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4 apr 2011

La bambina che visse due volte - Carolina De Robertis

Primo gennaio 1900. Il primo giorno del secolo non è mai come gli altri, men che meno a Tacuarembó, minuscolo villaggio del Sudamerica. La folla è radunata intorno all'albero più grande del paese e non crede ai propri occhi: la piccola Pajarita è tornata. Rifiutata dal padre, era scomparsa pochi mesi dopo la nascita e l'avevano data per morta. Eppure ora è lì, in cima, appollaiata sopra un ramo sottile. Ha un anno ormai e negli occhi grandi, neri e vivaci, ha la stessa luce di quando è nata. Per alcuni si tratta di un miracolo, per altri è una strega, ma una cosa è certa: d'ora in poi per tutti Pajarita sarà "la bambina nata due volte", una ragazzina circondata di mistero, con un talento speciale per curare con le erbe. Un dono prezioso che anni dopo, ormai donna fiera e determinata, le permette di sopravvivere a Montevideo sola contro tutti, insieme ai propri bambini. Ma la figlia Eva, fragile e tremendamente testarda, vuole realizzare un sogno, diventare poetessa. E per farlo fugge, verso le luci di Buenos Aires, la città che scintilla delle promesse di Evita Perón. E mentre i fermenti rivoluzionari attraversano con forza tutto il continente, spetta a Salomé, l'ultima discendente, restituire alle donne della sua famiglia e del suo paese quello che meritano. Dalle lussureggianti e incantate colline di Rio de Janeiro ai vicoli oscuri di Montevideo, dalle strade scintillanti di Buenos Aires fino alle piazze rivoluzionarie di Cuba, la storia di tre generazioni di donne indimenticabili.

La vita di tre donne nell'arco di un secolo. Pajarita, che tiene unita la famiglia con il suo carattere forte. Eva, che dopo essere sfuggita all'amico del padre che abusava di lei, diventa poetessa affermata. Salomé, la figura più lirica, a mio avviso, guerrigliera dei tupamaros, che vivrà l'esperienza più drammatica: il carcere durante gli anni della rivoluzione.

Montevideo

Monte. Vide. Eu. «Io vedo una montagna» aveva detto un portoghese, il primo europeo ad avvistare quelle terre dal mare.

Pajarita



[…] Lei posò il mestolo. Guardare Artigas era come guardare nel pozzo del passato. Sai di non poterne vedere il fondo, ti senti respinto dall’eco, ma guardi lo stesso. A caccia d’ombre. Nella speranza che una monetina caduta catturi un raggio di luce. «Avevi promesso di scrivere». «Lo so, mi dispiace.»



Era sincero. Volendo, Pajarita avrebbe potuto chiudersi completamente e tenersi dentro tutti i suoi nodi. Ma che temporale, che notte scura, che cioccolata bollente quella che aveva tra le mani! Era venuto il momento di liberarsi dei lacci, di srotolarsi, di aprirsi a quella cucina con i suoi vasi d’erbe, al miracolo dei bambini che dormivano sani e salvi nei loro letti, all’uomo dalle mani magiche che tanto tempo prima l’aveva chiamata a salire su una pista da circo e che si era strappato e ricucito e adesso le inviava silenziose domande dal suo letto, ad Artigas, tornato dal mondo dei morti e che ora la guardava con quegli stessi occhi che, secondo la leggenda, avevano saputo convincere una bambina a lasciarsi cadere giù da un albero.



[…] Eva spostò il peso dalla gamba destra alla sinistra, poi di nuovo alla destra. Roberto diede due colpetti sul vetro, tak tak. Naturalmente mamma l’avrebbe ripresa, come se la famiglia fosse un telaio e lei un filo caduto. Pajarita era convinta che le sue mani avrebbero potuto filare e annodare anche sua figlia al posto giusto, e che il tessuto avrebbe formato un tutto unico e che quel tutto unico li avrebbe avvolti e tenuti insieme, morbido, soddisfatto, come se nel mondo non esistesse nemmeno un dannato paio di forbici.

[…] [Pajarita] masticò molto lentamente. La stanza taceva. Dalla soglia Salomé vide il suo sguardo, limpido, fare il giro della stanza fermandosi su ciascun membro della sua grande famiglia, mamma, Abuelo Ignazio, con la mascella rilasciata come un cucciolo abbandonato, ancora mamma, poi lei stessa, con un’espressione inquietante e intensa in cui Salomé riconobbe non solo la Pajarita la ragazzina e Pajarita la leggendaria neonata, tutte insieme in quegli occhi marrone scuro che giravano attoniti per la stanza. «Ah», disse Pajarita e chiuse gli occhi. Il cuore smise di batterle nel sonno.



Eva



[…] Passarono i giorni. Le settimane. Eva conobbe l’interno di un’infinità di scarpe. Imparò a raschiarsi via dal momento presente come una lumaca dal guscio, riponendo le sue parti intime e delicate in grotte di pelle e lasciandosi dietro tutto quanto il resto, abbandonato a una morte lenta. A volte le risultava facile, altre meno. Di notte sognava di precipitare nel buio, squarciata dal lungo, infinito tacco di una scarpa da donna. In fondo a ogni settimana incombeva la domenica, con la temuta visita al confessionale. Ora che poteva di nuovo camminare era costretta a inginocchiarsi e a inventare peccatucci innocenti, fingendosi una ragazzina normale con un’anima normale e problemi normali. Era peccato, sicuramente un peccato capitale, mantenere il segreto su quello che le stava capitando e ciò nonostante nutrirsi del corpo di Cristo, ma padre Robles imponeva penitenze severe anche a chi si distraeva in classe o prendeva una fetta di torta più grossa di quelle degli altri, figuriamoci cosa avrebbe inflitto a lei. Anche se una volta alla carnicerìa, la Viuda aveva detto che Dio vede sempre e comunque tutto. Se c’è qualcuno che può sopportare la verità, quello è Dio.



[…] «Non so se scrivo poesie o se siano loro a scrivere me. A volte ho l’impressione che tutto quanto… si trasformi in poesia. E’ un tormento. Non riesco a respirare finchè non ho scritto.»



[…] Quando ebbe in mano la prima copia, Eva pensò ad una bambina che aveva dovuto lasciare la scuola a undici anni e desiderò poter allungare la mano attraverso il tempo per aprirglielo davanti agli occhi. Quella bambina respirava nella pagine del suo libro insieme a tutte le bambine, le ragazze e le donne che lei era stata, e che seguivano di soppiatto le file di parole come fantasmi: si aspettava quasi di sentire la carta inumidirsi per le loro esalazioni costanti. Non le importava se a leggere il suo libro sarebbero state due persone o duemila: per lei era lo stesso. Il libro esisteva, lei esisteva, e aveva cantato.



Salomé



[…] Salomé le disse «tutto ciò che scompare è da qualche parte», come se la fisica avesse potuto far tornare indietro il tempo e salvarle entrambe. Era una massima che aveva imparato a scuola: l’energia non si crea né si distrugge. Niente scompare mai davvero. E siccome anche le persone, in fondo, sono energia, quando non le vedi significa semplicemente che hanno cambiato posto o forma, oppure entrambi. C’è l’eccezione dei buchi neri, che ingoiano le cose senza lasciarne traccia: ma Salomé fece scorrere la penna come se non esistessero.



[…] Le parole sono una stravaganza, non si può mangiare una poesia, lei non era una di quelle ragazze che vivono di caramelle; dammi il solido cibo della tua pelle, della tua bocca, delle tue mani, un nutrimento che possa portare con me attraverso la durezza dei miei giorni. A scuola e durante gli esami e i pasti in famiglia ne tirava fuori qualche bocconcino – le mani di Tinto sulla camicetta, il sapore della sua lingua, il disperato trattenersi del suo respiro – e si concedeva di assaporarlo di nuovo. Ragazza perbene. Ragazza guerrigliera. Doveva farsi d’acciaio per recitare entrambe le parti. Desiderio, paura e piacere dovevano restare sotto la superficie, eccitanti, tormentosi, taciti.



[…] Salomé non poteva parlare del suo futuro, non poteva dire a sua madre della piccola manciata di futuro che aveva tra le mani, dei fucili sotto il materasso, del programma che aveva in mente, delle azioni che portava avanti ogni giorno, roventi, segrete, per il futuro, per il popolo, al trascurabile prezzo del desiderio egoista di studiare di una ragazzina, perché sicuramente gli altri avevano ragione a ritenere quel prezzo trascurabile se si mette in conto la rivoluzione e fuori del conto il banale desiderio di scappare via in pigiama e correre fino all’università e precipitarsi in biblioteca e barricarsi dentro con tutti i libri che vorresti leggere e con cui potresti farti un letto e che saresti pronta a brandire contro chiunque venisse a cercarti fin lì. «Ascolta mamma è un ottimo lavoro. Non sei orgogliosa di me?»



[…] Salomé si immagino nell’atto di versare la speranza… un liquido vischioso, immagazzinato in tini segreti, che si riversava nelle strade, sotto le auto, giù per i tombini, sui ciottoli delle vie, attraverso le pareti, come il porridge in quella fiaba della pentola che non si esaurisce mai.



[…] La volontà di vivere, pensava, è una cosa strana, una bestia indipendente, con denti e misteri tutti suoi, un animale che vive dentro di te, così aggraziato e silenzioso che non ti accorgi nemmeno della sua presenza finché non scappa via, finché non se ne va lasciandoti come un guscio vuoto, o almeno così credi finché non ti ritrovi dentro le sue orme e, proprio là dove meno te lo aspettavi, una tacca sull’anima… Un tempo avevo così tanta voglia di vivere, era qui, proprio qui quella voglia, è qui che aveva il nido prima che non nominarlo me la strappasse, ma non ho forse visto il lampo dei suoi denti, oggi, non era forse qua attorno, vicina, o anche lontana, ma non così lontana da non poter ritornare?



[…] Mamma, quanto vorrei rivederti, mi dispiace da morire, ho scelto di affrontare dei pericoli ma non avrei mai immaginato che potesse accadere una cosa del genere e men che meno avrei voluto farlo a te, qualsiasi cosa la mia assenza ti stia facendo, e ora il fatto più ovvio del mondo mi colpisce come uno schiaffo in faccia, il fatto che tu, tanti anni fa in Argentina, mi hai portato dentro di te e hai provato delle sensazioni e poi io sono nata e tu mi hai sorretto la testa quando ancora non sapevo farlo e mi domando cosa pensavi mentre lo facevi. Se pensavi alla tua, di madre, e a cosa poteva aver pensato e provato mentre ti portava dentro e poi quando sei nata e ti ha sorretto la testa per la prima volta proprio in quella casa in cui abbiamo abitato tutti insieme. E’ strano pensare alla donna che ti ha portato dentro di sé quando tu stessa porti dentro di te un bambino, un quasi-bambino, un futuro-bambino. Non ci sono parole – non in questa lingua, bisognerebbe espandere il linguaggio – per spiegare la sensazione dell’aria cruda, l’improvvisa consapevolezza del fatto che l’utero non ti avvolge più, l’esposizione e la solitudine con cui bisogna convivere dalla nascita in poi. Il calore, andato. Il calore, ricordato. Ricordato o reinventato dalla storia che si ripete dentro di te.



[…] Ormai era in prigione da otto anni, anni in cui il tempo si era allungato e schiacciato come l’aria in una fisarmonica, infinito e insieme contratto. Si impara a vivere così, come un granellino di niente intrappolato in una corrente modellata da forze che non si possono vedere, senza aspettarsi niente, senza stupirsi di niente, cavalcando le buie traiettorie non cartografate di ciascun giorno, contraendosi sotto le pressioni ma senza quasi lasciarsene toccare, dopotutto sei solo un granellino, troppo piccolo per portare cicatrici o per affondare o per intralciare o per dare fastidio o per costituire una minaccia, un granellino solitario sospeso nel brivido dell’ora corrente. Non attirare l’attenzione e il mondo si dimenticherà che sei lì. Perfino tu te ne dimenticherai. I momenti in cui sei viva rappresentano uno shock.



[…] La nonna teneva gli occhi chiusi. Il suo corpo cedeva gentilmente al movimento delle mani di sua nipote. La pelle sembrava fatta di carta, di quella carta fine e sottile attraverso la quale si può vedere l’ombra della mano. Salomé si domandava se anche lei sarebbe vissuta abbastanza da vedere la propria pelle diventare così flaccida e morbida e delicata. Lo desiderava. Se ne rese conto mentre insaponava i fianchi di sua nonna: “Voglio restare qui, in questo mondo, fino a quando anche i miei fianchi non diventeranno fragili, dolenti, coperti di rughe e puzzolenti di urina, finchè qualcuno non verrà a lavarmi, anche così, non importa, io voglio vivere.
Monte. Vide. Eu. Ma Ignazio non vide alcun monte, solo piatte strade di ciottoli.

1 commento:

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