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9 mag 2012

Il gioco degli specchi


Capitolo 1

Era un sabato mattina di aprile e faceva quasi caldo. La primavera era sbocciata: lo si poteva sentire nell’aria, che sfrizzolava allegra nel mio allergico naso, lo si vedeva nel verde acceso dei prati, nei colori dei fiori, nel cielo terso e azzurro.
Passeggiavo in bicicletta nel parco, quando mi trovai di fronte al cimitero e mi fermai a guardarlo. Attraverso l’ingresso bianco e marmoreo, piccole donnine si affannavano avanti e indietro, nello sguardo il loro dolore più o meno lontano, ma sempre forte e presente. Ebbi voglia di entrare, seguendo quell’istinto che spesso avevo avuto, ma che avevo represso a causa delle mille cose che avevo sempre da fare. Lasciai la bicicletta fuori al parcheggio, attaccata ad un palo con una piccola catena (non si sa mai!) e attraversai l’arco di ingresso che segnava il passaggio dal mondo dei vivi al mondo degli eterni. Guardai i tre viali che si dipanavano come fili di seta innanzi a me, e fu ancora una volta l’istinto a scegliere: sinistra.
Iniziai a scrutare le tombe. Quello che mi affascinava di più era l’idea del corpo sottoterra. Di fatto, ignoravo i corpi deposti nei muri e mi concentravo sulla terra piena di croci e statue e fiori. Non stavo cercando qualcosa, mi muovevo lentamente, con gli occhi sulle foto e sui sorrisi catturati per l’eternità, leggevo i nomi e le date di nascita, facendo velocemente i conti degli anni che quelle persone avevano avuto la fortuna di vivere, osservando i fiori deposti sulle loro tombe, se erano freschi o secchi, di colore vivace o tenue. Ciò che poi catturava la mia mente era il tentativo di riportare, per ciascuno di loro, l’immagine che vedevo nelle fotografie, al corpo che giaceva sotto terra, nella sua composta posizione di morte, con gli occhi chiusi, il sorriso accennato, le mani incrociate sul davanti, i piedi uniti. E immaginarli lì sotto, freddi, decomposti più o meno dal tempo, mi dava quel brivido che mi faceva assaporare ancora di più il sole che si appoggiava violento sulla mia pelle, scaldandola.
Camminavo, con la testa vuota di pensieri e lo sguardo in basso, quando una vecchina mi chiamò da lontano. «Ehi, tu...». Alzai lo sguardo su quella donnina piccola, molto piccola, e molto magra. Era vestita con una gonna nera, una camicia nera ed una giacchina di lana, anch’essa nera. La pelle era quasi trasparente, ripiegata in minuscole rughe, una sull’altra, ma tra di loro spiccavano due occhi di un azzurro che sfidava il bel cielo di primavera sopra di noi. Mi avvicinai a lei e quando le fui di fronte, lei appoggiò la sua esile e grinzosa mano sul mio braccio. Alzò la testa e mi disse, indicando con l’altra mano una lapide molto semplice, di pietra levigata, dove era appoggiata una sola gardenia bianca:
«E’ tua nonna, vero, quella lì? Sei venuta a trovarla?»

«No, mi spiace. Non ho nessuno in questo cimitero. Stavo solo facendo un giro. Ma... perchè me lo chiede?» le dissi incuriosita. Doveva avere un motivo valido per aver fermato una sconosciuta ed avere fatto quella domanda, che sembrava più un’affermazione che una richiesta.
«Scusami. Ne ero quasi convinta. Le somigli tantissimo.»
Mi avvicinai allora alla lapide. Lessi il nome:

AURORA ALTAVILLA
in ALTEBRANDO
LA SPEZIA 10/01/1928 - BOSTON 28/02/1978

Era morta all’età di cinquanta anni. Sì, poteva essere mia nonna, ma davvero non capii il motivo di quell’associazione, quando dal nome scritto sulla pietra i miei occhi si levarono sulla piccola foto che era incastrata in un boccone di pietra al lato della lapide.

Era un foto color seppia, che raffigurava una donna giovanissima, forse di nemmeno vent’anni, dai capelli scuri,  raccolti in alto, che le scendevano in boccoli ribelli. E sul viso luminoso e chiaro spiccavano due occhi quasi trasparenti e molto vivaci, un naso perfettamente francese e due labbra carnose che dovevano essere state di un color rosso vivo.  Non era una di quelle donne delle quali intuisci che rispondevano pienamente ai canoni di  bellezza solo per l’epoca nella quale avevano vissuto: la sua bellezza era eterna, al di fuori del tempo, cristallizzata in quella fotografia che trapassava il cuore.

Fu solo quando mi concentrai sullo sguardo, che capii: quella donna mi somigliava in modo impressionante, sembravo io in un’altra epoca e quella scoperta mi stordì appena la realizzai, a tal punto che mi sentii vacillare, i rumori intorno iniziarono ad ovattarsi e gli occhi mi si appannarono. La voce della vecchina mi giunse da lontano: «Ti senti bene? Chiamo qualcuno? Ehi, Leandro, venga qui, la signorina si sente male...».

Svenni. Non ricordo nulla di ciò che successe fino al momento in cui mi svegliai. Ero a terra, sentivo il terreno polveroso e ghiaioso sotto il mio corpo e presi lentamente coscienza prima del mio corpo e poi del mondo intorno a me. Due voci si alternavano al mio fianco: quella roca che riconobbi appartenere alla vecchina che mi aveva fermato ed una maschile, che non conoscevo, ma che giungeva dolce al cuore. Aprii gli occhi e incominciai a distinguere le ombre sullo sfondo azzurro del cielo. Vidi due occhi grigi e profondi che mi guardavano ed ebbi la sensazione di essere “a casa”.

«Sta bene?» mi chiese l’uomo.

Provai ad alzarmi, ma la sua mano ferma mi trattenne a terra. Mi appoggiò dell’acqua sulle labbra con un fazzoletto di lino e mi disse: «Stia ancora giù, non abbia fretta di alzarsi.»

Mi rilassai e chiusi ancora gli occhi per un attimo.

Quando li riaprii dopo poco tempo, le immagini si profilarono più nitide davanti a me. La vecchina si era seduta su una panchina di fronte a me ed osservava in silenzio l’immagine di fronte a sé. Avrei dato un penny per i suoi pensieri... L’uomo era sempre fermo in ginocchio al mio fianco e mi guardava. Ebbi la sensazione di conoscerlo, ma non mi sovveniva dove lo avessi  incontrato prima d’allora.

«Sarà stato un piccolo calo di pressione, non si preoccupi. Vuole provare a tirarsi su ora? L’aiuto io...»

La voce era dolce e tranquillizzante. Provai ad alzarmi e quando lui realizzò che davvero volevo mettermi in piedi, mi appoggiò una mano dietro la testa e infilò un braccio sotto il mio per aiutarmi. Sentivo dei brividi, ma non erano di freddo. Era qualcosa di diverso che sentivo essere legato a quell’uomo che credevo di conoscere, una sensazione che muoveva dal profondo di me stessa, dal mio stesso ventre e mi metteva in difficoltà. Non riuscivo a capirne il motivo, e questo aumentava il disagio che provavo.

Quando fui in piedi, cercai di ripulirmi della polvere, sbattei le mani l’una contro l’altra e porsi la destra all’uomo:

«Grazie. Io sono Angelica. Non so cosa mi sia preso...».

«Piacere... sono Leandro. E’ svenuta... magari il caldo, un piccolo calo di pressione... capita... mi ha detto la signora Bianca che stava guardando la foto di Aurora. Le somiglia davvero tantissimo, sa?»
«Sì, ho visto... Credo sia quello ad avermi fatto un po’ perdere l’equilibrio. E’ davvero impressionante... ma la conosceva?»
«Io? No, non la conoscevo. Era... la conosceva mio nonno. Lui è sepolto appena più in là, vede quella tomba piccola dove ci sono le gardenie? A lui piacevano tanto... »
Ci interruppe Bianca, appoggiandosi al mio braccio:
« Mi spiace, tesoro... E’ stata colpa mia...»
«Oh no... » mi affrettai a dire, per tranquillizzarla: «Un po’ il caldo forse... ma sto bene. Sono Angelica, piacere...» e le porsi la mano.
«Angelica... ma sei sicura di non essere sua nipote? Aurora aveva un figlio, credo si chiamasse... Leandro, aiutami, come si chiamava il figlio di Aurora?»
« Manfredi, Bianca. Si chiamava Manfredi...»
«Beh, io non ho mai conosciuto mia nonna: era già morta quando sono nata. E mio padre si chiamava Federico. » precisai.
«Oh... » disse delusa Bianca. Poi aggiunse: «Io devo andare, mi spiace.»
«E’ stato un piacere conoscerla, signora Bianca.»
« Mi piacerebbe se potessi venirmi a trovare. Abito nella cascina qui di fronte, con i miei animali... passa qualche volta... ti racconterò di Aurora.»
L’invito sembrava interessante, perciò le risposi:
«Certamente, passo domattina, magari... sono libera!»
«Ti aspetto allora... ciao. Ciao Leandro, noi ci vediamo come al solito qui... e mi raccomando, sii gentile con Angelica...».
Rimasi un po’ interdetta per quella frase, che Leandro gentilmente fece scivolare via come se non l’avesse colta. Quindi la salutò: «Arrivederci Bianca» e si volse verso di me: «Mi piacerebbe rivederla. E’ libera per un caffè uno di questi giorni? Posso... posso chiamarla? »
Evidentemente le sorprese non erano finite per quel giorno, perchè non feci in tempo a pensare a cosa rispondere, che le mie labbra avevano già pronunciato un: «Sì, volentieri... », le mani avevano pescato nella borsa un biglietto da visita e glielo stavano consegnando: «Questo è il mio numero. Di solito sono libera dopo le cinque e mezza.»
Un sorriso illuminò il bel volto di Leandro, mentre mi dava un suo biglietto e mi salutava: «Ecco ilo mio. Ci conto... allora, Angelica...»
Anche Leandro se ne andò, ed io rimasi sotto il sole a scaldarmi, camminando ancora nel cimitero. Mi fermai davanti alla tomba di Aurora: avevo voglia di guardarla ancora, di capire se davvero le somigliassi così tanto o se fosse stato uno scherzo del caldo. No, sembrava davvero il mio specchio, uno specchio che rimandava un’immagine più antica e sicuramente più bella di me, ma che ero io, senza ombra di dubbio. Dopo qualche minuto nacque in me la curiosità di andare appena oltre, a guardare la tomba del nonno di Leandro. Mi aveva detto che era quella piccola con le gardenie. Cercai di identificarla con lo sguardo e la vidi. Quindi mi incamminai verso di essa, lentamente, accompagnata dai volti eterni che nel mio cammino incrociavo.
Quando giunsi davanti a quella tomba, rimasi di stucco. Non poteva essere una coincidenza. Non poteva essere realmente così. Forse non stavo bene... Eppure, quell’uomo nel ritratto era identico a Leandro, molto più giovane, e aveva i suoi stessi occhi profondi, lo stesso suo sorriso. Mi inginocchiai e passai per istinto la mia mano sul viso ritratto. Fu a quel punto che mi accorsi che la foto era tagliata malamente sulla destra. Ebbi un dubbio, fortissimo, e corsi alla tomba di Aurora: un taglio simile si notava sulla sinistra.
Ebbi la certezza che qualcosa di magico si stesse librando nell’aria. Ebbi un brivido, una folata di vento mi scoprì il collo dai capelli e me lo accarezzò. Fu come una dolce mano che passasse sulla mia pelle con delicatezza. Quella sensazione mi lasciò perplessa, insieme alla constatazione che le foto di Aurora e del nonno di Leandro fossero state un tempo una foto sola. Il nonno di Leandro e Aurora si conoscevano, erano stati ritratti insieme. Chi erano?
Dovevo assolutamente rivedere Bianca.

Capitolo 2

Parcheggiai nell’ampio cortile antistante la grande casa coloniale. Scesi e provai a guardare in giro per vedere se Bianca fosse nei paraggi. Non sembrava esserci nessuno.
Guardai la casa. Era enorme e mi meravigliai che Bianca potesse viverci da sola. Mi soffermai sull’immenso portone di legno antico, che era rimasto leggermente aperto. Mi avvicinai e provai a battere sull’uscio, ma nessuno rispose. Entrai con discrezione, provando ad annunciarmi chiamando Bianca e la prima cosa che mi colpì fu un odore di vaniglia intenso che mi fece venire il languore allo stomaco. Quella mattina, per la fretta di andare da Bianca, avevo dimenticato di fare colazione.
Mi fermai nell’ingresso, grande e spazioso, nel quale spiccavano alle pareti dei ritratti di signorotti di altri tempi. Quella di Bianca doveva essere una famiglia benestante, se non addirittura nobile. Mi aggirai per l’atrio, fissando uno ad uno quei volti, che sembravano seguirmi man mano che mi spostavo. Una voce sottile mi sorprese alle spalle e mi fece sussultare:
«Angelica, tesoro... sei arrivata al momento giusto, ho appena sfornato i biscotti!»
Era Bianca. Mi voltai e rimasi sorpresa dallo splendore del suo volto. Era vestita con una divisa da cuoca bianca candida con sopra un grembiule anch’esso bianco, ed una cuffietta in testa che le raccoglieva i capelli, anch’essi bianchi. Poteva sembrare un angelo... Si passò velocemente le mani sul grembiule e mi abbracciò. «Sono contenta di vederti così presto... Spero tu stia meglio oggi... Ho talmente tante cose da raccontarti che non stavo più nella pelle... Vieni, cara... ti dispiace se andiamo in cucina? Ho appena preparato il the.»
Era evidente il suo piacere di vedermi, e attraverso quel turbinio di parole riuscii a dirle solo: «Grazie, Bianca... sono contenta anche io di rivederla...», prima che mi prendesse la mano e mi conducesse nel suo piccolo regno profumato.
La cucina era di legno bianco, con un piano di piastrelle azzurre. Il profumo era molto più intenso lì e si spandeva nell’aria allargando ancora di più la bocca del mio stomaco. Non vedevo l’ora di mordere i biscotti di Bianca. Li vidi su una piastra affianco al forno, sembravano di pastafrolla, erano di tutte le forme: rotondi, quadrati, a forma di rombo, di cuore.
«Mio Dio Bianca... se avessi avuto una nonna come lei quando ero piccola sarei stata sempre nella sua cucina... Devono essere buonissimi... »
«Prendine pure uno, tesoro... ne concedo sempre uno direttamente dalla piastra ai miei nipotini, prima di riporli sul vassoio... e siediti. Ora arrivo...»
Rimasi ferma a sceglierne uno da assaggiare. Quando fui proprio lì davanti alla piastra mi resi conto che di tutte le forme c’era un numero eguale di pezzi ma c’era solo un biscotto di forma diversa e mi colpì, perchè rappresentava una rondine.
«Come mai c’è solo una rondine, Bianca?»
«Eh... perchè è l’unico che può far volare... prendilo, su, l’ho fatto apposta per te...»
«Ma come sapevi che sarei venuta?»
«Lo sapevo... e basta...» .
Quindi si avvicinò, portando un vassoio d’argento Sterling con su due tazze, una zuccheriera ed una teiera di porcellana finissima.
«Ma io non merito tanto... Bianca...»
«E’ il mio servizio di nozze. Sai che non l’ho mai usato per anni? Se non me lo godo ora io, credi che i miei figli e i miei nipoti se lo godranno? Lo venderanno a qualche antiquario quando sarò morta...»
«Ha ragione... fa bene...»
«Certo che ho ragione... Se non hai ragione a ottanquattroanni, quando ce l’hai? Allora, mia cara bambina... bando alle ciance... vuoi sapere la storia di Aurora e Vieri?»
«Chi è Vieri?» chiesi incuriosita. Poi ricordai il nome sulla tomba del nonno di Leandro e chiesi conferma: «Il nonno di Leandro, giusto?»
«Già... Aurora e Vieri si amavano tantissimo... ma cominciamo dall’inizio... dunque... » disse, appoggiandosi alla spalliera della sedia e girando gli occhi intorno alla stanza, come se stesse tornando indietro nel tempo, in un tempo piuttosto lontano. «Aurora era figlia di un nobile di queste parti. Una famiglia antica, di quelle molto blasonate, che avrà avuto nel suo passato perfino qualche re o imperatore. Io andavo a scuola con lei: anche io, sai, appartenevo ad una famiglia nobile... eravamo molto amiche, passavamo un mucchio di tempo insieme e così è stato fino al liceo, quando io e lei abbiamo preso strade diverse, pur restando sempre molto intime. Un giorno venne a trovarmi. Era raggiante, molto più del solito... Avevamo sedici anni. Ricordo quella mattina, era una Domenica, come fosse ieri. Arrivò di corsa attraverso i campi, era bellissima, con i capelli sciolti, il volto rossissimo per la corsa. Mi prese e mi chiese di andare con lei al laghetto vicino casa, perchè doveva raccontarmi una cosa. La seguii. Quando giungemmo al laghetto, si fermò di colpo, proprio davanti a me e mi disse: “Bianca, sono innamorata... e anche lui lo è e... tra tre anni ci sposeremo!”. Fui contenta per lei. L’abbracciai, senza nemmeno sapere di chi stesse parlando, ma il suo entusiasmo era talmente travolgente che quello sembrava un dettaglio irrilevante. Poi ci sedemmo e mi raccontò: si chiamava Vieri, lo aveva conosciuto a scuola, frequentava l’ultimo anno di liceo. Era arrivato dalla Toscana da circa un anno e mezzo e l’aveva corteggiata per un anno. Lei aveva voluto tenere per sé quel piccolo segreto e me ne chiese perdono... Il giorno prima si erano dati un bacio e promessi amore eterno. Avrebbero aspettato che lei avesse finito gli studi e si sarebbero sposati. Non volevano dire nulla ai genitori perchè lei era ancora molto giovane. Accettavano di vedersi ogni tanto e scriversi quando non potevano incontrarsi.»
«Dunque Vieri e Aurora erano marito e moglie?» azzardai, ripensando alla foto spezzata.
«No. Purtroppo non si sposarono mai... Nel 1929 il padre di Aurora fu coinvolto nella crisi delle borse e perse molti dei suoi beni. Per sfuggire alla rovina totale, promise Aurora in sposa ad un finanziere importante di Boston e la mandò lì a studiare appena finito il liceo. Aurora e Vieri non si incontrarono più, ma io so che hanno continuato per anni a scriversi.
«Che storia triste, Bianca... ma la foto... la foto era una sola, vero?»
«Sì. L’avevano voluta fare prima che Aurora partisse. Ne fecero due copie, una per Vieri ed una per Aurora, le strapparono e tennero per sé ciascuno un pezzo delle due. Ognuno di loro lasciò scritto che quella foto fosse esposta sulla propria tomba. »
«E Vieri? Si sposò anche lui, immagino...»
«Vieri non si sposò mai. Eppure era un bellissimo ragazzo, lo hai visto nelle foto? Beh... e comunque somiglia tanto a Leandro... almeno quanto tu ad Aurora...»
«Ma Bianca, Leandro dice che Vieri è suo nonno... se Vieri non si è mai sposato... allora... qualcosa non mi torna...».
«Vieri aveva un fratello gemello, che era sposato e che morì con sua moglie durante un bombardamento. Così Vieri adottò il figlio di suo fratello ed è per questo che Leandro lo ha sempre considerato come un nonno.»
«Capisco...» annuii. «Ma morì prima Aurora o prima Vieri?» chiesi incuriosita.
«Vieri morì il 29 febbraio 1978. »
«Il giorno dopo Aurora, allora... » la anticipai, ricordando la data che c’era scritta sulla lapide di Aurora.
«Non proprio. » sorrise Bianca.  «Aurora morì alle 23.55 del 28 febbraio. Circa trenta minuti dopo morì Vieri, dall’altra parte del mondo. Solo mezz’ora in realtà, ma un giorno a calendario...»
«Non posso crederci...» le dissi, rilassandomi verso la spalliera della sedia. «E non si sono più visti? Solo scritti... e non rimane nulla delle loro lettere?»
«No. Aurora distruggeva le sue man mano, perchè non voleva che la sua famiglia le trovasse. Vieri, invece, le aveva conservate da qualche parte, ma dopo la sua morte non furono più trovate. Non si sa bene dove le avesse nascoste. Magari prima o poi saranno scoperte... sono convinta che in ogni caso, se anche le trovassero, non riusciranno mai a comporre quella storia, sarebbe solo una delle due voci... E’ giusto così, si sono portati il loro amore nella tomba.»
«Bianca... sono davvero felice di averla conosciuta e felice che mi abbia raccontato questa storia. Purtroppo io non sono parente di Aurora... quindi è solo un caso che le somigli tantissimo... Mi spiace, forse...»
«Oh no, piccola... Io ho perso tutti i contatti con la famiglia di Aurora da molto tempo... un po’ avevo sperato di riprenderli, ma non importa. Torna quando vuoi... » mi disse, alzandosi dalla sedia, pronta ad accompagnarmi fuori.
Le diedi un bacio sulla guancia che non si aspettava e scappai.
Non mi restava che sentire la versione di Leandro. Gli avrei telefonato io, visto che lui non si era fatto ancora vivo.

Capitolo 3

Entrai nel piccolo pub e richiusi la porta inglese massiccia alla mie spalle, mentre i miei occhi già si perdevano nel locale alla ricerca di Leandro.
Lui era seduto ad un tavolino, con una penna in bocca e l’atteggiamento pensieroso, mentre leggeva delle carte, sparse su un tavolo, affianco ad una mug di caffé americano. Ogni tanto staccava la penna dalla bocca e segnava degli appunti sui fogli. A volte si grattava preoccupato la testa, come se volesse smuovere i suoi pensieri, perchè quadrassero con quello che leggeva. Era davvero carino, così solitario e immerso in qualcosa che non conoscevo. Mi avvicinai e solo quando la mia gonna ampia frusciò, sfiorando il tavolino, lui si accorse di me e levò il suo sguardo.
I suoi occhi grigi mi diedero la stessa sensazione di “casa” che avevo provato la prima volta. Dietro di loro, sentivo che c’era un universo molto simile a quello che avevo io dentro, del quale avrei potuto conoscere anfratti e particolari che sarebbero sfuggiti ad altre, nel quale mi sarei potuta addentrare ad occhi bendati, perchè quegli anfratti erano gli stessi nei quali io stessa solevo nascondermi. Non sapevo da cosa derivasse quella certezza, ma ero davvero convinta che io e lui fossimo come due specchi, posti l’uno di fronte all’altro, e che ciascuno di noi, muovendosi, potesse essere matematicamente certo della mossa che avrebbe fatto l’altro.
Eppure a questo sentirmi “a casa mia” si opponeva un altro sentimento, forte anch’esso, che non potevo ignorare: mi sentivo in pericolo, perchè era evidente che se io potevo conoscere così bene lui, anche lui avrebbe potuto stanarmi ovunque io mi fossi rifugiata, e questo mi faceva sentire indifesa, completamente alla sua mercé. E non mi piaceva. No, non mi piaceva affatto.
Mentalmente decisi che avrei ceduto più alla sensazione di “pericolo” che a quella di “casa”. Lo avrei studiato da lontano, avrei osservato le sue mosse, avrei scoperto i suoi pensieri e solo dopo avrei deciso cosa fare. Certo, pensavo, non era facile: lui mi attraeva molto, per il suo viso ed il suo modo di fare, ed io ero sempre stata istintiva, non ero mai riuscita nella mia vita a impormi dei limiti, soprattutto in amore. Quando l’emozione mi prendeva, non badavo a spese: mi ci gettavo sempre tutto d’un fiato, uscendone spesso malconcia, perchè non riuscivo mai nè a scegliere le persone “giuste”, nè a staccarmi al momento “giusto”. Ero una di quelle donne che “amano troppo”, quelle che pensano che il loro amore salverà l’uomo amato e non sono capaci di salvarsi per se stesse. Sorrisi quindi ai miei buoni propositi, e il diavoletto che era nascosto in me già scommetteva su quanto tempo avrei impiegato a perdere completamente la testa per Leandro.
Un po’ di sintomi già si aggiravano per il corpo: l’ansia prima di telefonargli, le poche parole al telefono, il tremore prima di entrare nel pub. Ora il sintomo più evidente era il fatto che stessi ferma, immobile, in piedi, davanti a lui, beandomi del suo sguardo e del suo sorriso. Guardavo le sue labbra e già incominciavo ad assaporare i suoi baci. Studiavo le sue mani e già le vedevo muoversi sul mio corpo.
Fortunatamente fu lui a scuotermi. Doveva avere intuito un certo imbarazzo e mi disse:
«Ti siedi tu, o mi alzo io?» e scoppiò in una risata.
Mi sedetti, e sono sicura che in quel momento nel mio viso trasparì tutta la mia insicurezza. Nel mettere a posto le carte e liberare il tavolo, la sua mano per sbaglio sfiorò la mia e l’imbarazzo crebbe ancora, accentuato da quella fitta al cuore e nel ventre che quel contatto mi provocò.
«Scusami, non volevo... sono un po’ maldestro...» si scusò Leandro.
«No no» mi affrettai a dirgli «scusami tu... sono un po’ tesa... questa storia mi imbarazza un po’...»
«Sei stata da Bianca, stamattina?» mi chiese cercando di smorzare un po’ quei toni vergognosi che mi rendevano ridicola.
Gli raccontai della storia di Bianca. Lui mi guardava curioso ed interessato. A volte il suo sguardo si perdeva nel mio. Altre volte mi fissava le mani, ed altre la bocca. Era come se i suoi occhi stessero percorrendo il mio corpo alla ricerca di qualcosa e così mi interruppi:
«Ho qualcosa che non va?» gli chiesi, fingendo di guardarmi i vestiti.
«Eppure io ti conosco...» mi disse. E continuò, dopo qualche secondo nel quale i nostri occhi si persero l’uno nell’altro: «Ho la sensazione di conoscerti perfettamente, di sapere in ogni istante cosa stai per dire e cosa stai per fare. Credo di conoscere i tuoi pensieri... ad esempio, adesso stai facendo finta di guardarti i vestiti perchè in realtà ti sta dando fastidio che io non ti guardi negli occhi... e me lo vuoi fare notare...»
Si fermò senza dire più nulla ed incollò i suoi occhi ai miei. Avevo visto giusto a sentirmi in pericolo e non sapevo cosa rispondergli. Pensai al gioco degli specchi e mi venne in mente che se lui poteva leggere così bene dentro di me, anche io avevo quella possibilità. Così mi concentrai e attinsi le parole da quella parte di specchio in cui lui poteva riflettersi più facilmente. Un fiume di parole, delle quali non mi resi ben conto, finchè non ebbi pronunciato l’ultima:
«Secondo me tu stai cercando di immaginare se tra me e te sia o no già scoccata la stessa scintilla che scoccò tra Aurora e Vieri. E la risposta è forse, forse sì, forse no. Perchè io non sono Aurora, nè tu sei Vieri. Credimi, non esistono magie che nel tempo si possano propagare. Sono tutte balle. Però io ti piaccio, si vede, lo sento: qui sulla pelle che hai sfiorato con lo sguardo. Io e te siamo simili, non dico uguali, ma simili. E se questo è vero, io lo so, come lo sai tu, che può essere travolgente, bello come non abbiamo trovato nelle nostre vite. Eppure finirà, perchè né io, né te siamo fatti per durare. Per questo, io non sono Aurora. Per questo, tu non sei Vieri. Le persone come me e te son fatte per cogliere il momento, non per gli amori di una vita, e quando il momento non c’è più, voliamo via, perchè amiamo sentirci liberi, perchè amiamo il gusto di essere prigionieri dell’altro solo per poco tempo, il tempo di abituarsi a degli occhi, il tempo di abituarsi pelle a pelle, il tempo di abituarsi a un buongiorno sussurrato, ad una buona notte in punta di labbra. Poi abbiamo bisogno di andarcene. Abbiamo bisogno di volare verso l’alto, in totale solitudine, a leccarci le ferite che ci facciamo da soli quando ce ne andiamo via.»
Mi aveva osservato stupito e silenzioso mentre parlavo. Non aveva mai cercato di interrompermi, non aveva mai cercato di contraddirmi. Era chiaro che l’avevo stanato nel suo covo così come lui aveva stanato me. Ma io avevo affondato più duramente il colpo, avevo annullato i tempi del corteggiamento, prevenuto la nascita di un possibile amore e gli avevo smorzato le ali. Mi stavo chiedendo ancora il perchè lo avessi fatto, da quale parte di me fossero nate quelle parole e se davvero ci credessi, quando lui parlò.
«E’ sorprendente, sai? Tu mi hai letto dentro. Tu sembri conoscermi davvero pur non avendomi mai visto ed è questo, lo ammetto, che mi piace di te. Tu mi piaci, da morire. E mi hai spiazzato, lo ammetto. Uno a zero per te: non so né cosa dire né cosa fare. L’unica cosa che mi viene da dirti è... però non so se sia il caso...»
«Fallo, ti prego.» lo interruppi, ansiosa di vedermi in quello specchio e di sentirmi dire ciò che desideravo. «Non abbiamo nulla da perdere...»
«E’ solo che... se è così vero che io e te siamo uno specchio» e su quella parola trasalii «mi piacerebbe comunque guardarmi dentro per un po’ e scoprire attraverso te come sono fatto. E anche tu, forse, riusciresti a vedere in me ciò che di te non vedi. E nessuno può dirci se alla fine voleremo via o resteremo così attratti l’uno verso l’altra da non riuscire più a fare a meno della nostra immagine riflessa. Come hai detto anche tu, non abbiamo nulla da perdere...»
Rimasi incantata da lui. Avevo voglia di buttarmi in quella storia. Avevo voglia di specchiarmi dentro i suoi occhi. Avevo voglia di vivere dentro di lui come lui viveva dentro di me dal primo momento che l’avevo incontrato. Sapevo che nel giro di poco tempo sarei stata completamente persa per lui, al punto di non riuscire a starne senza. E sapevo altrettanto che prima o poi lui sarebbe andato via. O forse sarei stata io ad andare via. Questo non potevo saperlo. Era rischioso, era pericoloso: nella mia vita non avevo mai saputo fermarmi di fronte all’amore, mi avevano sempre fermata. Ora stava a me decidere cosa fare.
Gli chiesi di uscire e di portarmi lì, al cimitero, dove c’eravamo conosciuti. Sentivo che era lì che dovevamo essere, per qualche ragione che non capivo ma che spingeva pressante dentro. Passeggiammo mano nella mano raccontandoci un po’ della nostra vita, tacendo qualche ferita più profonda, sorvolando sul passato che pensavamo essere più torbido. Fu all’improvviso, che Leandro mi prese la mano e mi tirò a sé. Rimanemmo un istante vicini, labbra a fior di labbra, e poi chiusi gli occhi e sentii che lui appoggiava le sua labbra alle mie. Rimanemmo così a lungo, finché lui si staccò e mi disse: «Devo dirti una cosa.»
Lo guardai perplessa. Mi aspettavo che mi dicesse che era sposato o fidanzato, qualcosa del genere, qualcosa da copione. Vidi pian piano il castello che crollava. Feci il resoconto dei danni: mi aveva rubato un bacio e un primo pezzo di cuore, ma tutto sommato facevo ancora in tempo a uscirne in modo decente. Sì, potevo resistere. Ci sarei rimasta male, ma potevo resistere. Perciò tirai il fiato e gli dissi: «Ti ascolto...»
«In realtà sono due... Ecco, la prima è su Aurora. O meglio, su Manfredi. Manfredi era una specie di dongiovanni. Ebbe storie con tante donne, ma in particolare ne ebbe una con una donna molto giovane. Si chiamava Esther. Lei lo amava tantissimo, ma lui la lasciò quando scoprì che l'aveva messa incinta, di una bambina e così Esther si sposò con un altro uomo che  fece da padre alla piccola.»
Le mie labbra tremarono. Leandro mi strinse a sé. Sapeva che avevo capito: Esther era il nome di mia madre... Mi feci coraggio e gli chiesi: «Okay... e la seconda?»
«Ieri sera ho cercato per parecchio tempo tra le cose di mio nonno. Ho trovato alcune lettere di Aurora. Non erano molte, ma ce n’era una in particolare, una delle ultime che Aurora gli aveva scritto. Ecco... vorrei leggertela, se me lo permetti.»
La notizia che Aurora era mia nonna mi aveva sconvolto, ma sapevo che quello che Leandro stava per leggere mi avrebbe sconvolto ancora di più. Tuttavia, sentivo che era necessario andare fino in fondo, perciò acconsentii:  «Va bene. Leggi...». E lui cominciò.
Vieri, amore mio.
Sento che la mia vita sta volgendo alla fine. Giorno dopo giorno le forze vengono meno, mi allontano sempre di più con il corpo da tutto quello che mi circonda e sento la mia mente libera di volare. E’ una sensazione nuova, qualcosa che avrei desiderato mille volte quando ero giovane, per sfuggire a questo destino che mi ha voluto lontano da te. Eppure forse oggi lo apprezzo di più, perchè mi consente di ritrovarti in un tempo ed in un luogo che è solo nostro, dove nessuno può scovarci, disturbarci, distrarci, rubarci l’uno all’altro come hanno crudelmente fatto in passato.
Amore mio, sento che è il momento di confidarti qualcosa che da lungo tempo sto meditando dentro di me. E la voglio condividere con te proprio adesso, che mi avvicino verso la fine e che in me si fa strada la certezza che non potrò mai rivederti.
In questi lunghi anni di vita normale, di vita persa dietro a cose tutto sommato banali, quelle della vita di ogni giorno, che comunque banali non sono, di quei giorni nei quali vivi la mattina aspettando che venga la sera e la sera ti addormenti sperando che la mattina possa giungere presto, ebbene, in questi anni io mi sono sempre chiesta come sarebbe stata la vita con te. Quella stessa vita normale che io vivevo, cercavo di immaginarla vissuta insieme a te. E la risposta che mi ha sempre ossessionato e che ho sempre cercato di rifuggire era solo una ed ora io sento di doverla condividere con te.
Il nostro amore non sarebbe sopravvissuto a questa normalità. Forse per te, che più di me avevi sperato nel matrimonio ed in una vita insieme, sarà difficile accettarlo, eppure io ne sono convinta e vorrei spiegartene il motivo.
Io e te siamo sempre stati due specchi e questo è il motivo che ci ha consentito di riconoscerci fin da subito, dal primo istante che ci siamo incontrati. Ci siamo annusati e ci siamo trovati uguali. Non avevo bisogno di trovare le parole per esprimere quello che provavo, perchè sentivo che tu lo sapevi. Ed era vero il contrario. Quando ero disperata, tu lo sentivi e mi stringevi. Quando ero felice, tu mi portavi nei prati a correre. Le nostre anime sapevano perfettamente cosa aspettarsi l’una dall’altra, senza bisogno nè di parole, nè di gesti. Anche la parte più profonda di noi, la nostra “anima nera”, quella che vibra indipendentemente dall’etica sociale, nelle emozioni più sconce e perverse, anche quella era uguale. Sentivamo la vita nello stesso modo, ci sentivamo un po’ “perduti e maledetti”, per quella inquietudine che a volte ci prendeva. Ricordi i pomeriggi passati a leggere Baudelaire e “Les Fleurs du Mal”?
Con il tempo io ho acquisito la certezza di non saper amare, e so che non sarei riuscita nemmeno ad amare te, se ti fossi rimasta vicina. Prima o poi sarei volata via. E proprio perchè in te vedevo il mio specchio, so che questo sarebbe successo anche a te. Era solo questione di tempo. Era solo questione di indovinare a chi di noi sarebbe successo prima.
Per questo sono stata grata a mio padre per avermi mandato via e per questo non sono più tornata. Perchè solo così il mio amore per te ha trovato il fuoco per alimentarsi  giorno dopo giorno e vivere fino ad oggi. La tua assenza ed il tuo desiderio lo hanno mantenuto vivido nel mio cuore e lo hanno fatto crescere così come la tua presenza non avrebbe potuto. La nostra separazione è stata dunque la nostra maledizione e la nostra salvezza.
Il mio desiderio più grande sarebbe stato rivederti almeno una volta per poterti guardare negli occhi e poterti dire questo. Ora so che non mi manca molto tempo, che presto volerò laddove non sono sicura di poterti rivedere, perchè non so, davvero, cosa ci sia dopo la morte, se un altro tempo ed un altro luogo o il nulla.
Sei stato l’unico uomo che nella mia vita ha saputo accompagnare quest’anima irrequieta. Di questo te ne sarò sempre grata. E sono certa, davvero certa, che tu stesso alla fine sarai giunto alla stessa conclusione. Ne sono certa, perchè, tra di noi, le parole sono sempre state superflue...
Tua amata Aurora
Avevo deciso.
Aurora mi aveva confermato quello che sentivo nel profondo del mio cuore: l’unico modo per tenere dentro di me Leandro, era di lasciarlo andare via. Solo così sarebbe rimasto per sempre nel mio cuore. Era una scelta difficile, irragionevole ed illogica, soprattutto dopo quel bacio in punta di labbra. Così lo guardai. Gli baciai la guancia, gliela carezzai, lo guardai negli occhi senza parlare, mi voltai e me ne andai.
Quel giorno faceva molto caldo. Sentivo un calore diffuso sulla mia schiena, mentre camminavo, di spalle al sole. Ma sapevo, dentro di me, che quel calore non era il sole, bensì era lo sguardo di Leandro che accarezzava la mia pelle, lentamente percorrendo il tratto dalla nuca ai fianchi e poi risalendo su.
Lui sarebbe rimasto attaccato alla mia pelle per sempre, così come i suoi occhi grigi avrebbero per sempre specchiato i miei, sebbene avessi scelto di non essere più davanti a lui a guardare la mia immagine.
Era l’unica scelta possibile perché quello specchio non andasse in frantumi.
L’unica scelta possibile per poterlo amare.

The Velvet Underground - I'll be your mirror


2 commenti:

  1. Delicato, profondo e... crudelmente vero...

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  2. Ma che bello!
    Possono due esseri umani aggrovigliarsi così tanto tra loro, da diventarne simbioticamente inscindibili fino a vivere vite parallele?
    Bellissimo: quando sei così ispirata raggiungi vette davvero elevate!

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