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31 ago 2010

Mille volte amore - Enigma

Ho girato l’angolo e tu eri lì, dove non ti aspettavo. Elegante, in un completo grigio scuro, la cravatta annodata stretta nonostante il caldo torrido, mi hai chiesto se potevo aiutarti a cercare una persona a Milano. “Questo da dove arriva?” ho pensato guardandoti con un po’ di stupore. Nonostante la tua eleganza ed il tuo savoir faire ero incredula di fronte a tanta ingenuità. Non eri certo un ragazzino che poteva illudersi di trovare facilmente qualcuno in una grande città, in emulazione dell’ultimo film americano dove lui e lei si incontrano per caso in mezzo a milioni di persone e si chiedono “anche tu qui?”. Quarant’anni li hai tutti, un po’ di neve tra i capelli, l’eleganza ed il portamento di chi è cresciuto in un ambiente “protetto” e non ha dovuto poi sgomitare troppo per arrivare a costruirsi la propria vita.


Eppure eri davanti a me, con una mano tremante che mi offriva un lacero foglio di carta, tirato fuori dal tuo portafoglio nuovo di zecca e pieno di soldi. E su quel foglio c’erano stampate undici stupide lettere ed un accento. Avevi un nome ed un cognome e cercavi una donna. Sembrava disperatamente.

Non riuscivo a crederci. Solo un pazzo poteva fare quello che tu stavi facendo. Eppure tu lo stavi facendo con una tale delicatezza e cortesia che sarebbe stato impossibile dirti di no. Così seguii il tuo invito a leggere lungo i caratteri scuri d’inchiostro e sillabai quel nome lettera per lettera:

A N N   O ' P I T I O U M

- Ann O’Pitioum... no, mi spiace, non la conosco. Non saprei come aiutarla...
- La prego – mi supplicasti – devo trovare questa donna. Assolutamente.
- Guardi, davvero non saprei da dove cominciare...
- Sono disposto a ricompensarla, se mi aiuta. Non sono di Milano e non conosco nulla di questa città.
- Senta davvero... non mi interessano i suoi soldi. Io devo tornare a casa...
- Beh, potrei venire con lei...
- Cosa? – la mia bocca sputò quella parola senza volerlo in un modo quasi offensivo che lo fece indietreggiare, ma davvero la mente stentava a credere a tanta ingenuità – Mi scusi, ma davvero non credo sia opportuno...
- La prego. Solo per dare un’occhiata a Internet – disse, mentre una lacrima gli scendeva sulla guancia e lì il mio cuore non poté fare a meno di fermarsi per un attimo.
- Eh va bene. Venga, ho parcheggiato il mio motorino dietro l’angolo. Però nel giro di un paio d’ore se ne va per la sua strada, va bene?
- Grazie...

Girai l’angolo e presi i due caschi, uno per me ed uno per lui. Montai sulla moto, gli feci cenno di salire dietro e rimasi lì a guardarlo mentre con il casco in testa rimaneva fermo sul marciapiede. Non capivo perchè rimanesse imbambolato senza muoversi e sinceramente quell’atteggiamento un po’ strano iniziava un po’ a stufarmi.

- Senta, o sale su o le lascio l’indirizzo e mi raggiunge a piedi...
- Posso guidare io?
- Lei? E va bene... – sospirai spingendomi verso il sedile posteriore e sbuffando un po’ per fargli capire che tutto sommato forse stava esagerando.
- Si tenga e mi dica dove devo andare!
- Non vorrà mica superare i limiti di velocità? Abito in città!
- Tranquilla, dove vado?
- Diritto ed al secondo semaforo giri a destra...

E’ strano come a volte certe sensazioni ti scoppino all’improvviso e inizino ad occupare tutto il tuo spazio vitale. Te ne rendi conto troppo tardi, quando oramai hai i piedi nell’acqua e vedi il fiume intorno che è straripato e ti chiedi come fai ad andare via.

Fu così, nello stesso istante in cui lui mi prese una mano per volta, mentre guidava e me la adagiava sul suo petto, mentre dal casco giungevano le parole “Si tenga”, che intuii che c’era qualcosa di diverso ora tra me e lui, qualcosa che non poteva essere ancora definito, ma che io, forse solo io, riuscivo a percepire. Sentivo il mio cuore sul suo cuore, battito dopo battito e la cosa che più mi stupiva era che non me ne sentivo infastidita, ma ne traevo piacere. Non mi ponevo ancora la domanda se mi era lecito provare quello che stavo provando, perchè era troppo bello il perdersi in quella sensazione di pancia che qualcosa stesee per succedere. Ero attanagliata dentro da una morsa inspiegabile, ma non me ne importava nulla. Succedesse quello che doveva succedere: per una volta nella vita non volevo pianificare nulla.

Arrivati a casa parcheggiammo la moto in garage, salimmo le scale dagli scatinati al portone e prendemmo l’ascensore per il quarto piano. L’appartamento dove vivevo mostrava chiaramente che ero sposata ed avevo dei figli, ma questo non sembrava turbare minimamente l’uomo del quale ancora non conoscevo il nome, che mi seguiva deciso ma educatamente indietro rispetto ai miei passi, all’interno della casa.

- Vuole darsi una rinfrescata? Mi sembra di capire che è appena arrivato a Milano... magari la farà stare un po’ meglio.
- Beh, grazie, sì, accetto volentieri se non è di troppo disturbo a lei e a suo marito...
- Mio marito?
- Sì... è sposata, vedo. E ha anche dei figli.
- Sì, certo... mio marito... non è a Milano. Ad agosto è praticamente impossibile trovare una baby sitter, così siamo costretti a fare una parte di ferie separati e quindi adesso lui è al mare con le bambine.
- Oh, capisco adesso perchè diceva che sarebbe stato sconveniente... Mi spiace. Non ci avevo pensato. Davvero pensavo solo di poter fare qualche ricerca su Internet. Poi lascio il disturbo. E’ che pensavo di avere bisogno di qualcuno di Milano per avere qualche dritta... Mio Dio, sono stato davvero inopportuno, signora...
- Già, non ci siamo ancora presentati... Mi chiamo Lara. Lara Carini.
- Sebastiano Cerruti. Lara, le devo davvero chiedere scusa per questa invadenza...
- Venga, le dò un asciugamano pulito e le preparo un caffè mentre lei si rinfresca. Poi andiamo su in mansarda dove ho il computer con internet e cerchiamo la sua Ann.
- Non è la mia Ann
- Oh bella, e perchè la cerca, allora?
- Sto cercando un’altra donna. La donna che ha lasciato questo biglietto sul tavolo stamattina, in cucina, accanto ad una stampa degli orari del treno per Milano.
- Da dove viene?
- Non molto lontano... dalla provincia di Torino.
- Ecco perchè è così regale... – mi lasciai sfuggire...
- Cosa?
- No, nulla nulla... è solo che sono rimasta davvero colpita dalla sua eleganza. E sa... insomma Torino, i reali... una stupidata. Vada pure, io vado a preparare il caffè...

Un po’ imbarazzata lo lasciai davanti alla porta del bagno e mi diressi in cucina. Come al solito accesi il mio I-Pod collegato alle casse e un po’ di musica iniziò a diffondersi nell’aria. Madonna – Don’t cry for me Argentina, una delle mie preferite! Iniziai a canticchiare riempendo la macchinetta di caffè e poi aprii la finestra e mi appoggiai alla porta del balcone, reclinando un po’ la testa e perdendomi a pensare mentre guardavo il giardino fiorito sotto casa.

L’odore di caffè mi scosse appena dopo che una mano mi ebbe sfiorato il fianco. Mi girai imbarazzata e me lo trovai di fronte, con il suo viso regolare, il suo sorriso bianchissimo ed un profumo che emanava dalla camicia che si apriva sul suo petto, liberata dalle catene della cravatta troppo formale. Spinsi il mio corpo avanti sicura che lui avrebbe indietreggiato ed invece lui restò fermo, guardando al di là di me, verso il laghetto che si intravvedeva tra le foglie degli alberi del piccolo parco sottostante.

- Bello qui...
- Eh... – bofonchiai terribilmente imbarazzata – prego, il caffè è pronto!
- Ottimo profumo! Adoro il caffè fatto con la moka!
- Beh, sì non è buono come dalle mie parti... sa, l’acqua...
- Di dov’è lei?
- Sorrento.
- Sorrento? Allora vediamo... Regno delle due Sicilie?
- Cosa fa... vuole prendersi gioco di me?
- Beh, lei mi ha elogiato pensando potessi essere un nobile torinese ed io mi permetto di ricambiare l’offesa!
- Su, prenda il caffè che poi andiamo a cercare la sua Ann... – dissi cercando di togliermi dall’imbarazzo.

Imperava con la sua altezza nella mia cucina, ma la sua presenza rimaneva discreta, non era ingombrante come avevo immaginato. Bevve il caffè, poggiò la tazzina sul piattino al bordo del tavolo e disse:

- Bene... facciamo un giro di valzer su Google?

Gli sorrisi, ma dentro di me avevo paura. Avevo paura più di me che di lui. Sentivo che non mi avrebbe fatto nulla che io non avessi voluto, eppure era questo il problema. Io cosa volevo? Perchè avevo accettato di aiutarlo? Uno sconosciuto. Una persona che in altre occasioni non avrei nemmeno osato avvicinare. Ed ora era lì. A casa mia. Ed io avevo paura. Gli passai accanto ben attenta a non sfiorarlo, visto che lo spazio tra il tavolo della cucina e la parete attrezzata era ingombrato dalla sua presenza e gli dissi di seguirmi. Salimmo le scale che andavano in mansarda e mi scoprii a muovermi un po’ seducente mentre le gambe si attardavano su ogni singolo gradino. Aprii la porta dello studio e mi diressi dritta verso lo stereo, aprendo un mobiletto e tirando fuori gli Studi di Chopin Opera 10 e 25 di Vardan Mamikonian. “Vuoi fargli buona impressione?” mi chiesi sorridendo. Poi mentre le note del pianoforte iniziavano ad echeggiare nella mansarda, andai alla scrivania ed accesi il PC.

- Non ha un po’ di champagne?
- Champagne? – lo guardai sorpreso
- Sì... con questa bella musica... così festeggiamo se troviamo qualcosa!
- Non so... io non bevo quasi mai. Lo champagne mi da’ alla testa...
- Allora no... deve essere sobria per potermi aiutare....
- Ecco... le inserisco la password e poi è tutto suo
- Ma lei non andrà via...
- No? – mi stava chiedendo di restare lì. Era lì per cercare la sua donna che la mattina prima gli aveva lasciato solo quel nome e se n’era andata dalla sua vita e lui mi chiedeva di stare con lui. Forse semplicemente aveva paura e fu credo per questo che senza dire altro afferrai la sedia di fronte alla scrivania e la portai dietro di essa, affianco a lui e lui mi fece posto e ponendo il suo dito indice sul mio mento e sollevandolo un po’ mi disse:
- Grazie per quello che sta facendo.

Digitò il nome di Ann O’Pitioum sulla schermata principale di Google e gli unici due riferimenti che comparvero erano relativi a “Pentium”, il famoso processore. Sotto le due voci troneggiava la scritta

Risultati per: Ann O’Pitioum
La ricerca di - Ann O’Pitioum - non ha prodotto risultati in nessun documento.
Forse cercavi: Ann O’Pentium

- No, non cerchiamo Ann O’Pentium stupido di un computer – mi arrabbiai mentre lui scoppiò a ridere
- Possiamo provare sulle Pagine Bianche?
- Certo! – e digitai l’URL per poi inserire il nome di quella donna nello spazio appositamente lasciato per le ricerche. Nulla. C’erano un paio di link e mi infilai anche in quelli ma nulla. Internet non conosceva Ann O’Pitioum. Restai un po’ ferma con lo sguardo incollato sulla barra di Explorer quando il logo di Facebook mi fece trasalire. – Facebook, perchè non ci ho pensato?
- Facebook? Cosa è Facebook?
- Come cosa è Facebook? – dissi digitando utenza e password di accesso - Un social network... Non mi dica che non lo conosce... Lei è proprio un adorabile uomo di altri tempi!
- Adorabile?
- Mi scusi... mi è sfuggito... – dissi digitando il nome nella casella di ricerca
- No, lasci stare... è un bel complimento... ma mi spieghi cosa è Facebook?
- E’ questo: un sito dove ciascuno ha una propria pagina, chi vuole, naturalmente e dice quello che fa, che pensa, che gli piace e lo dice a tutto il mondo.
- E mette così in piazza le proprie cose?
- Beh... quello che vuole! Comunque nulla anche qui – commentai delusa
- E lei lo fa?
- Cosa?
- Pubblicare le proprie cose?
- A volte... quelle stupide, non quelle serie! E’ divertente... e poi ho recuperato molte mie amiche di scuola, persino delle elementari e questa estate abbiamo organizzato un incontro tutte insieme, ciascuna con la propria famiglia. E’ stato spettacolare, rivedersi dopo così tanto tempo...
- Ma questo cosa c’entra con il pubblicare i propri pensieri?
- Nulla, però ci si scambia i sentimenti, le sensazioni, le opinioni. Ci sono stati momenti nei quali mi sono sentita quasi aiutata: il condividere con degli amici momenti di tristezza ha contribuito a superarli. Basta a volte una parola, un sorriso...
- Lei è triste, fondamentalmente?
- Cosa glielo fa pensare?
- Si vede. Negli occhi.
- Beh – risposi imbarazzata – triste non direi. Ho la mia famiglia, le mie bambine... certo di cose migliori se ne possono desiderare sempre, ma ...
- Non dicevo questo. Lo vedo: è sposata, ha un marito, delle bambine... quante?
- Due
- Due... un marito, due bambine, una bella casa a Milano, immagino un bel lavoro... che lavoro fa?
- Sono ricercatrice all’università.
- Mm... interessante... Beh, però nonostante tutto lei ha qualcosa in sé che mi trasmette un senso come di... non so spiegarlo, ecco! E’ come se lei non fosse appagata da tutto questo, sì ecco... non triste – è una parola grossa – ma non è appagata.
- E cosa glielo fa pensare? Non me lo ha detto...
- I suoi occhi. Il modo in cui guarda le cose, con ingordigia, come se volesse attingere a tutto ciò che la circonda per succhiarne la linfa vitale. Come se volesse catturare l’anima al mondo intorno a lei per sopravvivere.
- Messo in questo modo quasi le direi di sì...
- Sì? Sì a cosa?
- Sì, che ha ragione... Io sento qualcosa dentro che freme. Una voglia di catturare ogni sensazione del mondo e portarla dentro di me per viverla e senza di essa mi sento spoglia, morta. Ogni tanto mi capita di sentire un vuoto, qui nella pancia... una sensazione che sta per succedere qualcosa... poi a volte non succede nulla e la sensazione di abbandono è tremenda.
- Ne ha mai parlato con nessuno?
- No. Prima che lei mi spiegasse cosa è quello che provo io non sapevo nemmeno cosa fosse.
- Potremmo chiamarlo “Spleen”
- “Spleen”, come quello di Charles Baudelaire?
- Già... i “Fiori del male”!
- Li ha letti?
- Qualcosa... al liceo quando studiavo letteratura... – mi interruppi, perchè nel frattempo lui si era girato verso di me, ruotando la sedia alla quale era seduto ed aveva adagiato le spalle sullo schienale, lasciando che il suo viso sfiorasse il mio ed i suoi occhi mi penetrassero nell’anima. Sentivo qualcosa di tremendamente attraente in lui, che mi spingeva a ricambiare quello sguardo per entrargli nell’anima, ma la paura fu più forte e così mi alzai di scatto tirando indietro la mia sedia e mi alzai per aprire la finestra, mormorando imbarazzata un banalissimo – C’è caldo qui dentro, non trova?

Sebastiano scoppiò a ridere e si alzò, raggiungendomi al centro della stanza e bloccandomi con le mani strette in vita.
- Lo sapevo!
- Lo sapeva? – esclamai cercando di divincolarmi. Lui mi lasciò andare facendomi compiere una piroetta al ritmo del pianoforte di Mamikonian che suonava sospeso nell’aria.
- Sì... non poteva essere così facile.
- Sebastiano, non la capisco... vuole spiegare anche a me?
- Certo. Non è un nome reale.
- Reale?
- Vede... io sono un appassionato enigmista. Mi piacciono i Rebus e gli Anagrammi ed anche a Sabine piacevano.
- Sabine?
- Sì, la mia compagna.
- Che stupido... Non m’ama più...
- Sebastiano, non la capisco...
- Ann O’Pitioum è un anagramma:
   N O N   T I   A M O   P I U '
   Semplice e banale. Come ho fatto a non pensarci prima...
- Mi spiace...
- Non deve spiacersene... in fondo cosa sono io per lei? Nulla... Stamattina ha incontrato questo stupido quarantenne di Torino alla ricerca di una donna a Milano, con in mano solo un misero foglio stracciato con un nome sopra. Lara, lei è stata fin troppo gentile. Devo togliere il disturbo... Non è opportuno io rimanga qui oltre.
- Ma lei è sconvolto... forse non è opportuno che lei vada in giro per Milano. Dove intende andare adesso?
- Immagino in un bar ad ubriacarmi? E’ così che succede giusto? La tua donna ti lascia e tu ti fiondi in un bar ad ubriacarti. Il primo non ti basta, il secondo nemmeno... se ti va bene finisci sul marciapiede insieme a qualche barbone che ti si piazza addosso perchè sai di alcool.
- Ecco, lei non mi sembra il tipo che farebbe questo...
- No? E che tipo sarei? Forse il tipo che si dispera e medita il suicidio su un ponte? C’è un ponte a Milano? Qualcosa dal quale buttarmi?
- Lei sta scherzando?
- Io? Scherzando? Crede davvero? Ho l’aria di uno che scherza? Vent’anni di onorato servizio al fianco di una donna ed un bel giorno ti alzi dopo aver fatto l’amore con lei tutta notte e lei non c’è. E non sai dov’è. Rischi come minimo di impazzire. Sono il matto allora... il giullare di Shakespeare... ricorda? Eh sì, lei ha studiato letteratura... lo ha detto lei... il pazzo è l’unico che vede e dice la verità e può permetterselo solo perchè gli altri dicono di lui che è matto. Dunque: son matto! Matto! Matto! – e come se stesse recitando una parte davanti ad un pubblico, si pose di lato alla stanza, con la mano davanti alla bocca e sussurrò: - Signori, lo fo’ bene il matto? Ci avrà creduto?
- Sebastiano, lei sta dando i numeri. Lo spettacolo è divertente, potrei stare qui ore a guardarlo, ma non capisco se sta bene o male.
- Champagne... ce l’ha una bottiglia Lara? La prego – e si inginocchiò – mi dica di sì...
- Eh.. sì, ce l’ho – risi mentre lui sorrideva con me e mi prendeva la mano come a voler chiedermi di sposarlo
- Bene... vada giù, corra, presto e torni su con due bicchieri... due flûte, mi raccomando! Ed una bella bottiglia di spumante... e porti le scarpette da ballo, questa musica non può essere solo ascoltata... deve essere anche ballata – e mi prese per un’altra piroetta, facendomi finire tra le sue braccia, con un braccio dietro la schiena e la schiena rivolta verso il basso in un casqué, con le sue labbra ed il suo sorriso a due centimetri dal mio. Mi lasciò andare in silenzio guardandomi con gli occhi più intriganti che io avessi mai visto e di nuovo dentro di me la morsa alla pancia che avevo provato sulla moto si fece viva.

Forse era un segnale. Forse dovevo ascoltare la mia pancia ed il mio istinto ed allontanarmi da quell’uomo, ma qualcosa nel suo portamento, nel suo sguardo, nelle sue movenze mi rispingeva verso di lui. Solo un piccolo pensiero mi riportava indietro, come il grillo parlante di Pinocchio che rimane unico e solo ad intimare al burattino la retta via. Corsi giù per le scale. Aprii il frigorifero e tirai fuori la bottiglia di champagne che Sergio aveva preso per il nostro anniversario. Sapevo che era un sacrilegio. Stappare la bottiglia del nostro anniversario con un uomo che non era mio marito, ma io non riuscivo davvero a resistere a quell’uomo e se da un lato la cosa mi spaventava, dall’altra l’idea di lasciarmi andare per una sola volta nella mia vita, con una persona della quale non sapevo assolutamente nulla era la più magica effervescenza che poteva capitarmi. E quell’uomo era l’unico che era riuscito a leggere dentro di me la mia inarrestabile sete... come l’aveva chiamata? La “linfa”, sì l’aveva chiamata proprio la “linfa”. Stavo provando con lui dei brividi che da tempo non provavo e che forse non avevo provato nemmeno con Sergio. Quando mi sfiorava sentivo l’elettricità attraversarmi. Quando mi guardava mi sentivo completamente nuda. Quel finto imbarazzo e quella ostentata gentilezza dietro il quale si celava mi eccitavano e mi spingevano a stringermi a lui per baciarlo e arrendermi completamente a qualunque desiderio lui avesse potuto esprimere.

Dovevo credere alla storia di ... come si chiamava? Sabine? La donna che lo lascia dopo vent’anni? Beh, è proprio una donna stupida se si lascia scappare via questo “bocconcino” –pensavo. E intanto qualcosa mi spinse a fermarmi in camera da letto per cambiarmi. Ero andata in ufficio, avevo su un tailleur sciancrato nero ed un top ma ero sudatissima, in parte per il caldo della giornata, in parte per quei sentimenti così violenti che si stavano scatenando dentro di me. Mi feci una doccia veloce, infilai un vestito nero aderente a tubino, mi spazzolai i capelli e mi ritoccai il trucco. Un po’ di profumo e subito ripresi i bicchieri e la bottiglia di champagne. Sorrisi pensando – Qui c’è “dolo” e mi fermai all’ultimo scalino.

Feci capolino con la testa nella stanza ma lui non c’era. Dove poteva essere? Sbirciai nell’altra stanza in mansarda, la camera da letto degli ospiti, e lo trovai seduto su una poltrona a guardarmi.

- E’ bella, sa, Lara?
- Io? Ma...
- Non sia modesta...
- Lasci perdere... così mi imbarazza – gli risposi avanzando e poggiando sul tavolinetto in noce vicino a lui i due bicchieri e lo champagne.

Lui si alzò e stappò la bottiglia, versando un po’ di oro nei bicchieri. Poi mi prese a sé attirandomi con una mano dietro la schiena e mi offrì con l’altra uno dei due bicchieri. Non feci in tempo a girare il viso per appoggiare le labbra vermiglie al bicchiere lasciandone il segno, che sentii l’umido della sua bocca sul mio collo. Una lancia infilata dalla base del collo lungo la schiena non avrebbe scatenato una sensazione così netta ed elettrizzante. Continuava a baciarmi senza che io potessi muovere una sola cellula del mio corpo. In un attimo aveva cancellato i miei pensieri, le mie remore, le mie paure. Tutto dentro di me si era annullato, sprofondando in quella sensazione di caldo e umido che dalle sue labbra si trasmettevano alla mia pelle.

Avrei dovuto staccarmi dalla sua presa ed andare via, così urlava il Grillo Parlante nella mia testa, accusandomi di aver ceduto ad un poco di buono che con una stupidissima scusa poco credibile si era infilato nella mia vita. Non era possibile, gli rispondevo, in un monologo assurdo che io immaginavo come dialogo tra la parte coscienzosa di me, quella della donna sposata, madre di due bellissime bambine, che in quel momento magari stavano scherzando con il papà sotto l’ombrellone e si impietosivano al pensiero della mamma sola a Milano e la parte più libertina, quella che sotto pelle cresceva indisturbata, che si alimentava degli sguardi lascivi che si depositavano ogni giorno sul suo corpo, che si contorceva la pancia nel desiderio di qualcosa di diversamente eccitante. Quale delle due ero io, Lara? La casta sposina o la pervertita amante? Nessuna delle due. Tra le sue braccia non ero più nè l’una nè l’altra, ma solo pura felicità, pura essenza. Non potevo desiderare altro e per me quella sì era una novità.

Lui aveva iniziato a frugarmi il corpo con il respiro che si faceva più pressante. Avevo cercato di appoggiare il bicchiere sul tavolino, ma avevo calcolato male le distanze e così il cristallo si era infranto sul pavimento. Dopo la lussuria avrei pagato il conto di ripulire i cocci, forse non solo quelli del bicchiere ma anche quelli della mia vita. Eppure non riuscivo a dirgli di no. Lui era completamente padrone di me stessa e della mia anima, unico signore dei miei pensieri. Sembrava intuire quando cercavo di staccarmi da lui e con dolcezza con la mano dietro la schiena mi riavvicinava al suo corpo, che sentivo possente e vivo a contatto con il mio. Se cercavo di sfuggire ai suoi baci lui dolcemente mi fermava il viso con le sue grandi mani e mi baciava, accogliendo le mie labbra tra le sue.

Fu solo un attimo, una sensazione di essere io dentro di lui e lui dentro di me, come se stessimo facendo l’amore e stessimo raggiungendo l’orgasmo nello stesso istante. In realtà lui non aveva osato spogliarmi e di questo, pensavo, lo avrei ringraziato. Se lo avesse fatto, se avesse solo sfiorato la mia pelle dal vivo, nelle pieghe delle gambe, tra i seni, lungo la pancia, io non avrei potuto dirgli di no e mi sarei concessa a lui completamente.

Eppure non lo fece ed io non so perchè.
Eppure era come se l’avesse fatto ed io non so perchè.

Così come si era impossessato di me in un attimo, l’attimo dopo eravamo l’uno affianco all’altro, sul letto, spossati come se avessimo fatto l’amore, ma non era successo apparentemente nulla di irreparabile tra di noi. In realtà, quell’attimo tra di noi per me era stato quanto di più assoluto io avessi mai provato nella mia vita. Quella sensazione di essere una cosa sola, un’anima sola persa nell’universo, che era durata solo un attimo, fu la cosa più irreparabile che potesse succedere tra noi e non scomparve mai. Ancora oggi la mantengo rinchiusa dentro il cuore, con un catenaccio sul quale ho scritto un enigma che solo lui saprebbe risolvere.

Mi chiese scusa, balbettando.
Io lo guardai senza dire nulla. Macchè scusa, volevo dirgli. Resta qui!

Ed invece non dissi proprio nulla. Lo guardai girarsi e scendere uno per uno gli scalini. Ferma, immobile nella stanza da letto, lo sguardo si appoggiò sul bicchiere rotto e l’oro sciolto a terra con le sue bollicine. Pensai volesse indietro il suo foglietto lacero prima di andare via e così corsi nello studiolo e cercai a lungo il foglio. Trovai un foglietto con su scritto: “Se trovi Ann, per favore lasciale detto questo:

N E M O    M E O N I"


Non so cosa avesse voluto dirmi. Non so cosa avesse voluto lasciarmi. Non sono brava come enigmista, non faccio Rebus nè Anagrammi. Ma so cosa lui mi ha lasciato dentro. Un bellissimo ricordo. Ancora oggi nelle serate invernali, quando fa freddo, io adoro salire in mansarda e accendere il camino. Mi siedo su quella poltrona nella camera degli ospiti, con un bicchiere di champagne che fa le bollicine d’oro e lascio che la musica di Mamikonian mi accompagni. Non ho mai detto nulla a mio marito di quello strano pomeriggio d’estate.


Sergio trova un po’ strana questa mia abitudine di rinchiudermi in mansarda, ma lui è abituato oramai alle mie stranezze, ai momenti nei quali io mi assento, chiudo la porta al mondo e viaggio dentro di me, alla ricerca di una piccola pace per la mia eterna inquietitudine.


Non ho più rivisto Sebastiano. A dire il vero non l’ho nemmeno cercato. Non mi interessa sapere se la sua storia su Sabine fosse vera o falsa. Ci ho creduto e questo mi basta. Non cambierebbe sentirmi più stupida perchè mi ha preso in giro, nè avrei più pietà per lui e per me se scoprissi che la storia era vera.


Di fronte a quel sentimento violento che provavo per la sua assenza capivo di non avere alternative e desideravo che in qualche modo lui potesse sapere cosa provavo per la sua assenza, per quella linfa che mancava, per quel profondo e assoluto dolore che il non averlo intorno m'ingenerava. In alcuni momenti avrei voluto interrompere quel vuoto che cresceva man mano che quelle giornate si allontanavano nel tempo. Sentivo il bisogno fisico incondizionato di ritrovarlo e mi importava sempre meno sapere del dolore che avrei provocato nelle persone intorno a me, perchè ció che era rimasto di me senza di lui non era più nulla.


Ogni giorno lo cercavo tra i volti della gente intorno a me, ma non lo trovavo. Ogni giorno mi voltavo all’improvviso mentre guidavo il motorino e sentivo le sue mani ancora sul mio corpo. Ogni giorno lo cercavo tra la folla quando ero in metro e provavo ad immaginare di vederlo scendere di corsa e stringermi tra le braccia, confessandomi di provare anche lui quell'insensata sensazione di vuoto alla pancia che provo da quando è andato via. Ogni giorno vorrei ignorare di essermi sentita completamente vulnerabile di fronte a lui. Ogni giorno cerco di resistere dal librarmi al di là del tempo e dello spazio per restargli un po' accanto e sognare una fine diversa da quella che la vita ha imposto. Ogni giorno cerco di non sognare di stargli accanto mentre lavora, mentre mangia, mentre legge, mentre risolve i suoi rebus e anagrammi, mentre studia, mentre dorme. Ogni giorno cerco di pensare più razionalmente a quello che è successo, ma c'è qualcosa che non demorde in me e non ce la faccio a ignorare ciò che provo, fingendo che lui non ci sia mai stato, fingendo che tra noi non sia successo nulla. Ogni giorno, la sera, rientro nel mio guscio come una lumachina quando le toccano le antenne, per proteggere ció che è stato, tenendolo chiuso nel mio cuore. Ogni giorno cerco di negare che possa esistere un luogo dove possiamo provare a stare insieme. Ogni giorno provo a dimenticarlo e Dio sa se vorrei riuscire a farlo. Ogni giorno.


Eppure non posso farlo, perchè so che quello che ho provato con lui non potrò provarlo mai più. Ripensavo spesso ad una frase che avevo letto una volta sul sito di una scuola di volo: "Una volta che hai conosciuto il volo, camminerai sulla terra con gli occhi rivolti sempre in alto, perché là sei stato, e là agogni a tornare..." Lo diceva Leonardo da Vinci. Non ho mai sentito più vera questa frase come quando percepivo in me il vuoto lasciato da Sebastiano.



Conservo il suo biglietto nel cassetto della scrivania, insieme ai cocci di quel bicchiere. Forse un giorno mi deciderò a trovare la soluzione per quell’anagramma e sono sicura che essa lo riporterà da me, nel tempo e nel luogo che oggi non mi è dato conoscere.
Ma nel frattempo, voi che leggete qui la mia storia, sì, proprio voi che siete seduti in poltrona tranquilli e vi fate beffe di me, che vi chiedete come abbia potuto io un pomeriggio qualunque portarmi in casa un uomo qualunque con una scusa qualunque, voi che mi state giudicando male, piccola e stupida madre di famiglia che non ha ancora imparato che bisogna sognare solo ciò che è realizzabile, che è spesso diverso da ciò che il cuore desidera...


Ebbene voi, se vedete un uomo alto, sperduto, dall'atteggiamento nobile e lo sguardo irriverente, un uomo che vi ricorda il matto di Shakespeare, che tiene le sue bottiglie di champagne in bella mostra con scritte le occasioni nelle quali le ha aperte, un uomo che balla la Polonnaise di Chopin... vi prego, dategli questo: IRA MALATA





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