E’ una domenica uggiosa, la pioggia ticchetta gocce sopra il davanzale della finestra. Mi sento stanca, come se avessi addosso una stanchezza di mesi di insonnia. Forse è il dolore che mi sfianca, che lavora dentro di me succhiandomi le forze, impercettibile quando non si trasforma in lacrime e sussulti. Sono sdraiata sul divano e gli occhi lentamente si chiudono, lasciando scivolare la mente indietro nel tempo, verso il parcheggio ai bordi della statale per Nemi.
Sono scesa dall’auto e mi sono incamminata verso l’ingresso. Il sole era alto nel cielo privo di nuvole e si godeva il suo profondo azzurro. L’aria era fresca ma non fredda. Un leggera brezza carezzava le guance senza infastidirle. Deglutivo l’aria per fermare le lacrime. Non volevo piangere. Dovevo essere forte. Non per me. Per gli altri.
Mi incamminai sul sentiero attraversando un arco bianco e volsi lo sguardo verso destra. Ero su una collina che si tuffava lentamente nel blu del lago. Piccole casette, addossate l’una all’altra, degradavano verso il blu. Mi rammaricai del fatto che chi vi abitava non poteva più godere di quella bella vista, finché non sopraggiunse il pensiero che, in fondo, a loro non poteva importare più nulla.
Mi colpivano i colori. Il viola, il rosa, il giallo.
Cambiavano velocemente, di metro in metro. Violette, margherite, rose, violacciocche, orchidee, gerbere. Qualche mimosa, forse in anticipo rispetto alla stagione. E il profumo un po’ mi stordisce mentre cammino, si fonde con il vento, mi accarezza.
Guardo i nomi che si alternano sulle case. Leggo le date che si alternano di casa in casa e mentalmente calcolo le loro età. Non c’è regola. A volte solo una sequenza casuale, giorno dopo giorno, sotto chi capita. Letteralmente “sotto” a volte, “sotto” terra chi capita.
Guardo i visi che spuntano da quelle che immagino come finestre. Non ci sono tendine da spostare e chi guarda è solo chi sta fuori. Occhi che sorridono, sguardi che sono fermi nel tempo e rimarranno incastonati in quel ricordo per sempre. Mi colpiscono mentre li sfioro con lo sguardo.
Poi mi soffermo. Mi fermo. Una casa diversa, grande, a forma di cuore, con un pavé di piccole pietre colorate, ora rosa, ora azzurre. Sembra la casa di un bambino, ma in realtà, non devo nemmeno fare i conti, era un ragazzo di ventotto anni. Uno snowboard da un lato. Due o tre foto. Un sorriso. Un nome e la sua età. Sullo stesso pavé una panchina colorata ed una donna seduta, che vedo di spalle. Una madre ferma, con lo sguardo fisso in una delle foto, perso in anni di ricordi.
Inizia a fare male il cuore. Quanto dolore in quell’immagine. Quanto dolore dentro quel piccolo quadro esposto sotto un sole caldo di febbraio, sulla collina che digrada verso il lago di Nemi. Che contrasto tra quel dolore così sordo ed il rumore del vento. Soffia senza rispetto il vento su quella collina. Scompiglia i capelli e ti fende il viso rendendo più fredde le lacrime. Penso al mio dolore di figlia e per quanto il dolore non si possa misurare, penso che il dolore di quella madre sia più intenso. Penso alla vita che ha ricevuto in dono e che ha dovuto restituire. Vedo l’immagine di Abramo che sta per offrire il figlio Isacco al Padre. In quel caso il Padre lo ha fermato. Qui no. Quella madre ha compiuto il sacrificio e ha offerto il figlio. Ora giace lì anche lei affianco al figlio. Giace morta pur essendo viva. Fa troppo male il cuore di fronte a quel quadro: i miei passi mi portano via.
Attraverso il corrodio che dalla zona nuova spinge nella vecchia. Me ne rendo conto dal cancello di bronzo che mi si para di fronte appena prima di voltare sulla sinistra. Campeggia sul cancello una grande stella di Davide. Strano a vedersi e la curiosità finisce per sopraffare il dolore e mi avvicino a quel cancello chiuso. Sembra quasi dire “Qui non si entra se non credi in un certo modo”, ma qualcuno, un Grande del teatro diceva “La morte è ‘na livella”. Non importa in cosa e in chi hai creduto. Alla fine, siamo tutti uguali. Vorrei aprire quel cancello ma vado via. Ho un appuntamento importante.
Mi sfiora il pensiero di quando accadrà a me. Mentre riprendo il mio cammino provo a pensare dove mi piacerebbe riposare: sotto terra, sicuramente. Un solo fiore, una gardenia, con le sue foglie verdi e lucide e i fiori bianchi e profumati. Nessuna foto. Meglio i ricordi.
Arrivo nella piccola cappellina dove ci sei tu. Mi aggredisce il profumo delle rose. Sei lì, nella tua bara di ciliegio, ma devo immaginarti, perché oramai non sei più una presenza certa. Sei dovunque ma non davanti a me. Sei intorno, nell’aria fresca che respiro, nel vento che mi accarezza la testa, nel profumo che solletica le narici, negli occhi che lacrimano e nella mano che sfiora il legno. Nel dolore che trafigge il cuore, nel ricordo che spinge la lama al suo interno, nel sorriso che ricordo bonario mentre dalla poltrona mi parlavi, nel bacio che la sera affondavi nella mia pelle, nei moniti che mi davi da ragazzina quando uscivo di casa, nella voce stanca al telefono, negli occhi stanchi e storditi degli ultimi giorni, nella mano che stringeva la mia, nel dolore del tuo volto appena spirato, nello sguardo sereno del riposo.
Stacco una rosa tra le lacrime, la libero dal profilo di ferro che la teneva incatenata insieme alle altre. Libero qualche petalo che lascio scivolare sul legno come se potesse accarezzarti il viso. Lascio un bacio nella speranza che possa volare a te, mi volto e vado via.
Sta tramontando il sole. L’aria è più fredda. Il cuore è perso nel dolore oramai muto e senza lacrime. Stringo la rosa, ma non mi punge. La lacrima scende dal viso ma non mi bagna. Sono altrove, sono in un posto dove non c’è più nulla. Mi dicono che all’inizio pensi agli “ultimi” momenti belli che hai trascorso: l’ultimo anniversario, l’ultimo compleanno, l’ultima festa. Poi iniziano i “primi” momenti brutti: il primo Natale, il primo anniversario, il primo.. senza di lei. E’ così… Mi dicono che da quel dolore si esce, che quel dolore diventa forza e ti sostiene. Faccio fatica a crederlo in questo momento. Mi dicono che ci vuole tempo per riguadagnare il sorriso. Ma credo di non poterci riuscire mai. Mi dicono che ogni tanto mi sentirò anche in colpa perché un sorriso mi scapperà ed io sentirò di non aver rispetto per te solo perché ho saputo sorridere di nuovo. L’ho provato. E’ davvero così.. Mi dicono cose che non sento. Sento solo un vuoto. Un vuoto terribile. Un vuoto che si fa più profondo quando vorrei telefonarti e mi rendo conto alzando il telefono che non posso più farlo. Un vuoto pieno del silenzio che risponderà alle mie domande, quando avrò voglia di fartele.
Poi ricordo che ti ho promesso di non piangere. Mi lecco le lacrime come fossero ferite. Faccio finta che siano lacrime per il vento che ora spinge freddo nei miei occhi. Ecco il pavé di pietre.
Ecco la madre. Quanto è più profondo il suo dolore rispetto al mio? Non so se esista un modo per misurare il dolore. No. Non c’è. Il dolore è dolore e basta.
Attraverso l’arco e torno al parcheggio. Apro lo sportello, resto a guardare il lago, do’ un bacio alla mia rosa, sorrido, l’appoggio sul sedile, accendo il motore e parto.
Vorrei restare qui con te, ma devo tornare alla vita.
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