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3 giu 2010

Il mio primo giorno di lavoro

Era un mercoledì. Un normale mercoledì di quelli che ti alzi come al solito alle sei, fai colazione e ginnastica per sentirti meno in colpa per quei due o tre chili di troppo accumulati negli ultimi mesi, ti vesti di fretta, accompagni i bambini a scuola, prendi il metro e arrivi in ufficio.

“Normale”, quel mercoledì, non lo era affatto: era il mio primo giorno di lavoro.

Il mio primo giorno di lavoro fu un po’ come il primo giorno di scuola, chiusa nel tailleur grigio e la camicia di seta, un foulard piegato a chiudere lo scollo della camicetta, due tacchi ingombranti che completavano la divisa. La tensione dentro era grande. Durante il viaggio in metro ripetevo da brava liceale la mia lezione: cosa ti aspetti dal lavoro, quali problemi, quali sfide.

Ore 11 l’appuntamento. Salgo al terzo piano con l’ascensore, per non dover svelare l’affanno di fumatrice e mi presento davanti alla porta dove lui mi aspetta. Io non so cosa aspettarmi in realtà, ho solo tante speranze di vedermi assegnare il ruolo che merito dopo tanta esperienza e successi cumulati negli anni e poter continuare a svegliarmi la mattina con lo stesso entusiasmo che avevo un tempo di andare a lavorare. Cosa si aspetta lui non lo so, ma non devo attendere molto per scoprirlo.

Tavolo rotondo. Appoggio la mia presentazione e inizio a parlare. Decisa, ferma, illustro quello che da grafici e note è abbastanza palese, facendo pesare i risultati positivi e illustrando quelli che davanti a un capo non devi mai indicare come “problemi” ma solo “punti di attenzione”.
Piano piano il sogno inizia a sfaldarsi. Gli occhi sono lo specchio dell’anima. Gli occhi sono quanto di più trasparente ci possa essere. Gli occhi non mentono. Gli occhi mostrano che l’interesse non è sulla carta, sulle parole, sui contenuti. Gli occhi sono fissi alla base del collo, nel punto esatto in cui un lato della camicetta si accosta all’altro lato e puoi solo immaginare il bottone che si incastra perfettamente nell’asola, poichè di fatto il bottone è velato da un foulard.

Io continuo a guardarlo negli occhi, ma i suoi occhi non guardano i miei.

E’ umiliante, anche se dopo circa venti minuti lo sguardo risale e finalmente si concentra sui contenuti. Forse si è reso conto che sto dicendo qualcosa di interessante. Dopo due ore esco. L’impressione è di essere passata in modo trasparente in un ufficio, disturbando per quel poco di brezza che si è alzata, mentre di qui e di là volava qualche foglio.

Scendo, passo dal mio ufficio e prendo spazzolino e dentifricio. Vado in bagno e vomito. Vomito l’anima e le mie speranze. Mi sciacquo la bocca, mi rassetto e mi passo addosso un po’ di profumo per nascondere l’odore di acido che dal terzo piano mi porto addosso.

Torno al mio posto, digito la password e riprendo a lavorare.

Finito il sogno del primo giorno di lavoro, ricasco nella mia realtà. In realtà l’ufficio è il mio ufficio e il primo giorno è solo il colloquio con il nuovo Direttore. Benvenuto direttore.

Nulla è cambiato, oggi pomeriggio tornerò a casa come al solito e domattina sarà ancora duro alzarsi e fare lo stesso percorso. La ferita è rimasta aperta, ma so che devo disinfettarla, mettere su un cerotto e tornare a giocare con i numeri nella mia trasparenza.

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