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5 feb 2012

Quattro giorni


5  febbraio 2011

La notte era stata un inferno per te. Ma del resto ci eri abituata. Non è facile trascorrere sedici anni della tua vita, scivolando lentamente verso il basso. Ci tenevi alla tua indipendenza. Da che mi ricordo di te, lo hai sempre fatto. Hai sempre combattuto perché tu potessi fare le cose che volevi, da sola, con l’aiuto minimo indispensabile da parte degli altri, soprattutto coloro che non erano parte della tua famiglia più ristretta. Non volevi «dare fastidio». Era la cosa che odiavi di più. E per la legge del contrappasso sei finita a dipendere dagli altri, anche per le esigenze più intime, tenendo in te quella che consideravi una vergogna, alternando le richieste che ti uscivano forzate dalla bocca con uno «scusa» ed un «grazie» che ti pesavano, e non perché non volevi dirle, ma perché avresti preferito che la tua vita si fosse svolta senza essere costretta a chiedere aiuto agli altri, pesando su di loro. Molte volte ti ho detto che non era un peso, e tu fingevi di crederci con il sorriso sornione di chi la sa lunga, ma ti accontenta.

Quella notte era passata tra i lamenti, tu china sulla tua poltrona, perché oramai a letto non riuscivi più a starci, piegata in avanti, con il volto verso il pavimento, bloccata da un divano, perché avevamo paura che scivolassi piano in avanti e cadessi. Piccole cure. Piccole attenzioni, di fronte ad una situazione che era più grande di noi. Di nessuno di noi. Avevamo studiato altro nella vita. Ed eravamo stati fortunati, perché fino ad allora nessuno di noi aveva avuto bisogno di assistenza in modo così spinto. Non sapevamo né cosa fare, né quando farlo. Pur avendone la voglia.


Eravamo lì con te, ad alternarci, muovendoci al ritmo dei tuoi lamenti. Ci sentivamo impotenti, perché nulla di ciò che avessimo potuto fare avrebbe potuto darti sollievo nelle condizioni in cui eri. Ferma, sulla tua poltrona. Immobile, perché ogni movimento causava un dolore profondo. Avremmo scoperto solo quella sera che il dolore era nelle piaghe, non nelle ossa che ti avevano massacrato da anni di fitte, incurvandoti sotto il peso della malattia, incurabile.

La luce del giorno che trafiggeva le persiane illuminava debolmente la stanza e portava la speranza che il sonno vincesse temporaneamente il dolore. Non fu così, ma a quell’ora della mattina ci speravamo ancora, mentre il caffè fumante spargeva il suo aroma intorno.
-         Hai fame?

-         - No
-        -  Devi mangiare qualcosa…

Lo stomaco era chiuso, e non solo il tuo, anche il nostro.
Arrivò l’infermiere per le analisi. Un sorriso a volte riscalda, anche quando il freddo è gelido, nelle ossa e nel cuore. E tu sorridevi a tutti, tu avevi una parola buona per tutti. Non ti eri mai lamentata di nulla, avevi sempre sofferto in silenzio, piangendo in un angolo, quando la rabbia, più che il dolore, era più forte.

Era l’inizio dei gironi più profondi dell’inferno, fu una lenta discesa scalino per scalino. Il dolore forte alla gamba, non ne potevi più. Le fitte alla schiena, non le sopportavi. Quel senso schiacciante di impotenza ci portava a starti accanto, muti, con lacrime che scendevano all’interno degli occhi, perché anche se tu oramai non vedevi più, avevi sviluppato una sensibilità speciale al tono della voce, al tremolio della mano, al respiro irregolare. Te ne saresti accorta e avresti sofferto, perché pur se non colpevole, ti sentivi la causa della nostra sofferenza. Non parlavamo, perché non c’erano parole. Ruotavamo intorno a te, alternandoci quando eravamo stanchi e sentivamo il bisogno di una pausa. E ci sentivamo in colpa per quella pausa, perché tu, alla fine, dal tuo dolore non avevi nessuna pausa.

Cercavamo una soluzione, ma non ne vedevamo. Non eravamo in grado di assisterti e questa era la pena più grande. A te, che sempre ci avevi curato, noi non eravamo in grado di offrire nulla più di una presenza, forse fastidiosa per te che non avresti voluto dipendere da nessuno.

I sensi di colpa, quando colpe non ne hai in realtà, affiancati al senso di impotenza, quando ti rendi conto che non puoi fare nulla, ti rodono dentro. Sono come acido che corrode tutto dentro di te, si spinge nell’intestino e ti lacera le budella. Cercavamo di spingere il cervello a pensare oltre l’impossibile per cercare un’alternativa a quell’inferno. Non ci importava di quanto stessimo soffrendo, non sentivamo né il sonno, né la fame, né la stanchezza. Ci importava solo alleviare la tua sofferenza e ci rendevamo conto di essere inutili. Assolutamente inutili.

Il telefono bruciava nell’orecchio quando dall’altra parte ci sussurravano «Mi dispiace. Non abbiamo le strutture adeguate per dare assistenza come si dovrebbe ad una paziente in queste condizioni». Volevamo urlare «Chi lo fa, se non lo fate voi che avete studiato per questo?», ma ci adeguavamo e rimanevamo attaccati al computer a cercare una soluzione. «A qualcosa servirà questa rete globale».

E infine riuscimmo. Dopo mille telefonate abbiamo ricevuto un «Sì» e ci siamo convinti che fosse meglio, che ti avrebbero trattato meglio di come potevamo farlo noi.

Non fu difficile preparare di nuovo le tue cose, perché in fondo eri appena tornata da un altro ospedale ed era ancora tutto ordinato e pulito nelle tue valigie. C’era solo da dividere le cose strettamente necessarie, da portare insieme con te in ambulanza, dalle cose utili, da tenere in macchina.

L’attesa fu delirante. Tu soffrivi sempre di più e starti accanto era impossibile senza piangere, senza sentirsi perfettamente inutili se non per quelle continue carezze. Avrei continuato a carezzarti per sempre se questo avesse potuto essere per te un sollievo. Ma forse era un sollievo più per me, che per te. Tra la rabbia dell’impotenza e la convinzione di stare facendo tutto ciò che pensavamo fosse meglio, passavano i minuti, goccia a goccia. L’ambulanza infine, il tuo volto un po’ più sollevato e la speranza di qualcuno che ti potesse davvero aiutare, come noi non eravamo in grado di fare da soli.

Quando arrivammo in ospedale eri già in terapia intensiva. I medici non si spiegavano come mai ti avessero dimessa, dall’altro ospedale. Fummo presi dall’angoscia di non avere fatto abbastanza per te, ma ci chiedevamo da cosa noi avremmo potuto capire l’opportunità di tenerti in ospedale rispetto al tornare a casa, cosa che desideravi più di tutte.

Cominciò l’attesa. La lunga attesa di sapere come stavi.

Cominciò la fiducia. La cieca fiducia che ti potessero far stare bene, o almeno ti lenissero il dolore.

Entrammo nella stanza solo per poco. La situazione era grave, ci sarebbe voluto del tempo per recuperare. Ma la speranza c’era. Così ci dissero, prima di chiederci di uscire. Non potevamo stare lì la notte, non ce n’era bisogno. Potevamo tornare la mattina dopo, non prima delle undici.

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