Prendo spunto da una storia vera e le costruisco intorno un po’ di “romanzo”, perchè alcune affermazioni potrebbero essere troppo pesanti a pensarle come vere e perchè alcuni aspetti di questa storia io non li conosco fino in fondo, nonostante abbia vissuto abbastanza da vicino questa difficile scelta.
Il nome nel racconto,
Ermes se lo è camuffato da solo, rispondendo ad una chat sul blackberry: gli ho
chiesto che nome avrebbe scelto per sé, se non si fosse chiamato come si chiama
nella realtà. Ammetto di avere preso non
proprio la prima scelta...
Non parlo a nome di Ermes.
Di tutte le affermazioni fatte nel racconto, mi assumo piena responsabilità in
prima persona. A voi capire quelle vere, distinguendole da quelle forzate dal
romanzo.
Pubblico la storia
proprio il 30 Gennaio, l’ultimo giorno di Ermes in Italia... perchè questo è l’unico
modo che conosco per augurargli di riuscire a nuotare attraverso il fiume,
senza lasciarsi prendere dalla corrente.
Settembre
Se mi siedo per un attimo e
ripenso agli ultimi dieci anni della mia vita lavorativa, credo di avere subito
una innumerevole serie di cambiamenti societari sui quali insieme ai miei
colleghi ho saputo piangere, ridere e scherzare. Sono sempre stato pronto a
ribaltare il mondo e non mi ha mai spaventato farlo.
Eppure stavolta è diverso:
stavolta cambio io!
La mia storia nasce in una mattina
di settembre, una mattina come tutte le altre, nelle quali ancora il caldo gira
umido nell’aria e il sapore salmastro dell’acqua e i profumi degli oli
abbronzanti ti entrano nelle narici quando sali su un piccolo vagone di una
ferrovia.
Mi chiamo Ermes e prendo tutti i
giorni lo stesso treno dalla provincia alla grande metropoli, scendo a Milano,
mi fermo a prendere un caffè ed un cornetto e poi entro in una delle più grandi
società italiane, che di grande conosce oramai soltanto i numeri di fatturato e
di soldi che gestisce.
Per me era una mattina qualunque.
Ero seduto alla scrivania con in mano la lista che mi ero fatto delle persone
da chiamare, dei fornitori da sollecitare e delle email da spedire. Seguivo il
mio progetto con tranquillità, nonostante avessi addosso gli occhi di molte
persone, che speravano quel progetto venisse affossato, con insieme un paio dei
miei responsabili. Stavamo portando avanti l’automazione di una parte di
attività che alla fine ci avrebbe assicurato una consegna più veloce e precisa
degli ordini ai fornitori. Vero è che alcuni speravano in alcuni grossolani
errori del nostro staff, per puntare il dito contro i miei responsabili e farli
fuori.
I miei responsabili mi assicuravano
ogni giorno il supporto necessario per tutte le attività che portavo avanti. Il
loro sostegno professionale era garantito e me ne servivo abbondantemente per
schivare i numerosi coltelli che passavano giornalmente sulla mia testa. Vieri,
quarantasei anni, consulente per natura, uomo per sbaglio e Giorgia, quarantanove
anni, stronza per natura, donna per sbaglio. Due esseri che sembravano lontani
dai sentimenti umani, quel tanto che bastava a non provare il minimo di empatia
di fronte alle condizioni normali di noi dipendenti: la gioia di una nascita,
la preoccupazione di un intervento, i primi passi di un figlio, i genitori
malati... erano tutti eventi che dovevano restare rigorosamente lontani dai
discorsi con loro, che parlavano solo di numeri, fatturato e produttività.
Io mi ci ero abituato. Era la
nuova gestione, ben lontana dal paternalistico abbraccio del mio vecchio capo
che mi teneva nel suo ufficio per ore a parlare di scenari industriali di alto
livello e piccole beghe di grandi uomini d’affari. Sapeva tutto del mondo nel
quale ci muovevamo e di esso ci teneva a renderci partecipi, perchè il nostro
lavoro non rimanesse fine a se stesso. La nuova gestione era fatta di dirigenti
licenziati dall’oggi al domani, di passaggi inspiegabili di persone da un
ufficio all’altro, di distacchi in società del gruppo, di arrivi improvvisi di
personale appartenente ad una chiara cordata: un clima di terrore degno dei
tempi di Robespierre.
A metà di quella mattina scesi a prendere
un caffè al bar con il mio vecchio amico Pericle, come ero solito fare di tanto
in tanto per dimostrare la mia parte “umana” anche sul lavoro. Un amico col
quale fumavamo su un balconcino riservato ai “viziosi” dei pacchetti interi di
sigarette prima di rientrare in ufficio, raccontandoci pettegolezzi e novità
del lavoro e con il quale, quando ho smesso di fumare, abbiamo mantenuto
quest’abitudine spostandola in un bar.
Al mio rientro, prima di
ricominciare a lavorare, consultai la mia email privata. Lei era lì, discreta
tra tre o quattro alert di tipo spamming, che giaceva pura ed intatta nella sua
bellezza. Non conoscevo il mittente, l’oggetto era tutt’altro che insulso:
“Proposal”. Ripensai alle serate che passavo da giovane a giocare a pocker con
gli amici e mi venne in mente l’immagine di Sergio che usava spizzicare le
carte una per una, fermandosi ad indovinare da un puntino colorato quali
fossero il numero ed il seme delle carte, una dopo l’altra, per cinque volte.
Decisi di fare così...
Catturai il nome del mittente e
cercai il dominio che compariva nell’indirizzo email. Si trattava di una
società di cacciatori di teste specializzata nelle ricerche di personale a
livello internazionale. Basata in Belgio, lavorava molto per cercare dipendenti
di paesi europei per società basate a Londra. La situazione si stava profilando
per molti versi interessante. Il settore dove operava la mia società era molto
forte a Londra e le speranze di un’alternativa al mio lavoro attuale sembrava
si stessero materializzando davanti a me.
Non sono il tipo di persona che –
come si dice nel linguaggio comune – “sputa nel piatto dove mangia”. E’ pur
vero che in dieci anni di duro lavoro non avevo guadagnato molto come posizione
all’interno della mia azienda. Ogni fusione o acquisizione mi avevano lasciato
sperare in un avanzamento di carriera, eppure ogni volta nulla si era
concretizzato, nonostante fossi rimasto ben radicato “nel mio territorio” e mi
fossero state riconosciute ampiamente a livello economico le mie capacità.
Eppure, non avevo guadagnato nessuna carica manageriale. Ero in ritardo lungo
il persorso di carriera che mi ero figurato per la mia vita e stavo entrando in
un tunnel dove anche il mio stipendio diventava una variabile importante del
mio lavoro, nonostante per anni fossi riuscito a sostenere il contrario.
Negli ultimi mesi, infatti, mia
moglie Cristina aveva lasciato il lavoro. Era stata una decisione sofferta,
maturata nel tempo dopo che aveva sperimentato varie forme di lavoro: a tempo
pieno – prima del matrimonio –, in proprio – dopo la maternità –, e part-time –
quando il lavoro in proprio aveva iniziato a non fruttare quello che ci eravamo
immaginati. Prima dell’estate la situazione era diventata insostenibile e le
richieste che le giungevano si scontravano pesantemente con la scelta di
seguire personalmente nostra figlia nelle sue attività scolastiche e
parascolastiche. Così a Maggio si era licenziata. Durante i mesi che avevano
preceduto la nostra decisione, io non ne avevo mai percepito le conseguenze in
maniera così drastica come a luglio, quando mi capitò di guardare il mio conto
corrente, rendendomi conto, per la prima volta in modo tangibile, che il mio
era l’unico stipendio che entrava in famiglia. Per questo motivo, sentivo di
dover fare di tutto per assicurare alla mia famiglia lo stesso stile di vita
del passato, qualunque cosa fosse successa.
L’impegno pesava. Non avevamo
problemi economici, ma in me sentii crescere il terrore di dover sostenere
soltanto io tutte le richieste che avrebbero potuto nascere nel tempo, da
quelle scontate a quelle più estrose che il tempo può portare. Provai a parlare
con i miei responsabili delle mie aspettative di crescita, ancor prima di ruolo
che di stipendio: trovai un muro di indifferenza, che si celava dietro i soliti
“Vediamo...” “La capogruppo detta regole precise...” di chi non vuole dirti
chiaro e tondo che “non ce n’è”, per timore che tu molli tutto e abbandoni la
nave prima che loro ne siano scesi.
Gli occhi sulla pagina web dei
cacciatori di teste si riaprirono dai sogni. Tornai a concentrarmi sulla email
e finalmente mi decisi ad aprirla.
“New position: London – please contact us asap”
Null’altro. Nè cosa, nè dove, nè
quando. Così, un po’ deluso risposi svogliatamente e lasciai i miei
riferimenti, quasi meccanicamente, come avevo già fatto altre volte per l’invio
del mio curriculum ad altre società. Non ci pensai più fino ad una settimana
esatta dopo la risposta.
Ottobre
Il bello di questa storia è che
tutto è capitato inaspettato, quasi piovuto dal cielo quando anche la più
remota speranza era caduta, come le foglie in autunno. Il secondo giorno di
questa storia fu protagonista una telefonata.
Ero in un riunione. Avvicinandosi
la scadenza di rilascio del progetto, le riunioni erano diventate più rare e
con sempre meno persone che partecipavano: c’era da fare, non si poteva perdere
tempo. Solo i “grandi” vi partecipavano. Gli altri lavoravano. Tra i primi
spettatori c’erano coloro che rischiavano di perdere una poltrona nel caso in
cui il progetto non andasse in porto. Gli stessi che per abitudine non
accettavano mai gli inviti alle riunioni, nel caso qualche impegno più
importante li tenesse occupati (ma quale impegno poi?), qui erano i primi a
sollecitarle, a fare domande, a tergiversare sulle colpe dei ritardi, a dire e
non dire se una parte di progetto veniva rilasciata nella prima fase o nella
seconda o nella terza. Di fronte a loro sedevano i carnefici, coloro che
guardavano di sottecchi, con gli occhiali abbassati sul naso e gli occhi
sfuggenti, mormorando parole come “ritardo”, “non si fa”, “non ci stiamo”...
deponendone una ogni tanto, con il ritmo cruento di un gong che ad uno ad uno
suona i rintocchi delle campane a morte.
Uscii dalla saletta dove si
respirava odore d’incenso e oli per ungere i defunti. Respirai a pieni polmoni
e ascoltai silenzioso il mio interlocutore che mi spiegava per filo e per segno
di quale posizione si trattasse. Cominciarono a spuntare le ali ai piedi ed io
con loro iniziai a volare verso Londra, a sognare un nuovo lavoro, nuovi
colleghi, un nuovo ambiente dove poter ricominciare, senza quel fardello che
ultimamente stava diventando opprimente. Mi stavano fissando un colloquio...
oddio una penna! Fermai il primo collega che passava e segnai sulla mano data,
ora e luogo del colloquio. Fosse stata una collega, forse l’avrei baciata dalla
felicità.
Mi precipitai da Pericle e lo
implorai di uscire a bere un caffè. Dovevo parlarne con qualcuno. Mia moglie non
poteva ascoltarmi: quella mattina era in ospedale per alcuni controlli. Dovevo
parlare, dovevo esprimere a qualcuno la mia felicità. Pericle era l’unica
persona fidata.
Il primo colloquio fu a Milano. Per
caso la società era il partner con il quale stavo lavorando al mio progetto. Per
caso uno dei dirigenti della società si trovava per lavoro in Italia. Per caso
sapevo che il contratto con tale società contemplava una clausola per la non
distrazione reciproca del personale. Le cose erano complicate, ma a me questo
non spaventava. Uscii a cena con questo dirigente: ci piacemmo subito. Lui era
una persona abbastanza spiccia e schietta come lo sono io. I nostri obiettivi
si incontravano. La mia esperienza serviva loro. Forse la mia richiesta
economica era più alta di quello che avevano in mente, ma si sarebbe visto in
futuro. Il prossimo passo sarebbe stato andare a Londra a fare un colloquio.
Da quanto tempo non andavo a Londra?
Un mucchio. L’immagine del bus a due piani rosso con la scritta enorme
“EMPLOYEED” mi venne in mente e scoppiai a ridere per la mia stupidaggine: a
volte la felicità fa dei brutti scherzi...
Quando tornai a casa mia moglie
mi aspettava sveglia, a letto. Entrai in camera e vidi il suo viso sottile
trasformarsi in un grosso punto interrogativo. Il “Ciao” le morì in bocca. Non
aveva il coraggio di chiedermi nulla e così anticipai qualsiasi sofferta
domanda: “Vado a parlare a Londra con i capi”. Non sono sicuro di quello che le
passò negli occhi. Non sono sicuro se fu un lampo di tristezza o di felicità,
perchè in fondo tra di noi molte cose erano cambiate e negli ultimi tempi non
riuscivo ad interpretare sempre il suo stato d’animo. Qualunque sentimento
fosse stato era perfettamente credibile: tristezza per un marito che va a
lavorare via, felicità per il raggiungimento di una piccola tappa
nell’obiettivo che mi ero dato. Se fosse triste per sé e per noi o felice per
me non so. Ci abbracciammo senza dire nulla e prima di coricarmi al suo fianco
passai dalla cameretta di Sofia. Avrei dovuto dirglielo prima o poi e quella
sarebbe stata la parte più difficile.
Verso fine ottobre mi fu fissato
il colloquio a Londra. Presi un giorno di ferie e mi recai di mattino presto in
aeroporto. Era dai tempi dell’ultima fusione, quella che aveva portato ciò che
scherzosamente chiamavano “la calata dei barbari francesi” , che non andavo
all’estero. Quella mattina mi infilai in una fila di sedili grigi e verdi, mi
sedetti vicino al finestrino e mi addormentai dopo aver spento il cellulare.
La Londra fuligginosa di smog mi
accolse come fosse stato ieri che l’avevo lasciata l’ultima volta. Sembrava
un’amante che non abbandona il letto dove hai fatto l’amore e ti aspetta lì per
ricominciare. Eppure la Londra che avevo di fronte sembrava sciatta e sporca,
meno attraente di quando c’ero stato l’ultima volta in estate. Presi il metro
fino a destinazione e mi ritrovai nell’ingresso che, se fossi stato assunto,
avrei conosciuto nel tempo sempre meglio. Sorrisi alla receptionist, pensando
che nel giro di qualche mese avrei potuto vederla e sorriderle ogni giorno e
lei mi chiese gentilmente di aspettare che l’assistente del direttore del
personale scendesse a prendermi. Non mancò molto e una dolce signorina
orientale vestita in un tailleur grigio antracite mi invitò a seguirla nei
dieci piani di palazzo dove la società brulicava di dipendenti. Fui portato
innanzi alla Corte che avrebbe deciso il mio destino ed in realtà la regalità
si sciolse quando l’assistente lasciò la stanza ed il direttore si rivelò un
uomo cordiale ed affabile. Un’ora. Chiacchiere, curriculum e speranze. Sogni e
aspettative si intrecciarono alle esigenze di quell’uomo, che aveva una visione
molto chiara del suo lavoro e sapeva esattamente cosa poteva servirgli. Mi
rivelai il pezzo mancante del puzzle che stava costruendo e me lo disse in modo
assolutamente schietto: “Trattiamo l’offerta”.
Uscii dalla stanza con ali molto
più grandi e telefonai subito a mia moglie. “E’ fatta, Cri!” le dissi e il mio
entusiasmo fu smorzato soltanto dal non poter vedere il suo volto per
interpretare il suo stato d’animo in quel momento. Oramai annegavo nei progetti
di vita fuori dal mio solito mondo e mi proiettavo in un futuro che finalmente
sapeva di gocce di felicità.
Novembre
Dopo qualche giorno dal colloquio
mi ricontattò il cacciatore di teste. Fu come un pezzo di cielo che si stacca e
ti crolla addosso quando pensi che al tuo dito manchi poco per sfiorarlo e
rubarlo per sempre. “La società non accetta la sua proposta economica”. Queste
le sole fredde parole di una mail, che conservo ancora a monito di quanto le
cose possano cambiare all’improvviso. Quello era il mio prezzo. Quello era il
mio valore... cosa voleva dire? Che non valevo abbastanza? Cosa pensavano? Che
io potessi trasferirmi a Londra, vivere da solo, tornare quasi ogni weekend a
casa da mia moglie e mia figlia sopportando in primis i costi?
Qualcuno mi fece una domanda
impertinente. Perchè lo fai? Per allontanarti dalla tua famiglia? Per trovare
davvero soddisfazione nel lavoro?
A quella domanda pensai molto in
quei giorni. Dovevo dare una risposta al mio cacciatore di teste, che non
voleva solo la mia testa: mi stava chiedendo l’anima.
Perchè lo facevo? Non amavo più
mia moglie e quello era forse il modo più pulito di chiudere tra di noi,
scegliendo di vivere ognuno la propria vita lontano dall’altro? Io avrei potuto
ricominciare: una vita da un’altra parte, un’altra casa, un altro lavoro. E nel
frattempo avrei potuto mantenere mia moglie e mia figlia. Era questo? Una
banale scelta di comodo che non tutti possono permettersi?
Mi guardai un giorno allo
specchio, negli occhi, cercando la risposta più sincera che la mia anima potesse
rimandarmi e fu violenta. Fu la violenza di un “Io amo mia moglie e mia figlia
e lo faccio per loro”. Schizzò sulle pareti del bagno come sangue da una ferita
profonda ed io stesso mi sentii ferito dentro di me per averne forse dubitato
un attimo. Facevo tutto questo per loro: accettavo di cambiare città e lavoro
nel pieno dei miei anni per poter portare a loro di più, per poter un giorno
tornare in Italia e sapere di aver dato il massimo che potevo in quegli anni.
Sarebbero stati anni bui, tristi. Sapevo che avrei lavorato come un pazzo fino
a sera tardi, perchè comunque non avevo nè festicciole di compleanno alle quali
accompagnare Sofia, nè incontri a scuola che mi potessero distrarre. Sarei
rincasato tardi e avrei cenato da solo. Sarei andato a dormire senza fare nulla
la sera, per poi ricominciare il giorno dopo. Per un giorno, un mese, un anno.
Non importava il tempo. Lo avrei fatto per tutto il tempo necessario a
riguadagnare la stima che forse un po’ avevo perso ai miei occhi più che ai
loro. E insieme a loro forse avrei salvato anche me e la dignità che credevo di
avere perso negli ultimi anni di lavoro.
Contattai il cacciatore. Gli
confermai che potevo scendere. Gli diedi un tetto massimo e nel giro di due
giorni mi richiamò. C’è l’accordo. Unico punto da sistemare: la clausola
contrattuale che io stesso avevo trattato e che mi impediva di licenziarmi per
essere assunto da quella società, senza l’accordo dei miei responsabili.
A questo punto dovevo scegliere
quando parlarne. Il passaggio in produzione era imminente. Dovevo aspettare e i
miei nuovi responsabili erano d’accordo: il cliente innanzi tutto. Avevo il
tempo di meditare la mia posizione, di posizionare ogni parola al suo posto per
il colloquio con la responsabile del mio capo. Avevo deciso che sarei andato
dritto a lei, perchè è da lei che erano mosse le prime promesse non mantenute.
Il giorno del passaggio in
produzione non venne quando era stato prefissato. C’erano talmente tanti
problemi che l’avevamo rinviato. Non mi sentivo più a mio agio nel mio castello
solitario. Avevo un confidente, il buon vecchio Pericle, al quale confessavo i
miei stati d’animo e che stavo ad ascoltare quando facevamo ipotesi sul modo di
dirlo, sulle possibili reazioni, sugli scenari ipotizzabili.
Eppure non stavo più nella pelle.
Oramai era come se fossi proiettato avanti, lontano dal mondo del mio
quotidiano. Facevo progetti nei quali mi perdevo con la testa, cercavo di
capire come affittare una casa, in quale quartiere, le spese che avrei
affrontato. Cercavo di immaginarmi i sentimenti che avrei provato, le persone
che mi sarebbero mancate e quelle che sarei stato contento di non vedere più,
le persone nuove con le quali avrei lavorato, i posti che avrei visitato.
Non ero più a Milano, ero già
via, tranne che per i momenti che passavo in famiglia. Quelli erano forse i più
duri. Mi capitava a volte di soffermarmi sul volto di Sofia, mentre lei era
seduta al tavolo e faceva i compiti e pensavo a quante volte quel viso mi
sarebbe mancato e se ne avrei pianto. Pensavo alle recite, ai canti, ai giochi,
ai colloqui con le maestre, alle gite nei parchi, alle sciate ed alle corse con
i pattini. Quanto avrei perso? Sarei davvero riuscito a tornare ogni weekend e
quanto di cinque giorni di vita io avrei potuto recuperare in due soli giorni?
Dicembre
Il progetto fu rinviato ancora un
giorno in cui una forte nevicata ricoprì la città. Io ero lì in prima linea,
con i fucili puntati contro in caso di errore , unica vittima da immolare in
caso di fallimento. Quel giorno molti arrivarono in ritardo ma nel primo
pomeriggio erano tutti lì ad ascoltare i numerosi problemi che ci portavano ad
escludere un passaggio in produzione prima del 22 dicembre.
Avevamo finito da poco quando la
responsabile del mio capo mi chiamò nel suo ufficio. Fu come un impulso
improvviso che nasce deciso dentro di te e trova strada. Le parlai a cuore
aperto. Le raccontai delle aspettative che avevo, delle promesse che mi aveva
fatto e del modo in cui una per una esse erano state disattese. Le raccontai
dell’opportunità che avevo e di come intendevo coglierla, con una decisione ed
un impeto pronti a stroncare qualsiasi opposizione. Non ci fu opposizione, ma
una resa incondizionata che quasi la portò a stringermi la mano per
complimentarsi con me del mio successo. Era fatta, pensavo. Dovevamo decidere
solo quando.
Non si ha idea a volte della
perfidia e del fiuto perverso degli affari che hanno certe persone, se non
quando ci sbatti il naso contro. La mia responsabile ed il direttore vollero
condividere con il nostro amministratore delegato la scelta di rilasciarmi e a
lui fu sottoposto il mio caso.
Fino a quel momento quella storia
era stata solo mia e delle persone alle quale avevo scelto di raccontarla,
perchè avevo bisogno di sfogarmi, perchè avevo bisogno di un consiglio, perchè
erano parte in qualche modo della mia vita e volevo fossero parte, attiva o
passiva, anche di quella mia decisione. Ebbene, da quel momento in poi quello
fu “il caso” asettico di un dipendente che voleva licenziarsi per andare da un
fornitore con il quale avevamo del business. Il dipendente non ero più io. Il
fornitore non era più il mio futuro datore di lavoro. Il business non era più il
mio progetto. Mi stava sfuggendo tutto dalle mani e non potevo farci nulla. Mi
era stato chiesto di mantenere il giusto grado di riservatezza sulla questione,
non avrei dovuto parlarne nemmeno con il mio capo.
I giorni passavano e non sapevo
nulla. La responsabile era sfuggente, si capiva che quando la cercavo per
chiederle un aggiornamento lei ne era infastidita. Stavo diventando un problema
per lei, stavo diventando un possibile motivo perchè potesse essere attaccata,
quindi dovevo starle alla larga e lasciare che avesse campo libero per agire
nel suo interesse. Perchè il bello è che nella situazione estrema nella quale
ci sono tutti contro tutti, ciascuno pensa ovviamente solo alle conseguenze che
ogni piccolo evento avrà sul suo perimetro. Solo tra pochi desaparecidos come
me si sentono telefonate nelle quali ci si fa i complimenti per un bel lavoro
svolto o per una bella presentazione. Quelle sono solo piccole chicche di un
mondo lavorativo ideale che so di non avere più qui, ma che spero di trovare
lassù dove sto per trasferirmi.
Fu appena prima di Natale che la
responsabile entrò nel mio ufficio e mi chiese di raggiungerla in una sala
riunioni. La seguii. Poche parole: “trattiamo”. Mi crollò il mondo addosso.
Pensai al peggio, pensai che volessero spingere la trattativa per la mia uscita
fino a fare rinunciare la controparte. So che se avessero voluto, avrebbero
potuto giocare scorretto e non me ne sarei meravigliato. In fondo, io ero
quello che serviva a portare a fondo un progetto nel quale sia il cliente che
il fornitore avevano tutto l’interesse a riuscire.
Me ne tirai fuori. Non volevo
sapere come venivo trattato al pari di una merce di scambio. Non volevo
conoscere il mio valore sul mercato, barattato con qualche giornata di supporto
o qualche licenza. Le chiesi solo di dirmi quando fosse finita quella
trattativa e pochi giorni dopo arrivò il responso: “abbiamo chiuso e esci a
fine gennaio”.
Ero libero. Mi avevano sciolto le
catene ed ora potevo volare. Potevo lasciare a terra il peso di quei due anni
di sangue sputato amaramente e librarmi nelle speranze di un lavoro migliore,
nonostante le difficoltà che si ponevano per raggiungere quell’obiettivo.
Natale era vicino. Lavoravo come
un matto di giorno, non avevo previsto ferie perchè il progetto potesse essere
portato a termine. Facevo tardi la sera e dovevo sorbirmi le frasi bastarde di
incoraggiamento del mio capo, che alle nove di sera, dopo dodici ore che ero
fisso al computer, insieme a tutti quelli del mio gruppo, si presentava
gagliardo a dirci che dovevamo mettercela tutta e fare uno sforzo in più. Non è
mai stato una bravo manager. Non è mai stato una manager. Un manager prova
empatia per il suo gruppo, si fa riconoscere, ne è leader. Lui terrorizza i
componenti del suo team al punto che non esce di bocca una frase che non sia
validata e vistata. Io non ero abituato a vivere nel terrore, nè mi sono
lasciato trascinare da lui: ho fatto sempre professionalmente il mio lavoro,
senza piegarmi a nessun compromesso. Non l’avevo mai particolarmente
apprezzato: a questo punto non lo seguivo più. Mi faceva quasi pena: era stato
lasciato fuori dalla scelta di tenermi o lasciarmi andare. Non gli era stato
chiesto nulla e non era stata informato nemmeno del fatto che mi stava
perdendo. Un duro colpo all’orgoglio che solo una persona come lui, senza
sentimenti almeno in apparenza, potrebbe reggere con la sua indifferenza.
Eppure, per lui, spero che gli serva di lezione a comprendere quanto piccoli
siamo e appaiamo agli occhi di chi è più in alto di noi.
Appena prima di Natale la notizia
si diffuse come un boomerang. Avrei voluto sussurrarla io alle persone alle
quali avevo “voluto bene”, a quelle che mi avevano supportato, sopportato, aiutato
o che io avevo aiutato a crescere. Invece no, fu un pettegolezzo da palazzo che
si diffuse la vigilia di Natale “dal Manzanarre al Reno”. Non importa come lo
seppi. Mi spiacque e basta.
Natale lo passai con la mia
famiglia. Mia moglie e mia figlia. Le uniche due persone che valeva la pena
avere affianco in quel momento, le uniche che volevo sostenere finchè potevo.
Forse nessuno di noi si era reso conto fino ad ora di cosa volesse dire questa
avventura e nemmeno adesso che sto raccontando quel che ho vissuto io stesso me
ne posso rendere conto. Fu una bella sera, quella di Natale, talmente bella che
vale la pena che resti chiusa tra le quattro pareti del cuore di chi c’era.
Gennaio
Il mese di Gennaio fu un inferno.
Oramai tutte le persone che lavoravano con me sapevano della mia scelta. Non so
se fosse per invidia o per rabbia, ma mi trattavano come qualcuno che
appositamente faceva delle cose sbagliate. Pensavano non me ne fregasse più nulla
del lavoro e non si rendevano conto invece di quanto in realtà io ci tenessi a
lasciare le cose ben spolverate, riposte sugli scaffali, in ordine per chi mi
avrebbe seguito.
Avevo ripreso i periodici caffè
con il mio amico Pericle, la mattina, quando arrivavo a Milano, ma eravamo
oramai in due sedi diverse, perchè la società si stava trasferendo e potevo
contare sempre meno sulla sua spalla per piangere. Così il caffè della mattina
era l’unico momento della giornata nel quale mi sentivo un po’ a casa, un po’
protetto. Per il resto ero nell’arena e dovevo balzare da una parte all’altra
per non essere infilzato dalle corna dei tori.
A parte il lavoro il resto era
una frenesia unica: documenti, ricerca della casa, visti, elenchi di cose da
fare e da portare. Con la colonna sonora della tristezza che suonava il
silenzio come nelle caserme.
Io non c’ero con la testa. Credo
di essermi assentato di frequente in quei giorni. Mi capitava di fermarmi e
scoprire che stavo cercando di immagazzinare più ricordi possibili: fotografavo
i visi, registravo le voci, segnavo i sorrisi nel cuore. Non sapevo se e dopo
quanto tempo avrei rivisto quei volti, ma ero certo che sarebbero stati il mio
pane quotidiano soprattutto nei primi giorni.
E più di tutti cercavo di godere
la mia famiglia, mia moglie che sembrava indurire il cuore sempre di più per
non soffrire e non farmi capire che soffriva; mia figlia che giocava a fare l’indifferente
con le lacrime che riusciva a trattenere con una encomiabile forza di volontà.
Era stata fin troppo brava nei mesi passati ad alleggerirmi del peso di questa
decisione: forse le sembrava quasi un gioco, un nascondino dove il papà non c’è
per un po’ e poi salta regolarmente fuori il weekend.
Lungo il fiume.
Adesso sono qui in aeroporto. Ho
passato tutti i controlli e sono da solo. Le immagini che ho immagazzinato
iniziano a scorrere, nel cuore non sento niente, forse perchè sto tenendo a freno
tutta la potenza emotiva che c’è in me. Credo di temere il momento nel quale
scoppierà perchè sarà davvero violenta. Hanno chiamato il volo. Pronti al gate.
Il numero 16. Si dice che il 16 porta fortuna, giusto? Ne ho bisogno... entro
nel tunnel che mi porta all’aereo. Non ho bagaglio per me, l’ho caricato tutto
nella stiva. Ho solo una piccola borsa con dentro alcune foto che Sofia ha voluto
darmi senza mostrarmele prima. Erano chiuse in una busta con la scritta “Per
papà” fuori. Era la sua calligrafia. Anche quella mi sarebbe mancata... Le
guarderò appena seduto: la promessa era di guardarle in aereo, non prima.
Entro. Una hostess gentile mi fa
strada al mio posto. Parla solo inglese e del resto l’aereo è della compagnia
di bandiera inglese. Devo abituarmi, all’inglese intendo, anche se Londra è
piena di immigrati italiani, mi dico. Sorrido al pensiero di definirmi “immigrato”.
Tanti anni fa, mezzo secolo fa, sarei stato un “immigrato”. Adesso posso
definirmi con orgoglio un “lavoratore comunitario”, anche se la Gran Bretagna
fa un po’ le bizze con la Comunità Europea. Mi guardo in giro. Ci sono tanti
uomini con la valigetta. Io ho la mia borsetta con i documenti principali che
mi servono per cominciare ed un piccolo lettore mp3. Oltre alle foto di
Sofia... ovviamente.
Mi siedo, allaccio la cintura e
apro la borsa. Chissà se Sofia mi starà pensando adesso. “Piccola, sto aprendo
le foto...”. Sono varie fotografie, nove, una per ogni anno di vita di Sofia.
Le guardo una per una, ricordo i momenti nei quali le ho scattate: appena
allattata, i primi passi, la festa dell’asilo nido, il primo giorno di scuola
materna, il primo dentino che cade, la festa dei remigini, il quaderno di
scuola, un’estate al mare e l’ultimo Natale. Dietro ognuna una frase, sempre la
stessa “Ti voglio bene. Pensami, papà. Sofia”. Mi soffermo e trattengo le
lacrime. Mi rende tutto più facile la partenza dell’aereo. Metto via le foto,
chiudo la borsa, attacco la mia musica. Scelgo “Airplanes”, la canticchio per distrarmi, mi addormento un po’.
Il messaggio del capitano all’arrivo
mi risveglia dal torpore. Sono arrivato. Comincia qui la mia avventura. Quando
esco dall’aereo e mi infilo nel tunnel mi sembra di non essere mai partito nè
arrivato. Passo a prendere il mio bagaglio. Esco e il freddo pungente mi prende
alla gola. La fuliggine intorno mi fa tossire.
Sono a Londra, ma il mio arrivo è
solo il punto di partenza.
Un mio vecchio capo mi diceva
sempre “Sto qui seduto in riva al fiume ad aspettare che passino i cadaveri”.
Io non ce l’ho fatta a rimanere fermo a guardare. Ho passeggiato lungo il fiume
ed alla fine ho deciso di attraversarlo a nuoto. Ci metterò tutte le mie forze
e non mi importa se le acque saranno mosse o fredde: io sono sicuro di farcela,
perchè so di non essere qui da solo.
E so di farcela perchè questa è
la città dei sogni, la città dei miei sogni...
Can we pretend that airplanes
in the night sky
are like shooting stars
I can really use a wish right now
(wish right now)
(wish right now).
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