Dialogo tra la nostra "nonsolomamma" e Jesper Juul, esperto di bambini
E’ l’alba di un lunedì, tu, in ciabatte e capelli a carciofo, prepari la colazione a tutta la famiglia e sei stravolta, prima ancora di cominciare a vivere. Tua figlia dodicenne ti annuncia garrula che vuole farsi il
piercing al sopracciglio, come la sua amica Floriana. Risponderle «il piercing mi fa schifo, la tua amica Floriana è una tamarra e io ho parecchio mal di testa, quindi facciamo finta che tu non abbia aperto bocca», non va affatto bene e soprattutto non rispetta la pari dignità tra voi.
Se passi la domenica a fare lavatrici, pulire i pavimenti, cucinare l’arrosto, portare fuori il cane e farti la ceretta per essere sempre in ordine e desiderabile, mentre lui, il tuo fidanzato/compagno/marito la trascorre stravaccato sul divano a guardare il Gran Premio in canottiera e infradito ruminando patatine, invece di rovesciargli addosso la tua rabbia cieca e la cesta dei suoi calzini luridi, dovresti dirgli, con il savoir faire che ti contraddistingue: «Amore, mi sono assunta più responsabilità di quante ne riesca a sostenere. Questo mi procura un costante senso di insoddisfazione. Pertanto vorrei parlare con te a tal proposito». Quando invece inveisci: «Ingordo di un bambino, o hai il verme solitario o dici bugie» contro tuo figlio treenne che, dopo aver mangiato ravioli, pollo arrosto, patate fritte e gelato, ti comunica di avere ancora fame, stai assumendo un comportamento dominante e dittatoriale. «Certo che l’appetito non ti manca! Cosa vuoi mangiare?», potrebbe essere un’alternativa più costruttiva e rispettosa.
Lo dice Jesper Juul, danese, terapeuta della famiglia, autore di vari libri, tra cui Il bambino è competente (Feltrinelli, 2001), di passaggio in Italia per presentare La famiglia che vogliamo (Urra) e lanciare Family-lab (www.family-lab.com), progetto familiare europeo al servizio dei genitori.
«Allora? Ci vai tu da lui?», mi chiesero qualche tempo fa dalla redazione. «Io? Io che ho un ménage discutibile, che con i miei figli urlo come un'invasata, che ogni tanto mi trasformo in strega, che vivo nell’entropia, che non so dove vado, che mi sento inadeguata persino dal parrucchiere... Il terapeuta danese mi farà a pezzi. Senza contare che non posso: devo allattare il figlio numero tre». «Qual è il problema? Portati il numero tre. E pure l’uno e il due. Siamo d’accordo allora. Grazie per avere accettato».Ci vado. E mi metto persino il rossetto. E lascio a casa tutti quanti: va bene essere madre ma non la caricatura di se stesse. Ci vado da sola, professionale, in incognito. Tanto lo so che mi smaschererà immediatamente e punterà su di me le sue antenne esperte e giudicanti.
«Molto piacere, sono Jesper», mi dice tendendo una mano che è quattro volte la mia.
È grande, morbido, avvolgente. Sarà la cronica mancanza di sonno ma penso immediatamente che se fossi un bambino vorrei addormentarmi sulla sua pancia.
«Si sieda qui e si rilassi».
Ecco, ha già capito tutto: ha visto nelle mie occhiaie le notti a scacchiera, quelle in cui i miei figli si svegliano a turno, uno dopo l’altro, a ciclo continuo, in un sadico gioco al massacro che esclude risvegli sincroni,altrimenti è troppo facile. «I genitori che si rivolgono a me sono come lei, “costruttivamente insicuri”, consapevoli, imperfetti». Mi sta già trattando da paziente del terapeuta. «Sono convinto che molte famiglie sprechino troppo tempo con i loro figli. Non si deve sacrificare la propria vita per i bambini. Bisogna prendersi cura di se stessi e abbandonare il perfezionismo», dice serafico mentre mi ricordo che non vado al cinema da circa sette anni e vorrei scoppiare a piangere sulla sua spalla.
In famiglia si fanno milioni di errori, dice lui. Ma non è un problema. Anche se non è tutto giusto, anche se non è tutto impeccabile, l’importante è stare bene ed essere tranquilli. Ogni tanto chiude gli occhi, forse per riflettere, forse per guardarsi dentro, forse per non far scappare i pensieri, forse per fuggire un po’. Dà un’idea di forza buona, di energia a riposo. Sembra uno di quegli uomini che quando urli che non ce la fai più, che la tua vita va a rotoli, che non funziona niente, nemmeno la macchinetta per il caffè, ti lancia un’occhiata bonaria e dice: «Ora basta, siediti vicino a me. Dov’è il problema? ».
E tu ti senti un po’ scema perché, effettivamente, dov’è il problema? Forse te lo sei dimenticato. Uno di quegli uomini che aggiustano il lavandino, il motore dell’auto e la Barbie cavallerizza che ha perso un braccio. Uno di quegli uomini placidi e rassicuranti che, con una flemmatica manata sul tavolo, spiaccicano i fantasmi.
Nato nel 1948, cresciuto in una fa miglia tradizionale e autoritaria, dopo avere sperimentato, negli anni 70, con insoddisfazione, un modello permissivo e democratico, Juul ha elaborato una “terza via”, in un momento storico di grande insicurezza, in cui non esiste più alcun consenso sociale su cosa sia giusto o sbagliato. «Non esistono metodi che garantisconoil successo. Per affrontare i problemi individuali c’è bisogno di valori», dichiara, elencandone quattro: pari dignità, integrità, autenticità e responsabilità.
Per rispetto della pari dignità pertanto tua figlia dodicenne e la sua tamarra amica Floriana devono essere viste, ascoltate e prese sul serio anche quando si vogliono far bucare il sopracciglio o farsi tatuare la Winx Flora sul basso ventre. Per restare integri i genitori devono dire dei no, che potrebbero anche scontrarsi con i no dei loro figli in età prescolare che hanno lo stesso inalienabile diritto alla salvaguardia della propria integrità, con conseguenti dibattiti e contrattazioni infiniti che minano la salute mentale di ogni famiglia integra. L’autenticità è l’antidoto al perfezionismo e la responsabilità vieta la fuga vigliacca dai conflitti. La famiglia che vuole Juul è un luogo di mediazione, di negoziati, di rispetto reciproco, di incoraggiamento dell’individualità. Un luogo senza recinzioni, di soggetti imperfetti e volenterosi, di errori, di incontri e di scontri. Ma tutto questo non disorienta? Non dà le vertigini? La vulnerabilità di una mamma o di un papà non spaventa un bambino? E i no che aiutano a crescere dove sono finiti? «I limiti sono stati usati come mezzi di controllo ma i bambini non hanno alcun bisogno di essere controllati. I bambini imparano come gli scienziati: formulano una teoria e la sperimentano. I limiti li fanno sentire stupidi o in torto per avere provato cose nuove. Le regole sono utili solo a facilitare la vita», afferma, preferendo al sostantivo “educazione” l’espressione “guida empatica”.
«Ma almeno i genitori devono essere in accordo tra loro, o no?». «Perché mai? - risponde picconando
così un altro dei miei capisaldi – Solo in una famiglia autoritaria i genitori devono difendere la leadership, negli altri casi non c’è alcun bisogno di essere d’accordo. I bambini non sono turbati dalle nostre differenze ma da nostri litigi sulle differenze». «Sono convinto che se Dio avesse pensato che padre e madre dovessero essere uguali, ci sarebbe un solo genitore per ogni bambino e non due». Lui sorride, si tocca il naso, si pulisce gli occhiali. Io abbasso la guardia. «E come la mettiamo con il senso di colpa, il senso di inadeguatezza, la solitudine delle mamme?», gli domando senza guardarlo negli occhi. «La Chiesa cattolica ha fatto dei bei danni quaggiù da voi... Ha imposto alle donne un’immagine di madre sorridente, felice, appagata, remissiva, accondiscendente. La Chiesa ha appena dimostrato di non potere dare
il buon esempio. Mi sembra arrivata l’ora di affrancarsi, no?».
Secondo Juul parlare di noi, di come vorremmo essere e non siamo, del mondo che vorremmo e non abbiamo, può essere un buon inizio. È certamente più semplice dirlo che farlo, è certamente più semplice per un maschio, per di più scandinavo. Ma ci si può provare. Vorrei chiedergli cosa pensa di una madre che diventa strega per poi accartocciarsi su se stessa in preda ai rimorsi, di una madre in bilico tra lavoro e famiglia, comunque frustrata, comunque fuori posto, di una madre che si annoia sia ai giardinetti sia alle conference call, di una donna il cui desiderio più ardente e sfrenato è una notte di sonno ininterrotto.
Poi mi ricordo che lui scrive di avere una scarsa autostima, di chiedersi spesso «chi sono veramente?», di avere ricevuto da piccolo tanti «no, perché no!». E penso improvvisamente alla sua mamma. Cosa dice la mamma di un figlio che ha smantellato pezzo dopo pezzo l’educazione ricevuta e si è inventato una terza via tanto lontana lei? È contenta? È orgogliosa? Pensa di avere sbagliato tutto? Cosa pensa la mamma di Jesper Juul? Perché io, se fossi al posto suo, non so come mi sentirei. «Mia madre è fiera di me, non di quello che scrivo», dice. E ride. «A volte mi chiede perché sono tanto insoddisfatto dell'educazione che ho ricevuto». «E cosa le risponde?». «La rassicuro».D La Repubblica n. 694 pag.97
http://www.jesperjuul.com/il_bambino__competente.asp
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