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28 lug 2011

La stanza di cioccolato - Luciano Loccatelli


http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=618538


“Le piccole, grandi vicende di una famiglia non fanno la storia, non quella che va sui libri”.




Se questo libro fosse uno spettacolo teatrale, sicuramente la scenografia sarebbe la variegata e mutevole Storia d’Italia del secolo scorso: il fascismo e il nazismo, la crisi economica del 1929, la nascita della Repubblica, le disillusioni del dopoguerra, il maturare delle ideologie del sessantotto e lo scandalo di Mani Pulite degli ultimi anni del novecento. A tinteggiare di colore questo sfondo, ci sono gli innumerevoli richiami alle consuetudini delle varie epoche tracciate: il concetto di “famiglia” che si evolve nel tempo, il rapporto tra padri e figli, gli amori ed i tradimenti, l’evoluzione della tecnologia, il mondo delle corse, la scuola, le grandi discussioni su aborto e divorzio, le recenti campagne salutiste.

Il quadro storico e sociale particolarmente curato è mediato sempre con maestria attraverso il racconto della vita dei personaggi, che vivono ciascuno perfettamente integrato nella propria epoca, mutuandone gioie e dolori, aspettative e paure. Questo libro vive la storia e la società attraverso la gente, come i libri scolastici non sanno, non possono, non devono fare, attraverso le storie tramandate da padre in figlio, da nonno a nipote, senza necessità di puntuali riferimenti, perché, come l’autore stesso cita nel suo romanzo, nella tradizione orale “la verità viene progressivamente alterata […] ma aumenta la poesia […]“.


La trama è finemente curata. La sequenza temporale degli eventi è il filo che unisce le storie intrecciate dei personaggi, ma ciò che crea tensione nel lettore è l’alternanza delle storie, interrotte proprio nel momento in cui l’autore ha rivelato qualcosa di importante, che spinge il lettore a volerne sapere di più.
Il linguaggio usato è fluido, scorrevole, semplice ed efficace.
A tratti esso si tinge dei toni freschi del dialetto, nelle forme più piacevoli e leggere, mai volgare. Il napoletano filtra nel primo capitolo attraverso forme , che a volte ricordano certi film di Luciano De Crescenzo, quando il “professore” spiega le cose al popolino. Piccole frasi molto efficaci come “il divieto di bis in idem”, “ti ripeto che la stanza è bella assai” riportano la musicalità di quel dialetto che supera i confini nazionali. Il toscano traspare nei racconti su Oscar, con i “tu c’hai la fortuna che il tuo babbo...”, “noi si parla”, “gli è meglio” . Il piemontese fa capolino in qualche passo.

Nel complesso è un grande romanzo, che ricorda alcune indimenticabili saghe familiari di scrittori sudamericani. Stavolta, però, protagonista ne è finalmente l’Italia, con la sua storia, le sue tradizioni e la passione della sua gente. E quel piccolo tocco di fiaba, dal quale il romanzo prende il titolo, riconduce un secolo di storia ad un racconto che non ci si stancherebbe mai di riascoltare, se non fosse che lo speciale narratore ci chiede di lasciarlo “chiudere gli occhi e riposare”.

La storia ed i personaggi

A partire dai primi capitoli entrano in scena due piccoli personaggi: a Napoli c’è Orietta, nipote del Senatore Giuseppe Garigliano, magistrato da tempo in pensione, e a Pisa c’è Enrico, figlio del maggiore Giuliano Gabbianelli. I due bambini entrano in punta di piedi, quasi non ci si accorge che saranno loro i protagonisti del libro. Sembrano personaggi minori, di fronte alle grandi figure rispettivamente del nonno Giuseppe e del papà Giuliano, ai quali è però affidata la prima traccia storica sulle tradizioni familiari: quasi fiabesca quella di Orietta, cliente fissa – a volte non invitata – della “stanza del cioccolato”, una magnifica intuizione del nonno Giuseppe per premiare i suoi nipotini; più rigida quella di Enrico, che ha ricevuto in eredità dal padre la passione per i cavalli, che non lo abbandonerà fino alla morte. Attraverso gli occhi dei due protagonisti sono presentate due famiglie molto diverse tra loro e molti personaggi, che direttamente o indirettamente si ritroveranno nel corso del romanzo.

La famiglia Garigliano appartiene alla Napoli “bene”, come si intuisce dalle espressioni napoletane forbite del senatore presenti nel primo capitolo.

Giuseppe è un ex Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, senatore a vita, che quando si ritira nella sua casa al centro storico di Napoli, si fa intenerire dai suoi nipoti. Circondato da un assistente di ottima famiglia, impossibilitato a seguire gli studi di giurisprudenza, che lo aiuta a gestire la sua enorme biblioteca di testi di diritto; e Gennarino, colorito personaggio con la mansione di domestico personale del senatore.

Arrigo, figlio del senatore e padre di Orietta, è costretto dalle circostanze a lasciare la casa del padre, e a trasferirsi a Roma con la sua famiglia. Lo caratterizzano un profondo orgoglio e il suo antifascismo convinto, che lo porterà a rinunciare ad alcuni favori che gi avrebbero consentito di risollevare le tristi sorti della sua famiglia. Padre severo, che non esita a denigrare il figlio Peppiniello che mostra una indole diversa da quella che lui avrebbe desiderato e che impone a Orietta di lasciare il liceo, perchè non poteva permettersi di pagare le tasse.

Peppiniello, fratello di Orietta, osteggiato e beffeggiato dal padre per i suoi continui fallimenti scolastici, è ritenuto un completo inetto e abbandonato a se stesso, ma si riscatta diventando il partigiano “Bepi” a Bergamo. Si sposerà con una umile donna bergamasca e rimpiangerà di non aver mai potuto beffarsi del padre, presentandogli “il figlio della serva”.

Luigi, l’orgoglio di Arrigo, muore ucciso in guerra e per questo come dice Orietta “gli è stato risparmiato di dover mantenere le promesse, così gli resterà per sempre addosso l’alone della perfezione”.

Orietta è definita da suo nonno come “generosa” e dal “cuore sensibile e delicato”. Si prodigherà di nascosto per la sua famiglia negli anni della crisi economica e tenterà di sostenerla cercando un lavoro al padre, per tramite delle sue amicizie vicine a Mussolini. Finirà poi per dover rinunciare prima alla scuola e poi al lavoro.

La famiglia Gabbianelli era stata benestante fino a quando il nonno Enrico non aveva deciso di sovvenzionare l’avventura garibaldina, dando fondo a tutte le sue riserve.

Giuliano Gabbianelli è costretto dalla miseria a studiare in seminario, subendo per primo nella sua famiglia “l’umiliazione di vivere da decaduto nella sua città”. Ha una sola passione, quella dei cavalli, che riuscì a mantenere diventando ufficiale veterinario nell’Esercito. Morta la moglie, la dolce Camilla, Giuliano sposa la sorella di questa, zia Carolina, per dare una madre a Enrico suo figlio ma, soprattutto, per assicurargli una cospicua eredità.

Zia Carolina riesce a soddisfare con il piccolo Enrico il suo desiderio di maternità, anche se nel tempo alcuni suoi errori nella gestione del patrimonio in dote porteranno Enrico a vivere dei momenti di profonda indigenza.

Enrico impara a vivere fin da piccolo per i cavalli e viene riconosciuto appena adolescente come un “gentleman rider” di grande talento. La crisi spinge la sua famiglia a trasferirsi a Roma, e, tra successi alle corse e studi non proprio brillanti, si laurea in giurisprudenza. Riesce ad entrare nella scuola di cavalleria di Pinerolo, con suo grande orgoglio e parte per la guerra, prima in Africa, poi ai confini tra Italia e Francia.

A parte un breve intreccio nel 1940, è solo nel 1943 che le due storie convergono, quando Enrico torna in Italia e cerca Orietta, oramai promessa sposa di un uomo molto più anziano di lei, e le fa capire “che l’amore è un’altra cosa”. La vita matrimoniale scorre nella parte centrale del libro, tra l’ansia dell’attesa di un figlio che non arriva, la terribile diagnosi di non poter aver figli, l’inattesa gravidanza ed un nuovo periodo di miseria, che vede Enrico battersi per ricostruire la scuderia e Orietta sostenere la sua famiglia al meglio. La parte finale del romanzo assume come protagonisti assoluti i due figli di Orietta ed Enrico, ciascuno con la propria vita: una vita dissoluta quella del primogenito Luigi, una vita più borghese quella di Giuliano. Il romanzo si chiude con un episodio a tratti assurdo e dissacrante che potrebbe lasciare all’inizio il lettore un po’ basito, ma che trova spazio e significato nell’ che caratterizza i nostri giorni. A riportare le ultime pagine verso una degna conclusione ci pensa Orietta, che alla fine assume il ruolo che fu di suo nonno Giuseppe nel primo capitolo, nel piccolo colloquio con la sua omonima nipote.























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