
solo perché lei voleva fotografarlo. Vedeva il centro sportivo dove Gabriel
giocava a volano con suo fratello e Daniele. Vedeva se stessa, una ragazzina di
quattordici anni, magrina e scialba, con una treccia lunga sempre disfatta a
causa dei suoi riccissimi capelli; una ragazzina che si era innamorata
perdutamente di quel ragazzo spagnolo così dolce e tenero. Vedeva i suoi occhi
nei suoi. Vedeva due ragazzi che si era giurati l’amore eterno l’ultimo giorno
di vacanza, con il cuore a pezzi perché ognuno doveva tornare a casa. Vedeva
solo questo, null’altro. Il cuore continuava a battere, le mani a tremare, le
lacrime a solcare il suo viso.
Carola restò inchiodata per tutto
il tempo alla poltrona e non si alzò nemmeno quando il pezzo fu finito. Fu solo
in quel momento che Lisa si accorse che aveva pianto e le appoggiò teneramente
la mano sulla spalla. Carola la guardò, ma le strinse la mano quasi a
tranquillizzarla che tutto andava bene ed il suo viso cominciò ad irradiare una
luce che solo a Gabriel fu possibile vedere, lassù dal palco.
Gabriel scese
dal palco e si diresse verso di lei. Carola sentì il suo cuore bruciare, sentì
il peso delle lacrime sugli occhi e sulle labbra. Quando le fu di fronte,
Gabriel le prese la mano, la baciò galantemente e le sussurrò: - Ci vediamo,
piccoletta.
- Gabriel... - tentennò Carola.
- Buon Compleanno...
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