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1 giu 2010

Risvegli


Hospital by sheisviolence
www.deviantart.com

Primo risveglio


Ero immersa in un buio ed un silenzio profondi, quando un bagliore folgorante penetrò la mia oscurità e d’istinto strinsi gli occhi o pensai di farlo. Subito dopo mi raggiunse l’eco di voci lontane che parlottavano tra di loro e sembrava dicessero “Si sta svegliando...”. Sembrava parlassero di me, ma non ne capivo il motivo. Non riconoscevo il timbro di quelle voci, voci di adulti miste a voci di ragazzi o di bambini. Mi domandavano se fossero persone che mi conoscevano e volevano bene, che erano preoccupate per me. Era tutto come distante, lontano da me, come se non mi appartenesse nè quella luce, nè quelle voci..
Io avrei voluto aprire gli occhi e guardare ciò che mi circondava, ma due cose me lo impedivano: la pesantezza delle mie palpebre, paragonabili a due saracinesche d’acciaio, e l’incosistenza delle mie mani. A pensarci bene non erano solo le mie mani o le mie palpebre. Tutto il mio corpo mi era estraneo. Sentivo solo il mio pensiero vagare in un posto che non avrei saputo definire, sbattere su quelle pareti impercettibili e rimbalzare da un’altra parte confuso. In più, c’era qualcosa di indefinibile in quel vuoto, che mi trascinava nella direzione opposta alle luci e ai suoni, quasi fosse geloso o impaurito che io potessi all’improvviso scappar via e non appartenergli più.

D’un tratto una domanda attraversò la mia mente: sono morta?
Così, lentamente cercai di percepire qualcosa d’altro di me che non fosse l’anima pensante.
Stavo respirando? Potevo parlare? Nulla.
Non sentivo il mio petto nè battere, nè fremere del suo respiro.
Non sentivo neanche la saliva in bocca, non sapevo se potevo deglutire, mangiare o parlare.
Gli arti non rispondevano.
Nessuna parte del corpo rispondeva, ma allora, io dove ero e soprattutto come ero arrivata lì?

Ricordavo che in alcuni libri che parlano della morte si raffigura questo passaggio con l’anima che lentamente si distacca dal suo corpo, gli fluttua sopra e osserva dall’alto la gente che gli si affanna attorno per rianimarlo o piangerlo. Molti di quei testi parlavano di una luce alla fine di un corridoio buio, ma io non sentivo nè vedevo nulla di tutto questo. Dovevo dedurre quindi che non ero morta?

Quando la luce nel buio perse la sua consistenza e le voci si allontanarono, decisi che forse non era nè il tempo nè il luogo per trovare una risposta alle mie domande e così, credo, ripiombai nel buio di un posto dal quale qualcuno, per qualche motivo, aveva cercato di scuotermi.

Secondo Risveglio

Mi sento in un lago nero, dove tutto echeggia nel nulla. L’atmosfera ovattata intorno ha qualcosa di irreale. Sto sognando... mi dico, ma non so se mi sto creando un’illusione di realtà per qualcosa che di reale ha ben poco. Sento le orecchie tappate come quando andavo sott’acqua. Che bel ricordo... ma ricordo di che? E di quale tempo o vita parlo? Il mio viso piano piano attraversa la superficie dell’acqua, scivola all’interno del liquido che sopra di me si ricompone intatto, come se mai avessi osato fenderlo con il mio corpo. Strano ricordare queste sensazioni, ora che non provo nulla.

Strano il ricordo della pelle che presto intorpidisce al freddo dell’acqua, anche in piena estate, e raggrinzisce a buccia d’arancia intorno al corpo che nuota in quell’atmosfera ovattata, con i suoni che echeggiano indistinti e le luci che si diffondono incerte, spandendosi senza una forma definita. Forse lo ricordo perchè è quello che sto provando ora. Il fluttuare libero di un pensiero, in qualche luogo, in qualche tempo.

All’improvviso una musica mi raggiunge. Un battito che sembra di un cuore umano, inizialmente. Forse è questo che percepiscono i bambini quando sono nel ventre della madre? Dovrei provare rabbia di fronte a questo mistero che non capisco, ma la curiosità mi solletica e sono pronta ad aspettare ciò che verrà.

La musica aumenta, ecco... comincio a distinguerne le melodie. Sembrano quasi più musiche insieme... le note sono familiari, ma non associo nulla di significativo. E’ solo un’essenza fugace delle note di un tempo.Vorrei canticchiarle ma non so come, perchè la mia bocca non mi risponde e nemmeno le mie mani immobili possono accompagnarne il ritmo tamburellando sulla superficie dove immagino siano appoggiate.

Un’intuizione mi sorprende. Non sento più le mie palpebre come saracinesche. Le sento più leggere... in un altro risveglio non le percepivo. Invece adesso sento che se forzassi un po’ potrebbero cedere. Così ci provo, impegno tutto il pensiero – ed io mi sento solo pensiero in questo momento – per forzare quella pelle sopra i miei occhi e scoprire cosa c’è al di là. Sento le forze che si radunano lì dove sono gli occhi. Non so se concentrarmi su un occhio soltanto o se concentrarmi su quel punto al di sopra del naso, tra le sopracciglia, per spingere via entrambe le palpebre. Scelgo di fare così, sento le sopracciglia aggrottarsi: è il primo pezzo del mio corpo che riesco a sentire come mio e a comandare. Il cervello riesce a riattivare qualcuno dei nervi e a condurre lentamente uno stimolo verso la periferia. Sento bruciare forse nel punto esatto della corteccia cerebrale dove sta nascendo lo stimolo, sento il gocciolio di quello stimolo attraverso i nervi, sento la vibrazione che attraversa la testa e giunge lì, perfetta, al crocevia dove poi si dirama su quelle coperte di pelle che mi oscurano gli occhi.

Evviva! Sono riuscita a sollevarle di un millimetro, forse, ma basta così: per oggi ho il mio successo da festeggiare. Sono curiosamente attaccata a quel millimetro di luce che vedo al di là della mia anima e cerco di spingere contro quella fessura per uscire dal vuoto dove mi sento.

Lo sforzo è stato più pesante del previsto. Non riesco più a tenere aperte quelle piccole porticine e mi lascio andare, accasciandomi nel vuoto che mi raccoglie e lì mi accuccio come un neonato sulla pancia di sua madre.

Terzo Risveglio

Stavolta ce l’ho fatta subito. E’ stato automatico. Appena cosciente ho aperto gli occhi. Come è normale la mattina aprirli dopo una lunga dormita, quando proprio non ce la fai più a stare a letto e devi per forza alzarti. E quindi come prima cosa apri gli occhi e ti ritrovi al buio.

Solo che quando apro gli occhi non riconosco nulla dell’ambiente dove sono. Lo sguardo è un po’ annebbiato e con la penombra della stanza dove mi trovo non riesco a inquadrare nulla. Vedo tanto verde in giro, ma non mi sembra che la mia camera da letto sia verde. Non ricordo il verde dei miei risvegli normali. Un verde chiaro, forse un verde acqua e il soffitto bianco, un classico. Sforzo gli occhi, gli stringo come quando facevo a casa, quando mi svegliavo di notte e non volevo inforcare gli occhiali per vedere l’ora e da brava miope stringevo al massimo le palpebre fino a lasciare un filo di spazio attraverso il quale i numeri si mettevano a fuoco. Riesco a vedere una vetrata alla mia sinistra, una luce bianca da neon in alto. Qualcosa mi blocca in parte la vista, qualcosa di plastica che sta al centro tra i miei occhi, anche se lo percepisco appena sul mio corpo. Deve essere qualcosa che ho su per respirare. Faccio due più due e mi convinco di essere in ospedale. Ho avuto un incidente, forse. Oppure sono stata male, molto male.

Non sento altri respiri che il mio. Un respiro pesante, roco. Nessuno in vista e nessuno che parla almeno nel piccolo raggio che inizio a controllare.

Il tatto non mi aiuta. Non sento ancora il mio corpo al di sotto di quel respiratore. La bocca è immobile, gli arti sembra che non ci siano. Cosa sono? Ho una testa pensante, due occhi vedenti ed un naso che non respira nemmeno da solo.

Ma perchè mi fanno respirare se non sono altro che puro spirito? Chi mi tiene qui, o meglio, chi mi trattiene qui? Forse da brava cristiana praticante dovrei pregare e ringraziare il mio Dio di essere ancora viva (ma lo sono davvero?), di poter aprire gli occhi e guardare il mondo (una camera d’ospedale è un mondo? Il colore verde o il colore bianco sono tutti i colori)? Dovrei dire “Grazie Signore, perchè comunque io posso essere qui”. Ma mi domando che senso abbia, stare qui, ringraziare un Dio che non mi vuole, perchè altrimenti mi cullerebbe tra le sue braccia.

Avrò il tempo di capire... qualcosa mi dice che potrei stare qui a lungo, senza percepire altro che questo verde, questo bianco, questo vetro trasparente e questa plastica che mi fa respirare. Ma dov’è il mondo? Perchè nessuno è qui? Se fossi in un film mi sarei svegliata e avrei trovato qui la mia famiglia ad assistermi e invece dove sono?

Monta rabbia dentro... mi sento rabbiosamente impotente e costretta in questo corpo che non sento. Voglio uscire, come caspita si fa? Fatemelo capire... Aspetta... abbi pazienza... prova a dormire...

Sì, provo a chiudere gli occhi ancora.
Quarto Risveglio
Mio figlio. E’ lui che vedo appena apro gli occhi per la quarta volta da quando sono in questo stato indefinibile di vuoto, sospeso tra la vita, quella vera, e l’anticamera della morte. Mio figlio, che per uno strano gioco del destino mi guarda con lo stesso sguardo con cui lo guardavo io quando era piccolo, senza comprendere cosa ci sia al di là degli occhi che vede.

Ricordo quando sei nato. Ricordo come i nostri occhi si incrociavano ed io mi perdevo le ore a guardarli, a cercare di capire cosa ci fosse in quello sguardo un po’ assente i primi mesi, se vedevi qualcosa, se percepivi il mondo intorno e se vedevi me e come. Immagino ora tu ti stia chiedendo le stesse cose, vedendo uno sguardo assente, un’ombra che vela i miei occhi... la vedi anche tu quella nebbia? Come ti senti di fronte a questo corpo che non reagisce, a questi occhi che sono abbastanza fissi e vuoti, tu che non sai che dietro io sto continuando a pensare?

Non riesco a vedere bene il tuo viso. Sto facendo progressi, sai? Dalla prima volta che ero puro spirito, ora sono Spirito-Che-Vede. Puoi chiamarmi così, se vuoi. Giochiamo agli indiani, come quando eri piccolo e mi legavi all’albero e mi tenevi prigioniera fino a quando non ti camuffavi da cow-boy e venivi a salvarmi. Mi chiamavi la piccola Squaw. Ora la tua piccola grande Squaw non puoi salvarla vestendoti da indiano. Forse neanche vestendoti da medico.

Non so quanto tempo sia passato dalla prima volta che mi sono svegliata. Non saprei dirlo. Qui nel vuoto il tempo non esiste. Ogni volta che torno allo stato vigile sembra essere passato un attimo da quando mi ero assentata. Cosa faccio nel frattempo non lo so. Dove vado non riesco ad immaginarlo. E’ come addormentarsi all’improvviso e svegliarsi subito dopo, ma senza sognare. Questo alternarsi di veglia e incoscienza è senza tempo per me. Non ho nessun riferimento. Il tempo è solo umano e sappiamo tutti come corre quando ci divertiamo e come si ferma quasi quando la noia o l’attesa circondano il nostro cuore. Qui esiste solo il nostro pensiero, qualche ricordo che affiora, ma nemmeno tutti. Non saprei dirti cosa sia successo appena prima di ritrovarmi qui.

Vedo che mi sei accanto, in piedi e ogni tanto ti avvicini. Sono fermi i miei occhi? Che strano, io li percepisco in movimento, vispi giramondo intorno a quel poco che vedono. Ma tu non credo percepisca nulla da lì fuori. Ogni tanto guardi sopra di me, cosa? Forse un monitor? Cosa c’è di così interessante?

Nasce in me un desiderio forte, quello di chiamarti, di parlarti, di dirti “Guardami, sono qui tesoro”. Provo a spingere tutto il mio pensiero verso la mia bocca, immaginando che possa compiere lo stesso miracolo che compì con le palpebre, ma mi ritiro stanca dopo aver fallito. Che orrore il pensiero di rimanere chiusa qui senza poter comunicare con te! Mi sembra di battere contro una porta chiusa di acciaio oltre la quale sento che c’è qualcuno che può salvarmi, ma mi si rompono le mani prima di riuscire a fare percepire un misero battito a quel qualcuno là fuori. Sono in una bara che qualcuno sta per chiudere e vedo il coperchio pronto a coprirmi il volto e nessuno può ascoltare il mio grido.

Quinto Risveglio

Ora sei seduto affianco a me e piangi. Io non posso muovere nemmeno un filo dei miei capelli per farti sentire che ci sono. Non ho mezzi per comunicare con te. Attraverso quella piccola apertura degli occhi che forse neanche vedi, io vedo te, ti vedo fisicamente vicino, ma di fatto siamo distanti un universo intero.

Sembra tu non riesca a fermarti. La tua testa deve essere appoggiata sul mio corpo più in basso, ma non so dove perchè non lo sento più. Mi sembra di vederti mentre mi accarezzi il viso, sento una specie di solletico mentre lo fai ma null’altro. Cerco, mi sforzo di spalancare le mie palpebre per farti vedere che ci sono, ma davvero non ci riesco, non so dove recuperare le mie forze, visto che il pensiero non basta più.

Poi ti alzi e te ne vai. Capisco quanto debba essere frustrante per te starmi accanto e non poter fare nulla per me. E’ frustrante almeno quanto lo è per me navigare in questo cervello senza poter reagire come un tempo, sorridendo per la felicità e piangendo per il dolore. Quando non hai un corpo non sai nemmeno come mostrare quello che provi dentro il tuo corpo. Non hai le lacrime, non hai un grido di paura o di dolore, non hai carezze. Nessuno mi ha insegnato come fare a spingere oltre le mie palpebre il mio essere, a parlare senza la bocca e a carezzarti senza le mani. Chi mi ha condannato a questo, scientemente mi ha privato di tutto ciò che un umano può comprendere.

Ecco sei tornato. Alterno momenti di veglia a brevi o lunghi momenti di assenza e non so se sei andato ad asciugarti le lacrime e soffiare il naso o se è passato un anno da allora. Sarebbe bello poter distinguere i tuoi vestiti, la loro forma e colore o i tuoi capelli, la loro lunghezza e brillantezza e da lì poter tornare ad incatenarmi al tempo, al vostro tempo.

Non sei solo. C’è qualcuno affianco a te. E’ tuo padre, mio marito. Anche di lui riesco ad immaginare solo il volto, dietro l’immagine sbiadita che i miei occhi rimandano al cervello. La ricompongo con i ricordi che ho, tutti i ricordi, quelli belli che gli hanno illuminato il viso e quelli brutti che glielo hanno solcato con una ruga. Quanto dolore che sto portando nelle vostre vite, ma vorrei almeno dirvi che non c’entro, che io sto soffrendo quanto voi...

Sussurrate tra di voi e non capisco cosa dite. Parlate più forte perchè possa almeno sentirvi, vi prego... Sembra quasi mi abbiate sentito, perchè vi avvicinate e con voi si avvicina un’altra persona. No, non credo di conoscerla, ma è vestita di bianco e se non è un angelo, allora sarà un medico. A volte sono la stessa cosa, a volte no. Sento poche parole confuse perchè nonostante tutto il suono è restato ovattato come la vista è annebbiata.

“Non si riprenderà”, questo l’ho sentito.. no, guardate che vi sbagliate, io ci sono, dietro questi occhi chiusi, dietro questo respiratore, dietro questo viso che guardate e che vi fa piangere. IO SONO QUA, MI SENTITE?

Sesto Risveglio

Deve essere accaduto un miracolo, perchè sento una carezza che sfiora la mia mano. La sento bagnata forse da una lacrima, la sento stretta e sfiorata da un dito che va su e giù dal polso alla estremità di ciascun dito e torna indietro. Così da tempo, non so quanto tempo, ma non riesco più nemmeno a contare le volte che quel dito è andato avanti e indietro.

Il mio pensiero è sceso giù sulla mano e così ha abbandonato gli occhi, che sono chiusi, per farmi assaporare meglio quella sensazione sconosciuta da tempo. Dovrei forse provare a muovere almeno un dito, per far sì che chi mi sta accarezzando possa accorgersi che sono sveglia, presente a lui come al mondo, anche se fingo di riposare, immobile con gli occhi chiusi.

Mi arriva un profumo. Forse sto migliorando se tutte queste nuove sensazioni riescono a colpirmi così improvvisamente. O forse le ho provate anche in altri risvegli, ma ero presa da ciò che vedevo e non me ne sono accorta? Non riesco a capire che profumo sia, più che profumo è un odore, non è una rosa o un fiore che sento. L’ho sentito tante volte in passato ma ora non riesco a dargli un nome, a visualizzarne l’uso e la derivazione. Mi sembra di essere tornata alle semplici sensazioni infantili: vedere, sentire, toccare, odorare. Il gusto mi manca ancora. La bocca proprio non riesco a sentire dove è. Se anche volessi concentrare il mio spirito nel desiderio di parlare non saprei in quale punto fare pervenire le mie forze.

Il profumo mi ha distratto. Voglio riconcentrarmi sulla mia mano e provare a muovere un dito. Sono sicura che è uno dei miei figli laggiù.. e se ha le mie mani tra le sue, se riuscissi a trasmettere un solo fremito, lui lo sentirebbe e saprebbe che ci sono e smetterebbe di piangere, sorriderebbe. Già, si farebbe una bella risata e mi direbbe “Mamma, ci hai preso in giro tutti quanti, ti sei ripresa” e ci faremmo beffe entrambi di quel medico che mi ha già lasciato al mio destino. Mi chiedo se devo davvero provare a sopravvivere a questo stato. Comincio ad essere stanca di trovarmi, all’improvviso, sveglia in un mondo di vivi che mi credono addormentata.

Dovrei farlo, lo so. Dovrei fare uno sforzo per carezzarti quella testa piegata sulla mia mano e restituirti il sorriso che i tuoi anni meritano di avere stampato ogni secondo sul viso. Ma non so se ce la farò. Non ho contato le volte che mi sono svegliata per poi riaddormentarmi senza essere riuscita ad avere un contatto con il mondo che sento fuori di me. Perdonami se non ne ho la forza... forse ha ragione quel medico. A dispetto dei miei risvegli, io non sono più destinata ad uscire dal mio cervello, nè la mia mano riuscirà mai ad essere smossa. Sono stanca adesso, sento che il pensiero torna nel cervello e viene come risucchiato al suo interno per riposare un po’. Gli occhi sono chiusi, la mano... non so più dove sia. Forse la prossima volta ci riuscirò.

Ultimo Risveglio

Questo è un risveglio arrabbiato. Un risveglio arrabbiato di una donna impotente, che si rende conto di essere bloccata in una vita che non ha nulla di reale, a metà strada tra il puro pensiero ed il pensiero mediato da un corpo inerme. Di chi è merito questa follia? Chi l’ha pensata? Venga fuori il pazzo che è il regista di questa messa in scena, venga fuori con il cartello “Sei su scherzi a parte” e facciamola finita.

Davanti a me cosa ho visto – e già dire “ho visto” è una presa in giro per due occhi che si sono aggirati nella nebbia di colori malmostosi e incerti, su volti sfocati ancora di più che da diottrie perse durante la giovinezza? Cosa ho percepito se non lacrime, dolore e sofferenza? L’unica sensazione che mi è stata trasmessa dal tatto è stata quella di una lacrima. I soli suoni che ho ascoltato sono stati una sentenza di morte. L’odore che ha invaso le mie narici è stato, ora lo realizzo, quello di un disinfettante.

Questa è la vita che io dovrei continuare a fare ancora per quanto? Chi mi risponde? Dall’al di là o dall’al di qua c’è qualcuno che ha il coraggio di dirmelo? Immaginavo.. come al solito il vuoto assoluto, solo il mio pensiero. Mi sembra di essere la particella di sodio della pubblicità di un’acqua che si aggira da sola nella bottiglia e urla “C’è nessunooooo”. Adesso sono io che grido: IO CI SONO, ma nessuno mi ascolta, nè dall’impero dello spirito che dovrebbe essere onnipotente, onnipresente e onniveggente, nè dall’impero dei sensi, dove io non esisto più e sono solo una linea che fa beep-beep su un monito verde che mi controlla il respiro ed il battito del cuore.

Quando esistevo forse in alcuni momenti mi sentivo così sola, senza esserlo fisicamente. E’ vero, a volte la solitudine, questa solitudine dello spirito, questo sentirsi quasi-morti in un mondo di viventi che ti passano accanto e ti sfiorano, questa solitudine ti trovi a viverla anche nel mondo reale, ma è questione di un attimo, giusto il tempo di percepirla e ti illudi che non sia così. Qui la solitudine è la certezza, la certezza dell’essere in procinto di morire, senza nessuno che ti possa offrire un abbraccio, perchè per loro sei già in un mondo dove l’abbraccio non conta più nulla.

Sono già un ricordo per tutti quelli lì fuori. Paradossalmente sono un peso per loro. Che vita staranno facendo lì fuori? Da quanto tempo? Alzarsi la mattina pensando “stanotte l’ha superata...”, andare a lavorare con il cellulare bloccato in tasca “potrebbero chiamare dall’ospedale”, sussultare quando il cellulare squilla, trascinarsi dopo il lavoro in ospedale per passare un’ora? due ore? qui seduto a piangere, a pensare o a non pensare? Perchè se io non sto vivendo più, anche loro devono smettere di vivere?

Chi decide cosa è giusto e cosa no? Quale morale? La morale di chi è vivo ed è distante da chi non lo è più o sta vivendo in un barattolo d’ovatta senza sentire più nulla? Io voglio scegliere, anche se non sarà una scelta cristiana. Ma è un Dio cristiano quello che ti costringe a questa morte in vita? E’ degno di chiamarsi Dio? Non lo so. Lo scoprirò tra poco, forse.

Spengo la luce, dov’è l’interruttore?

Eccolo qui. Arrivederci a presto... mi piace pensare che sarà così!

***

Mia madre è morta. Era entrata in coma per una sciocca caduta sui pattini. Ha sbattuto contro una cancellata di ferro in un pomeriggio qualunque : trauma cranico. E’ rimasta in coma per dieci anni, con solo sei risvegli provati dai medici a fronte di variazioni sull’elettroencefalogramma. Il settimo le è stato fatale: i medici sostengono che abbia avuto un movimento involontario della mano sinistra, che ha causato il distacco del respiratore.

Non so se essere felice per lei o no. In questi lunghi anni nei quali mi sono accostato a lei ogni giorno, spesso, la maggior parte del tempo lei non c’era. Ma in altri momenti, pochi, io sentivo qualcosa di strano standole accanto, come se lei fosse presente e percepisse questo mondo intorno a lei e avesse voglia di comunicare, ma non sapesse come farlo. A volte mi sembrava di vedere i suoi occhi sotto le palpebre che si muovevano alla scoperta di qualcosa: i medici mi hanno sempre detto che quando si sogna è normale che gli occhi si muovano e quindi poteva essere una condizione non straordinaria nel suo stato. Io non ho mai creduto loro.

Dieci lunghi anni per morire. Non so... ho come la sensazione che in qualche modo non sia stato un caso l’incidente che è capitato. Non chiedetemi perchè: lo so è basta, perchè lei, lei era mia madre.

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