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23 giu 2010

La panchina


Ero seduta su una panchina del parco. Era una sera d’estate, il 23 giugno. Quell’estate il caldo era quasi insopportabile per un’anziana come me, che respirava a fatica in inverno, figurarsi d’estate quando la calura era opprimente.

Ero solita uscire la sera, dopo cena, verso le dieci e mi sedevo sotto la piccola panchina a bordo del lago, illuminata da un piccolo lampione alto e nero. Sotto quella luce, tra le fronde, potevo spiare la luna e sognavo, come fossi una bambina, innocenti fate e dispettosi folletti intorno a me, piccoli compagni di un’età ingrata nella quale l’immaginazione lascia spazio ai ricordi.

Ero sola. Sola come una vita può lasciarti ad un certo punto e forse per questo amavo quel posto, perchè lì mi sentivo in compagnia delle mie piccole creature magiche, trasportata in un mondo incantato dove il dolore non ha spazio nè tempo per espandersi.

I raggi della luna imbiancavano i miei capelli forse più di quanto la natura avesse già osato, ma a me non importava più, strana cosa a dirsi dopo che a lungo mi ero affannata dietro al sembrare carina, all’avere un portamento da modella e al vestire in modo consono alle occasioni.

Quella sera ero particolarmente stanca e malinconica. Gli acciacchi dell’età mi impedivano oramai uscire tutte le sere e quel sentore di libertà perduta mi infastidiva, come preludio ad una vita più dipendente dagli altri, che io avevo sempre rifuggito.

Gli occhi erano fissi sul lago, sulle onde che si rinfrangevano dolcemente sulla riva e che ritraendosi verso il centro quasi invitavano a seguirle. “Non potrei mai farlo” pensai, un po’ con nostalgia dei tempi in cui da giovane ero solita tuffarmi da quel punto appena più a destra del lampione, dove il terreno forma una leggera collinetta. Ma nemmeno il tempo di pensarlo, io già ero sul piccolo monticello a guardare l’acqua.

“Bello questo posto” pronunciò una voce alle mie spalle.

Trasalii. Nelle tante sere che avevo passato lì seduta sulla panchina non si era mai visto nessuno e, forse, era per questo che io continuavo a frequentarlo con assiduità, convinta che nessuno lo conoscesse e potesse disturbarmi nelle mie passeggiate.

“Strano che lo conosca anche lei, non l’ho mai vista da queste parti”

“Ci sono sempre stato. Vengo qui ogni sera verso le dieci e mi siedo su quella panchina davanti al lampione”

“Oh bella. Vuole scherzare? Ci vengo anche io ogni sera verso le dieci, ma non l’ho mai vista” risposi con una punta di rabbia per la presunzione di quel vecchiaccio di prendersi gioco di me.

“Non scherzo, sa? Sono circa sessant’anni che vengo qui. Tutte le sere. Mi siedo su questa panchina alle dieci in punto e passo un po’ di tempo qui a pensare.”

“Senta, ma chi vuole prendere in giro lei? Anche io è tanto tempo che vengo qui, sempre le dieci e sempre questa panchina. Io non ho mai visto nessuno, che lei ci creda o no. ” E cominciai a scrutarlo. Era un signore distinto, con un completo bianco con il gilet, un cappello in testa ed un bastone di noce lucido in mano per sorreggersi mentre camminava. Mi ricordava qualcuno quel viso. Era un viso familiare e forse per questo io non riuscivo nè a temere qualcosa da lui nè ad arrabbiarmi con lui, ma da quei capelli bianchi, da quegli occhi così profondi io proprio non riuscivo a tirar fuori un nome. Eppure rimaneva il mistero di quella panchina, dove io posso anche giurare di essermi seduta sola tante sere, senza nessun’altro che il vento come compagno.

Poi all’improvviso lui mi prese la mano e mi disse “Venga, venga a sedersi” e mi portò sulla panchina dove ci sedemmo in silenzio, perdendoci a guardare le onde.

Fu come un attimo, una piccola brezza che a me scompigliò i capelli e a lui fece volar via il cappello, facendo trasformare quei tratti familiari nel volto dell’unico amore che io avessi mai vissuto e che mi aveva lasciato per una malattia grave quando non avevo ancora vent’anni. Mi prese per mano e mi chiese con gli occhi di seguirlo. I nostri piedi lambivano l’acqua del lago senza bagnarsi e dolcemente vi camminavano su. Seguivamo le onde, l’una dopo l’altra, camminando verso il centro, fino a quando io non so davvero come fu, una immensa luce ci avvolse e ci portò via con sè. Solo allora, in quel caldo che mi avvolgeva, io capii che su quella panchina, è vero, lui c’era sempre stato, ma io non lo avevo mai visto fino a quella sera, quando finalmente le mie paure erano sparite e mi ero sentita pronta ad arrendermi per sempre all’eternità.

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