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21 nov 2010

Verso l'isola che non c'è


Ci sono storie che, nonostante la loro bellezza ed apparentemente senza alcun motivo, rimangono nascoste per un mucchio di tempo o rimangono entro gli angusti confini di un territorio.
Ero in vacanza alle Isole Azzorre, in pieno Oceano Atlantico, quando chiacchierando con la moglie di un vecchio pescatore venni a conoscenza della storia di un mio compaesano, naufragato su un’isola lì vicino qualche anno addietro. Rimasto su quell’isola per lungo tempo, senza speranza alcuna di essere ritrovato,  aveva scritto alcune lettere, le aveva imbottigliate e le aveva lasciate in custodia al mare. Qualche mese prima del mio arrivo, un bambino aveva trovato sulla spiaggia l’ultima di una serie di bottiglie rilasciate dal mare. Furono quindi organizzate varie spedizioni alla ricerca di quest’uomo. Una in particolare approdò su un’isola dove furono ritrovati alcuni appunti di un uomo che poteva essere Gabriele.
Quella vecchia mi raccontò dunque la storia di quell’uomo, romanzata da ciò che si seppe dalle lettere e dai ritrovamenti. A me pare tremendamente bella e per questo oggi ve la voglio raccontare, offrendo le mie parole alla voce dell’uomo che la visse, come ultimo tributo alla sua vita.

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Primo capitolo

Ero un uomo normale, prima. Un uomo che ogni mattina vestiva il suo completo da dirigente, fatto di giacca e pantalone grigio scuro, camicia bianca e cravatta nera, e andava a lavorare. Lavorare era per me partecipare a Comitati, Consigli d'Amministrazione, Convegni, senza che avessi più la percezione di fare qualcosa di costruttivo: quella sensazione si era persa con i ricordi degli anni in cui facevo ricerca all'Università.


Ero un uomo normale, prima. Normale nel mio status di separato, che ha passato un tempo davvero troppo lungo a chiedersi dove terminassero le mie colpe e iniziassero quelle dell'altro, sempre teso a scusare gli altri e addossarmi peccati che non avevo commesso. Tanto, oramai avevo perso tutto quello che avevo di più caro e non me ne importava tanto di avere una colpa o tutte in più.

Fu per caso che il secondo anniversario della mia separazione mi sfiorò il pensiero di dare una svolta alla mia vita. Fu prima come una piccola piuma che ti solletica l'anima e poi un macigno che ti si pianta in testa e ti opprime. Era il mio desiderio di solcare il mare che prese piede dentro di me quasi inaspettato, come quando da ragazzo andavo in cima al molo la mattina presto per vedere i pescherecci che rientravano  dalle loro lunghe nottate di umidità e salsedine.

Non sapevo guidare una barca a vela, ma mi dissi che questo non poteva ostacolare il mio desiderio di sfuggire al mondo. Così cercai alcune agenzie che affittano barche a vela con skipper e mi presi qualche giorno di ferie per visitarle.

Fu solo dopo vari tentativi che riuscii a trovarne una che era disposta ad affittarmi una barca a vela per un viaggio di durata e destinazione improbabile, ma lo skipper era più difficile da trovare: l'agenzia mi disse che difficilmente i suoi skipper avrebbero aderito all'iniziativa, perché tutti avevano lavori alternativi per vivere e potevo sentirmi libero, mentre loro facevano i loro accertamenti, di trovarmene uno per conto mio.

Così me ne andai al porto e mi infilai in un bar. Presi un cappuccino ed iniziai a parlare del mio viaggio cercando di attrarre qualche preda nella mia ragnatela. Nulla, lì per lì e così lasciai il mio cellulare e me ne andai a dormire in albergo.

Passai la mattina dopo sul molo ad osservare le barche che andavano e tornavano, costruendo pian piano nella mente le tappe del mio viaggio. La sera tornai al bar e mi sedetti allo stesso bancone del giorno prima.

Ero seduto da circa un'ora a bere una birra davanti ad una finestra ed a sbirciare i gabbiani sul mare, quando si avvicinò un uomo alto e magro, la faccia un po’ butterata, i capelli arruffati in testa. Indossava un impermeabile lungo con il bavero rialzato ed una camicia bianca. In mano agitava un cappello da marinaio. Sembrava uscito da un classico del fumetto. Il marinaio gentiluomo e navigatore solitario per eccellenza: Corto Maltese. Mi ispirò forse per questo una innata simpatia.

- Si dice che tu stia cercando uno skipper
- Chi lo dice?
- Angelo, quello che sta al bar.
- E chi sarebbe lo skipper?
- Io, piacere, Max.
- Piacere, Gabriele.

Non ricordo quanto tempo passammo in quel bar. In realtà non chiacchierammo molto: dopo i primi convenevoli tesi a capire l'esperienza di quello sconosciuto come skipper, tra di noi si instaurò un silenzio complice, gradito a entrambi. Anche lui non si raccontava volentieri, ma si leggeva negli occhi quanto fosse grande la sua passione per il mare, perchè parlado dei suoi viaggi una luce forte li illuminava da dentro.

Per conto mio gli raccontai il mio progetto e lui non ne rise, ma mi diede appuntamento tutti i giorni seguenti per una settimana, per poter pianificare il viaggio nei minimi dettagli: tragitto, soste, viveri, altre scorte, tutte cose che nella mia ingenuità di marinaio bambino non potevo immaginare.

Passammo una settimana sempre insieme, al bar o all'agenzia per visionare le imbarcazioni e scegliere la nostra. Un po' mi sentivo usurpato nel mio sogno: non ero il solo a voler fuggire dalla realtá. Avevo trovato un degno compagno di viaggio, al quale non dovevo nemmeno imporre il silenzio per contratto, perchè lo aveva scelto già come sua caratteristica di vita.

Scegliemmo la data e la barca senza nemmeno bisogno di litigare. Tra di noi c’era un affiatamento insperato. Il proprietario della barca stava ridipingendola proprio quando andammo a lasciargli la caparra e mi chiese come volevo chiamarla. – Karystos – gli dissi, in onore di mia madre, greca d’origine, nipote di un antiquario di Atene.

Partimmo il 20 giugno di quell’anno. Non avevo rimpianti e qualcosa mi diceva che in fondo anche il mio compagno di viaggio aveva qualcosa di pesante da lasciare ancorato ben saldo sulla terra ferma.

Secondo capitolo

Quella mattina salpammo presto. Erano forse le quattro di mattina. L'aria era fresca e tersa. Il mare era tranquillo, nonostante una leggera brezza ne muovesse le onde.

Trovai quasi subito un nomignolo per Max. Fu per caso, ma il vedermi su quella barca solo con lui mi riportò alla memoria il tempo subito dopo la morte di mio padre, quando avevo nove anni. Non ricordo molto di lui, ma ricordo che nessuno mi disse che era morto. Quel particolare lo scoprii molti anni dopo. Non fui presente di conseguenza al suo funerale, anche se a pensarci bene io non sono mai andato a funerali dei miei parenti.

Così successe che da un giorno all’altro lui per me era svanito. Poteva essere andato via per lavoro, poteva essere fuggito con una donna, poteva essere da qualunque altra parte. Sapevo solo che non era con me e che mi mancava. Non era una sensazione razionale come può esserlo adesso. Era il sentirsi a metà, il sentire che qualcosa intorno semplicemente non c’era, era il voltarsi all’improvviso sentendomi la sua mano sulla spalla per poi scoprire che non era nulla. Era l’udire la sua voce che mi chiamava. Era l’immaginarlo davanti a scuola, fuori dal campo di calcio, in tutte quelle situazioni nelle quali ero abituato alla sua presenza. E l’accorgersi che non c’era, quella sensazione del sentirsi abbandonati, era una sensazione indescrivibile.

Forse fu perchè io potessi non impazzire che arrivò Tuod. Lui mi parlava la sera, quando ero a letto, la testa sul cuscino e gli occhi aperti nel buio. Lui mi teneva la mano quando avevo paura. Io gli raccontavo delle mie vittorie sportive, dei miei litigi con i compagni e lui mi ascoltava e soprattutto mi capiva. Come mi avrebbe capito mio padre, se fosse stato lì.

Questo strano rapporto a due tra me e Max mi riportò perciò a quel tempo e fu quasi per sbaglio che mentre mettevo a posto la valigia mi rivolsi a lui chiamandolo Tuod. Max non disse nulla. Accettò semplicemente quel ruolo, pur non sapendo quanti ricordi sanguinosi esso portasse dietro. Penso di non averlo più chiamato Max dal primo giorno che ci conoscemmo.

Tuod mi dava istruzioni su quello che dovevo fare, nonostante le mie proteste sul fatto che avevo pagato lui per guidarmi senza dover muovere un dito. Poichè sembrava non sentire, mi toccò imparare a bestemmiare nella lingua dei naviganti, chiamando con strani nomi alcuni buffi oggetti presenti sulla nave.

Prendemmo il largo e la mia emozione fu grande. Sentivo un po' di paura dentro di me, ma la ricacciavo giù insieme al nodo che mi si stava formando in gola, al pensiero che da quel viaggio avrei anche potuto non tornare. Non c’era nessuno sul molo a salutarmi, se non un vecchio pescatore. Mi fece tenerezza visto da lontano, seduto sul legno bagnato, con una canna da pesca in una mano e l’altra che nell’aria sembrava scacciare mosche. Mi resi conto troppo tardi per arrabbiarmene, che in realtà lui stava salutando Tuod, non me. Non c’era nessuno sul molo, ma forse avrei dovuto immaginarlo, visto che a nessuno avevo detto che partivo, se non al Responsabile delle Risorse Umane della mia azienda ed all’Amministratore Delegato. Per tutti gli altri io ero in missione da qualche parte.

I primi giorni trascorsero sereni. Sembrava quasi una gita in barca qualunque. Io passavo il tempo lasciato libero dai mestieri che Tuod mi assegnava, prendendo il sole completamente nudo. Adoro abbronzarmi: è la mia caratteristica principale. Le persone mi notano spesso solo per quello e per il forte contrasto tra il colore della mia pelle e quello dei miei occhi. Il mio Corto Maltese, invece,  aveva occhi solo per l’orizzonte e talvolta li poggiava sulle curve di qualche occasionale navigante che si offriva alla nostra vista di tanto in tanto, quando capitava di incontrare altre barche. Non che a me non interessassero in condizioni normali: è solo che avevo davvero voglia di staccare da tutto ciò che fino ad allora mi aveva ossessionato, soprattutto lavoro e donne.

La rotta che seguivamo ci portava verso Gibilterra e da lì avremmo iniziato il nostro tragitto più difficile: la traversata dell'Atlantico. Non nascondo che mi spaventava un po' quell'impresa, ma quando ne parlavo con Tuod la sua reazione era sempre talmente tranquilla, che alla fine mi convinsi anche io che non avrei dovuto fissarmi più di tanto sull'argomento.

Il passaggio attraverso lo stretto fu impegnativo, più di quello che Tuod aveva voluto farmi credere e di conseguenza iniziai a pesare adeguatamente tutti i suoi giudizi espressi relativamente al viaggio. Lo avevo visto un po' in difficoltà in alcuni punti ed il mio aiuto era stato decisivo per evitare che ci schiantassimo contro alcune rocce. Mi convinsi in quel momento che non avrei solo dovuto chiedere una patente nautica per garanzia, ma molto molto di più.

Appena passato lo stretto e recuperata la calma, Tuod mi chiese di tenere il timone, perchè lui doveva andare giù a studiare le mappe. Misi le mani sul legno bagnato con qualche timore, impegnandomi al massimo per seguire la sua indicazione di "andare sempre dritto". In realtà Tuod aveva tralasciato il fatto che "sempre dritto" ha senso quando hai punti di riferimento rispetto ai quali muoverti, ma  perdeva immediatamente di significato per una persona su una barca in mezzo al mare, senz'altro che acqua intorno. I dubbi verso Tuod aumentavano man mano che il tempo passava e lui non riemergeva. Iniziai anche a chiedermi perchè avesse accettato quel viaggio e mi ripromisi di chiederglielo alla prima occasione, tanto oramai eravamo su quella barca e non potevo fare a meno di lui, qualunque cosa avesse confessato.

Dopo circa due ore Tuod finalmente riemerse e fece cenno di sedermi. Prese il timone e mi guardò per un po', prima di iniziare a parlare. Non mi piaceva il suo sguardo, ma mi sedetti ed aspettai compunto che si decidesse a parlare.

-      Siamo nei guai! – disse ad un certo punto.
-      Cosa te lo fa pensare? - chiesi io ingenuamente.
-      Ho studiato molto le mappe prima di partire e mi sembrava di avertene parlato.
-      Di cosa?
-      Dopo Gibilterra volevo scendere verso sud fino al Tropico del Cancro al 70° meridiano; a quel punto avremmo virato verso Nord fino ad incontrare la Corrente del Golfo che ci avrebbe portato verso la costa orientale degli Stati Uniti, nella baia dell'Hudson. Lì ci saremmo fermati qualche giorno. Avevo calcolato che ci sarebbero voluti forse una ventina di giorni.
-      Cosa è cambiato? Si è spostata l’America? – dissi con il solito umorismo che mi prende quando voglio combattere la paura.
-      C’è un uragano. Dobbiamo andare verso Nord.
-      Andiamo... no?
-      Mi piace meno... dovremmo seguire bene la costa fino al Nord della Spagna e poi staccarci... ma c’è la Costa della Morte, quella zona non mi piace.
-      Cosa è la Costa della Morte?
-      Si trova tra La Coruña e Cabo Fisterra. Cabo Fisterra è il punto di arrivo del Cammino di Santiago. Prende il nome da “Finis Terrae”, la fine della terra, perchè era erroneamente ritenuto il capo più a Ovest della Spagna. E’ un promontorio con rocce di granito alte seicento metri, fanno paura...
-      Ci sei stato Tuod?
-      Sì e non ci voglio tornare... Ero in vacanza con mio fratello e sua moglie. Facevo da skipper.

Tacque improvvisamente e non volli chiedergli più nulla. Dopo un po’ che il silenzio si era fatto ingombrante, ripresi a parlare:
-      E quindi cosa vuoi fare? Non possiamo sganciarci prima dalla costa?
-      Stiamo un po’ risalendo. Stiamo allungando... per questo ho paura di dovermi fermare prima di lasciare la costa per l’Atlantico. Però ho studiato la cartina e forse, se ti va, possiamo fare una sosta alle Azzorre. Sono circa millecinquecento chilometri da Lisbona e quasi quattromila dagli Stati Uniti. Dovremmo farcela prima che l’uragano arrivi da quelle parti. Ci fermiamo e quando è tutto tranquillo si riparte. Che ne dici?
-      E’ sicuro?
-      Gli uragani possono anche non rispettare le previsioni che l’uomo fa su di loro. Dovremo stare con le orecchie aperte, sentire tutti i bollettini e correggere la rotta per bene.
-      Ma non possiamo salire su dalla Spagna evitando la Costa della Morte?
-      Senti, ho accettato questo lavoro perchè ho bisogno di liberarmi di quel ricordo. Vuoi che mi ci ritrovi spiaccicato contro?
-      E tu vuoi andare incontro ad un uragano soltanto perchè non vuoi ammettere di avere sbagliato?
-      Chi cazzo ti dice che ho sbagliato io?
-      Senti, non ne veniamo fuori litigando. Facciamo una cosa. Vediamo qual è la probabilità maggiore di successo: Azzorre con l’uragano che ci aspetta a braccia aperte oppure Costa della Morte passando al largo. Studia entrambe le soluzioni e poi ne riparliamo.
-      Ho detto che verso la Costa della Morte non vado. Ti riporto a Spezia se vuoi.

Se ne andò giù lasciandomi seduto accanto al timone.
Mi alzai in piedi senza sapere bene cosa fare. Dovevo ancora andare diritto? Porca miseria! In che situazione mi ero cacciato! Io che riuscivo a guidare il mio gruppo di uomini instancabilmente verso la meta e che ero portato ad esempio in tutta l’azienda come il “Capitano”, il capo che tutti avrebbero voluto, mi trovavo ora a non sapere come gestire la situazione, senza le competenze necessarie per arrangiarmi da solo.

In fondo cosa rischiavo? Rischiavo di morire, ma questo io l’avevo già messo in conto, no? Chi affronta un viaggio di questa portata con uno sconosciuto che sembra Corto Maltese e si chiama Tuod di certo non può sperare di arrivare bello pulito e pettinato in fondo al viaggio senza nemmeno una cicatrice.
-      Dai Tuod, vieni su. Si va verso le Azzorre. Come hai detto che si chiama quel posto?

Terzo Capitolo

Tuod si era tranquillizzato. L’idea di passare nei pressi della Costa della Morte lo aveva davvero sconvolto. Pensavo davvero che se lo avessi forzato a quella opzione, una volta attraccati al molo mi avrebbe piantato lì e se ne sarebbe andato. Così l’atmosfera migliorò tra di noi. Il tempo era buono, il mare sufficientemente tranquillo, il vento abbastanza alto da farci veleggiare verso il nostro obiettivo rimanendo nei tempi che Tuod si era dato.

Quello che successe perciò ci colse completamente alla sprovvista. Accadde tutto una notte. Mi svegliai perchè sentivo la barca ondeggiare in modo più forte del solito ed il mio stomaco era vicino a vuotare nel cesso tutta la cena. Mi alzai tentando di raggiungere la toilette, ma non appena misi piede in terra fui sbattuto completamente dall’altra parte e caddi. Mentre cercavo di rialzarmi mi colse una serie di conati di vomito e lo spettacolo che ne risultò ve lo risparmio, perchè io stesso sto male a ricordarlo. Urlai il nome di Tuod, sperando mi sentisse. Non capivo dove fosse, ma lo volevo lì con me, a rassicurarmi che tutto stava andando per il meglio ed era solo un mare un po’ più grosso del solito. Tuod non mi rispondeva, al che capii che dovevo raggiungerlo su. Mi feci strada con lo stomaco che oramai andava su e giù per i fatti suoi ad ogni minimo sbandamento della barca. Afferrai il corrimano delle scale e mi portai su e rimasi immobile nel vedere uno spettacolo che di umano oramai non aveva già più nulla. Tuod era riverso sotto le vele: doveva essere stato colpito alla testa mentre cercava di manovrarle e giaceva privo di sensi, bocconi. Intorno a noi c’erano delle onde gigantesche, quasi più alte dell’albero della nave.

Non sono un uomo che ha paura di solito. La vita in fondo mi ha preparato a non avere paura di ciò che di solito altri possono temere. Io non temevo la morte: forse a causa della esperienza di mio padre, per me la morte era solo vuoto, assenza e non aveva le colorazioni fosche dell’inferno o la luminosità del paradiso. Io soffrivo di vertigini, ma non per questo mi tiravo indietro di fronte a paesaggi o imprese mozzafiato.. C’era una canzone che diceva che le vertigini non sono paura di cadere, ma voglia di volare. Io non temevo di essere rapinato di notte quando tornavo a casa da solo, nè le armi mi facevano paura. Forse era incoscienza la mia o forse era solo il sapere che in fondo la cosa peggiore che mi potesse succedere era porre fine alla sofferenza su questa terra. Per sempre.

Eppure quello che vidi rimase impresso nei miei occhi e mi ferì dentro. Capivo di essere di fronte a qualcosa che io non avrei potuto controllare. Capivo che qualunque cosa io avessi potuto decidere di fare, non avrei deciso per la mia vita o per la mia morte, nè per quella di Tuod. Mi fece paura la mia stessa rassegnazione di fronte a quello orrore della natura. Contrariamente a questo pensiero, fu l’istinto a guidarmi all’azione. Cercai di trascinare Tuod sottocoperta, ma ad un certo punto la barca si rivoltò e non fui capace di trattenere con le mie mani, nonostante ce l’avessi messa tutta ed anche di più, i centottanta centimetri per ottanta chili del suo corpo. Lo vidi scivolare lentamente e vidi il mio corpo spingersi in là per afferrare un lembo del pantalone, una ciocca di capelli, qualsiasi cosa che potesse contribuire a trattenere il suo corpo sulla barca e la sua vita sulla terra.

Scivolò lentamente. Prima vidi i suoi piedi penetrare nell’acqua e poi lentamente vidi sparirne le gambe, il tronco, le braccia e la testa. Credo di avere urlato in quel momento, un urlo che non servì a salvarlo ma diede a me la forza di sopportarne la morte. Credo, perchè davvero ho cercato di cancellare tutte le sinapsi che mi consentirebbero di riportare alla mente ed agli occhi quelle immagini così dolorose.

Sanguinavo. Da qualche parte sanguinavo e me ne resi conto per caso. Ero sporco di vomito e sangue dappertutto e sentivo che anche io stavo perdendo le forze. Decisi di aggrapparmi a qualcosa ed aspettare la morte. Non ero cristiano e quindi non mi serviva pregare. Ma in quel momento mi sembrò la cosa più dignitosa da fare. Strano come di fronte alla morte, ad un uomo rimanga solo la propria dignità. Non ce lo ricordiamo spesso. Ma dovremmo.

All’improvviso qualcosa, forse una trave, mi colpì.
Svenni e quando mi svegliai vidi sopra di me un cielo azzurro e limpido.

Non avevo scelta: o ero in paradiso o, più probabilmente ero approdato nelle Azzorre. Non con la barca, ma in qualche modo.

Le Azzorre sono un arcipelago di nove isole immerse tra il Portogallo ed il Nord America, in pieno Oceano Atlantico. Alcuni ritengono che esse siano i resti della mitica Atlantide. Selvagge, perigliose, dai laghi cristallini e dalle scogliere nere. In realtà non ero su nessuna delle nove isole più famose, ove avrei potuto sperare di trovare aiuto e comprensione per la mia situazione, nonchè un pasto caldo ed assoluto riposo.

Non ero alle Azzorre. Non so come, ma ero finito su una delle Isole Selvagge, un gruppo di tre isole completamente disabitate, tra Madera e le Canarie. Come abbia fatto la barca a finire completamente fuori rotta per me restò un mistero e del resto non avevo nemmeno più Tuod a sostenermi nei miei ragionamenti. Mi alzai. La testa mi girava un po’. Mi guardai intorno e riconobbi in alcuni legni accanto a me un paio di lettere del nome della barca, una ‘Y’ ed una ‘S’. Poco più in là c’era la barca completamente aperta contro uno scoglio gigantesco. Noncurante delle mie ferite corsi verso il relitto e iniziai a rovistare tra la legna umida e puzzolente. Mi si aprì il cuore quando vidi le scatole di cibo ancora intatte. Cercai ancora e trovai la cassetta del pronto soccorso. L’afferrai e tornai sulla spiaggia, a sedermi su un masso abbastanza alto.
Iniziai a medicare i numerosi tagli che riuscivo a vedere, alcuni dei quali erano chiusi da sangue rappreso. Cercavo di aprirli un po’ giusto per disinfettarli per bene. Cercavo di fare il mio meglio, tenuto conto che prima di quell’avventura la migliore reazione al sangue che avevo avuto era stata di uno svenimento. E’ evidente come in condizioni estreme l’uomo reagisca con forze inaspettate.

Dopo un po’ mi resi conto che la mia ostinazione nel ripulire le ferite nascondeva forse il desiderio di medicarne altre, più profonde. Lo sguardo si soffermò per un attimo all’orizzonte e mi sembrò quasi di udire lontano la risata un po’ beffarda di Tuod. – Vorrei essere al tuo posto, adesso, brutto stronzo di uno skipper. Dovunque tu sia – mi sorpresi a pensare.

I giorni passavano l’uno uguale all’altro. Non c’era molto nè da fare nè da girare su quell’isola. Avevo fatto asciugare il legname al sole ed avevo costruito un piccolo riparo. Avevo trascinato al coperto le provviste e tutto il materiale intatto che avevo trovato nella barca, compresa una piccola radiolina che Tuod usava raramente. Non ero un elettrotecnico nè potevo considerarmi un amatore di elettronica. Eppure il troppo tempo libero e la voglia di tornare al mondo civile mi costrinsero a dedicarmi allo studio di quell’aggeggio, che un domani avrebbe potuto rappresentare l’unico modo per comunicare con il resto del mondo, lontano  migliaia di onde da dove sedevo io.

Fu quasi per sbaglio una mattina che aprii una scatolone di Tuod, pensando che contenesse altri tipi di viveri. Ero stufo di mangiare scatolette di tonno e piselli ed ebbi la speranza di potervi trovare qualche cibo un po’ diverso. Invece in quella scatola c’era solo un mucchio di materiale di cartoleria: blocchi, quaderni, penne, matite colorate, e in una scatola più piccola, alcune fotografie. Mi colpì in particolare la foto di un uomo, alto, molto magro, con i capelli neri e la faccia butterata, che doveva essere sicuramente il padre di Tuod. Affianco a lui una donnina piccola e smilza, quasi insignificante, se non fosse per degli occhi dolcissimi che riuscivano ad abbracciarti e farti sentire il calore che avevano dentro.

Da quanto tempo non vedevo uno sguardo come quello? Da quanto tempo non sentivo un calore come quello? Afferrai una penna e fu quasi naturale iniziare a scrivere, come se con quel gesto io potessi finalmente porre fine ad un forzoso silenzio. E l’ardore con cui scrissi quelle parole mi fece capire che il silenzio che urlava dentro di me non era quello della solitudine di un’isola deserta, dove mi ritrovavo ogni giorno a fare sberleffi davanti ad uno specchio e ad urlare improperi alla mia faccia barbona di naufrago. No. Era un altro il silenzio che implorava la fine e anche se non aveva senso nè speranza di raggiungere il destinatario, si sciolse subito al calore ed al suono delle prime parole del mio messaggio nella bottiglia. Le ripetetti tra me e me mentre le scrivevo, quasi ad evocare la sua presenza, lì affianco a me.

“Caro papà...”
Pagina intenzionalmente lasciata bianca.

Prima Lettera

Erano passati molti giorni, forse settimane.
Gabriele aveva perso oramai il senso del tempo. Seguiva l’istinto per mangiare, bere e dormire. Ed il resto del tempo lo passava con un coltello in mano a tagliare legna. Scolpiva piccoli oggetti, secondo l’estro del momento.

Non avrebbe mai pensato di essere capace di dare vita a qualcosa con le proprie mani e il fatto di sentire sotto la pelle le cose che scolpiva gli dava in qualche modo un senso.

Una sera era seduto fuori della sua capanna. Aveva acceso un fuoco, ma non riusciva a sentirne il calore. Nonostante gli fosse molto vicino e avesse messo su delle coperte, sentiva dei brividi dentro. Si sentiva eccitato, sentiva dentro di sè un’energia che non riusciva a convogliare verso il suo solito intagliare e scolpire. Aveva sciupato diversi pezzi di legno tentando di dare forma a quella sensazione che provava dentro.

All’improvviso si alzò, prese un foglio ed una penna e cominciò a scrivere.

Non intesterò questa lettera, ma so che tu saprai riconoscere le parole che sto dedicando a te.

Sai anche che se non fossi qui, su un'isola sperduta nell'Atlantico, con rare possibilità di sopravvivenza, non ti starei scrivendo. O forse ti starei mandando solo un SMS. Ma questo posto è lontano dal mondo tecnologico come il sole dall'ultimo pianeta del sistema solare.

Forse è un bene che sia così! Fra di noi non c'è mai stato bisogno di parole. Noi sappiamo cosa proviamo l'uno per l'altra. Noi siamo certi l'uno dell'altra come siamo certi che ogni giorno sorge il sole. Siamo il riferimento l'uno per l'altra, il punto fermo che non gira e non passa. Ovunque andiamo, con chiunque ci accompagnamo, se ci giriamo, sappiamo di esserci specchio e ci troviamo, come prede che non scappano ai cacciatori e siamo prede e caccatori insieme. Del nostro amore. E’ anche vero che a volte, quando sentiamo che le cose ci sfuggono, per chiunque diventa importante fermarle: è solo per questo, amore mio, che oggi ti sto scrivendo. E’ solo per questo, per fermare il mio amore e rendertelo sempre visibile, che oggi fisso su questa carta ciò che io provo per te, affinchè tu possa sempre averlo sotto gli occhi, anche quando il tempo ti avrà cancellato quei ricordi che a te sembrano indelebili. Già. Perchè il tempo a volte fa questi dispetti, anche verso le persone che per te sono o sono state importanti e ti toglie un pixel dopo l’altro dalle fotografie dei tuoi ricordi ed un giorno, all’improvviso, scopri che di ciò che era importante, è rimasto solo un sentimento.

So che il dolore che ti ho dato ha lasciato un profondo segno nel tuo cuore. Lo leggo ogni volta che ti incrocio, anche se il tuo pudore ti impedisce di rinfacciarmelo, perchè in fondo sei come me e sai che non avevo scelte, che l'alternativa era non sentirmi più uomo. Mi chiedo a volte se potrai mai perdonarmi. So che non lo farai. Certe cose non possono essere perdonate, lo so. Ma mi basterebbe sapere che vorresti farlo, amore mio.

Con la mia scelta ho rinunciato ad una vita comoda. Ho rinunciato ad amare. Ma sai che non ho rinunciato ad essere padre ed è l'unica cosa che ho voluto fare bene. Scrivendoti, scelgo di farlo fino in fondo, senza paura di mettere a nudo i miei sentimenti di uomo e rivelarteli. Non mi chiedo cosa ne farai. Potrai usarli a mia discolpa o potrai ignorarli, gettandoli nel cesso con tutta la rabbia che ti porterà la certezza di avermi perso. Ma credimi, meglio questa certezza che l’incertezza di non avermi capito o di non avermi dato quello che tu potevi.

Tu mi hai dato tutto. Tutto quello che con le tue mani da bambina potevi offrirmi.
La gioia di vederti nascere, piccola, indifesa, la “mia” creatura – o dovrei dire la creatura alla quale anche io ho contribuito – il che non è poco per un uomo: sapere che hai dato vita a qualcosa, a qualcosa di buono intendo – ti riconcilia per tutti i peccati che puoi avere commesso in una vita.

Prenderti per mano e farti camminare, gioire dei tuoi sorrisi e addolorarmi nei tuoi pianti.
Raccogliere le tue confessioni di bambina e tirarmi indietro quando sei diventata adolescente e questo padre non lo volevi più... già, forse questo, amore mio, è stata la parte più difficile: il nostro era un rapporto fortissimo e vederlo lacerarsi – per carità, in maniera sana e naturale come si confa ad una relazione sana tra padre e figlia – è stato il dolore più grande. Ti vedevo ritrarti di fronte a me, ti vedevo chjuderti a riccio e allontanarti. Ed io dovevo stare fermo, lasciarti andare, evitare persino di toccarti perchè vedevo che ti davo fastidio, lì dove invece fino a qualche anno prima eri tu che cercavi in continuazione i miei baci ed i miei abbracci. E’ stato un distacco duro, che non ha avuto parole di spiegazione, che ho sempre sperato che con il tempo si ritraesse, per ricongiungerci una volta che tu fossi diventata adulta e non mi vedessi più come uomo, ma ancora una volta come padre. Un padre vecchio, che ha bisogno del tuo affetto e della tua vicinanza anche fisica, perchè a volte le parole non bastano, nemmeno quelle non dette.

Non ho nulla da lasciarti, se non il ricordo di un uomo provato, di qualcuno che stava cercando di vivere e trovare un senso in se stesso. La mia speranza è che tu abbia anche dei bei ricordi, oltre che quelli di un uomo arrabbiato e solo. Ricorda, quando ti troverai davanti un uomo ferito e solo, di non disprezzarlo. Soprattutto, amore mio, non ferirlo di più, non lasciare nel suo cuore solchi di dolore che difficilmente potrà ricomporre.

Se puoi, recupera quello che ero nei momenti migliori, recupera i miei sorrisi, i miei scherzi da adolescente, quelli che facevo alle tue amiche mentre tu ti incazzavi e mi guardavi storto. Recupera i miei abbracci e le mie carezze, i momenti passati insieme in silenzio, gli sguardi incrociati e le risate improvvise, la mia spalla alla quale a volte ti appoggiavi silenziosa, stanca e triste. Momenti che man mano che crescevi io apprezzavo sempre di più perchè erano sempre più rari. Piccoli diamanti che brillavano tra momenti tutti d’oro. Avrei voluto strapparti il dolore dal cuore perchè tu potessi non provarlo più. Avrei voluto sfidare coloro che ti facevano soffrire perchè smettessero. Eppure come padre non potevo farlo: sapendo quanto dolore c’è nella vita, era bene che tu imparassi a conoscerlo e a domarlo, ma soprattutto a vincerlo.

Sono arrivato alla fine, amore mio.
Quale fine strana per tuo padre. Vissuto solo, di una solitudine che spacca il cuore. Solo tra le persone che amavo, il che ha reso il mio dolore ancora più penetrante ed inaccettabile. Per questo sono andato via: almeno diventava giustificabile il mio sentirmi estraneo al mondo intorno. Se fossi rimasto, ho avuto paura che alla fine avrei potuto odiare anche te e tuo fratello e questo non doveva succedere.
Abbi cura di te. Abbi cura del mio ricordo.

Cercami nel tuo cuore, quando avrai il bisogno di avermi accanto e sai che io sarò lì. Sarò negli occhi di coloro che ti ameranno. Sarò nelle parole di chi ti dirà che ti ama e tu saprai che non sta mentendo se proverai quello che hai provato per me. Sarò negli abbracci e nelle carezze di chi ti vuole bene. Sarò in queste povere parole, se mai ti arriveranno.

E se non ti arriveranno, so che saprai lo stesso, nel tuo cuore, quanto ti amo.
Papà


Seconda Lettera

Gabriele era seduto nella capanna e stava sfogliando le fotografie di Tuod.
Ripensò a suo padre. Cercò di ricordare la sua immagine, ma questa gli appariva sfocata nella memoria, il che gli fece nascere dentro un sentimento di rabbia contro se stesso, per averlo dimenticato. A nulla valevano le scuse che la sua ragione gli costruiva: eri un bambino, è passato tanto tempo, non avevi tante fotografie da portarti dietro. Si rimproverava di aver dimenticato i momenti dell’infanzia insieme, di aver tenuto forte dentro di sé soltanto il vuoto, di essersi trascinato solo quel senso di abbandono. E vide all’improvviso in sé suo figlio. Così iniziò a scrivere…

"Sei un uomo", ti diranno, "sii forte, non devi piangere".  Il tuo dolore sarà intenso. Ti sentirai impotente e non piangerai soltanto perchè avrai in corpo talmente tanta rabbia, che sono felice di non essere lí davanti a te a prendere tutti i pugni che mi merito e che vorresti darmi.

Proverai un grande vuoto che ti sarà impossibile riempire. Io non so dirti dove sarò in quei momenti. Non posso mentirti dicendoti che sarò accanto a te o che potrai pensare a me guardando il cielo. Non sono cristiano ma non escludo nulla. Nemmeno che magari Dio esiste ed io sarò all'inferno, se varrà come capo d'accusa tutta la sofferenza che chi amo ha provato a causa mia.

Ti farà impazzire il fatto di non avere una tomba sulla quale piangere, il fatto di non avermi visto freddo e composto in una bara, come nei film. Non riuscirai a pensarmi morto senza avermi visto, in un'età come la tua nella quale si è peggio di S.Tommaso e non si crede a nulla se non ci si schiaccia il naso contro.

Che beffa per me che ho vissuto l'esperienza di un padre che non c'era, senza che nessuno avesse la decenza di dirmi che era morto. Sono convinto che sia questo che mi rende ancora più difficile il vedermi qui a pensare a te, laggiù, che non sai cosa sono ora: se spirito libero, se carne lasciata ai vermi o anima dannata. So esattamente ogni pensiero che ti attraversa la mente. Immagino ogni istinto che nasce in te verso di me: lo sconcerto iniziale per il vuoto improvviso e l'incertezza sulla mia sorte, che si trasforma nella rabbia più sordida quando l'assenza continua e ti invade l'anima. L'indifferenza che segue, a difesa dal dolore. Il rimorso per le cose che hai fatto ed il rimpianto per quelle che non hai potuto o voluto fare. L'invidia e l'odio quando vedi un padre ed un figlio nelle situazioni che ti ricordano noi.

Crescerai con quel senso di vertigine, sperando di non farlo provare a tua volta a tuo figlio, come se questa fosse una maledizione da tramandarsi di padre in figlio perchè il dolore continui. Come se il dolore fosse l'unico modo per farsi ricordare e ricordare.

E non c'è nulla che io possa dirti, da vivo, pur lontano, per alleviare il dolore ed accarezzare il tuo cuore. Va' per la tua strada, sapendo che quelle sensazioni rimarranno con te per sempre, ti faranno avere paura di perdere qualunque cosa tu ami, per costringerti poi a non amare più o a negare a te stesso l'amore che provi per qualcuno, come fosse una piccola scaramanzia per non perderlo.

Ci sono cascato anche io. Mi sembra di vedere un film nel quale tu prendi il mio ruolo da protagonista ed io divento spettatore inerme del tuo rigido silenzio.

Perciò non posso dirti nulla. Conosco i miei errori, ma raccontarteli non cambierebbe mai il tuo cammino, nè la condivisione ti aiuterebbe a sopportarlo. Sarai solo, come lo sono stato io.

Una sola cosa ti lascio: il mio amore. Tutto l'amore che posso, quello forte ed eterno che sentirai nell'aria che respiro, l'unico amore che oramai non ho più paura di gridare, perchè non mi è rimasto nulla da perdere. Un amore cresciuto nel tempo, diventato da protettivo a complice e che avesse potuto evolvere sarebbe diventato stima, rispetto ed infine pietà, nella mia vecchiaia.

Una sola cosa ti dico: non avere paura di amare. Non avere paura di raccontare il tuo amore alle persone che contano davvero e quando contano davvero lo sai, perchè quando non ci sono ti senti mancare il fiato.

Papá

Epilogo
Non sapeva quanto tempo fosse passato dal giorno del naufragio. All'inizio aveva tenuto il conto segnando delle tacche su un albero. Poi non ne vedeva più il senso: a lui non era mai importato il tempo. Perciò aveva smesso.
Non c'era molto da fare sull'isola, così a volte si dilettava a intagliare pezzi di legno trovati in spiaggia, a volte si sedeva in riva al mare a guardare l'orizzonte.
Anche per il mangiare aveva imparato ad arrangiarsi: aveva ancora una piccola scorta di barattoli tra carne, tonno e legumi ed ogni tanto gareggiava con se stesso ad acchiappare pesciolini da cuocere sulla brace.
Non gli importava di vivere o sopravvivere. In qualche modo gli era stato offerto un dono eccezionale: quello di avere tutto il tempo per pensare e analizzare la sua vita, recuperando ricordi ed emozioni, spolpandoli di tutto ciò che erano i sentimenti effimeri e riconoscendo le persone che erano state davvero importanti per lui, tra le mille che gli si erano affaccendate intorno.

Una mattina il sole era già alto nel cielo. Lui era fermo sulla spiaggia, con in mano una matita ed un foglio, dove aveva iniziato a disegnare il volto dei suoi figli, così come lo ricordava dentro di sè. Aveva iniziato qualche giorno prima quando si era lasciato prendere dal panico per il fatto di non ricordare bene alcuni particolari dei loro occhi ed il terrore di non riuscire più a visualizzare nella mente i loro volti aveva fatto il resto.
Ogni tanto alzava gli occhi tra il cielo e l'orizzonte dove questo lambiva il mare e fu in uno di questi momenti che la vide. Era una imbarcazione piuttosto grossa, di quelle turistiche. Dopo un po' iniziò anche a percepire un suono che doveva essere una musica a bordo. Si alzò per guardare meglio. Cercò di intuire le distanze, ma non era mai stato bravo nelle cose pratiche e la distanza tra i suoi piedi ed il primo braccio che avrebbe potuto afferrare potevano essere dieci chilometri o cento. Non aveva davvero il senso di quella misura. Si sentiva eccitato al pensiero che quella sua disavventura potesse avere fine, ma allo stesso tempo iniziò a distinguere nel suo animo un po’ di paura. Erano sintomi inconfondibili, soprattutto dopo che per così tanto tempo aveva imparato a conoscere ogni centrimetro di sè, fisico ma soprattutto spirituale, ogni fremito, ogni bisogno, ogni variazione di umore. Era naturale, stando da solo, aver imparato a distinguere ogni battito del proprio cuore. Solo che la conoscenza raggiunta fino ad allora non gli faceva distinguere se gli faceva paura la paura in sé o il fatto di avere paura. Così saltellava da un piede ad un altro, sempre fermo allo stesso posto, cercando di guardare meglio l’orizzonte.
All’improvviso si decise e corse nella capanna a cercare i razzi S.O.S.. Era sicuro di averli visti. Iniziò a rovistare velocemente tra le casse e finalmente ne trovò uno. Guardò intorno e dentro altre casse, ma sembrava esserci solo un razzo. Doveva stare attento, perchè non poteva sprecarlo. Lesse con accortezza le istruzioni e si portò in spiaggia per spararlo, sperando che funzionasse e che gli consentisse di essere visto.
Successe qualcosa nel tragitto tra la capanna e la spiaggia. Gabriele era uscito fuori con il razzo in mano e si era posizionato sul bagnasciuga. Aveva notato che la barca era più vicina. Sembrava incredibilmente vicina, molto più di prima e dentro di sè era sicuro che bastasse accendere quel razzo, perchè tutto finisse e lui potesse rientrare nel mondo civile. Forse fu quel pensiero ad instillare in lui i ricordi della partenza, della solitudine che aveva lasciato. Le immagini dei suoi ultimi giorni nel mondo comune si erano staccate da lui appena la sua barca aveva salpato ed ora gli si stavano riappiccicando alla memoria, ma sentiva di non volerle. Non più.
Se c’era una cosa che in quel periodo era cresciuta in lui, quella era il desiderio di concedersi soltanto a ciò che era importante. Di importante per lui erano rimasti soltanto i suoi figli e sapeva, dentro di sé, che sarebbero stati male per la sua assenza, certo, sarebbero stati malissimo. Eppure dopo un po’ avrebbero iniziato a vivere quella assenza come qualcosa di naturale, con meno dolore, con meno sofferenza. Tornare voleva dire costringerli a dividersi nuovamente. Non tornare voleva dire consentire loro di ritrovare l’unità del cuore, vivendo in un solo posto, avendo una sola camera dove dormire, una sola casa dove abitare, una sola famiglia da amare.
Non ci pensò più su. Alzò il braccio  e tirò il razzo in mare, più lontano che poté. Poi tornò un attimo nella capanna. Afferrò le tre lettere che aveva scritto, le mise in tre bottiglie diverse, le chiuse con un tappo di sughero e corse di nuovo a riva per gettarle, anch’esse lontano da sé, quasi come se volesse prendere le distanze da tutto quello che era e non sarebbe stato mai più.
Quindi si sedette sulla riva e osservò la barca sparire lentamente all’orizzonte.
La realtà è che Gabriele non fu mai ritrovato, perciò ad oggi io non so se quest’uomo sia ancora vivo oppure no. A me piace pensare che lui sia da qualche parte nell’Atlantico ed abbia raggiunto un suo equilibrio e che nella sua solitudine abbia raggiunto la serenità e la felicità che meritava.

A lui dedico questa storia, con la presunzione che un giorno qualcuno possa raccontargliela e lui abbia voglia di conoscermi per correggerla dove è sbagliata.

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