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18 apr 2013

Il sorriso imperfetto - Capitolo 37

L’elettroshock non era l’ultima spiaggia della disperazione, era un tentativo come un altro: per essere sottoposti a quel trattamento, era sufficiente avere una normale reazione di rabbia o di frustrazione, dettate da quel sentimento di impotenza che attanagliava chiunque fosse ricoverato in quel luogo. Prima o poi capitava a tutti di avere quella reazione inconsueta che spingeva qualcuno a decidere che ci fosse bisogno di una scarica elettrica per resettare il cervello. Imbragavano il corpo su una lettiga, infilando una pezza in bocca perché il malato non potesse farsi del male e attaccavano gli elettrodi;  poi partivano con le scariche e quel corpo tremava e sobbalzava su quel lettino in convulsioni ininterrotte, si sollevava e ripiombava giù sotto il fermo delle imbragature. Alla fine le membra stanche si afflosciavano sul letto e la mente era liquefatta in uno stato di morte cerebrale. Quello che prima era una parvenza di uomo, si riduceva al fantasma di un altro fantasma, tanto quell’esperienza riusciva ad assottigliare il suo spirito. Spesso il paziente era fortunato, perdeva coscienza e non ricordava più nulla; frequentemente egli  riportava fratture, bruciature, escoriazioni e stiramenti muscolari, ma più di tutto, restava in qualche modo in lui il ricordo di quelle scariche che gli resettavano l’anima.

Sai, Lisa, come è nata l’idea dell’elettroshock? La dobbiamo ad un neurologo italiano, Ugo Cerletti, nato nella seconda metà dell’Ottocento. Cerletti aveva osservato che i maiali condotti al macello erano anestetizzati prima della morte con una scarica elettrica di medio voltaggio: delle tenaglie metalliche venivano applicate alle tempie dei maiali e collegate a corrente elettrica a 125 volt. I maiali perdevano conoscenza, si irrigidivano e dopo qualche secondo erano presi da convulsioni. Mentre erano incoscienti, il macellaio li accoltellava e li dissanguava, senza che questi urlassero con quelle grida stridule che infastidivano la gente intorno, senza soffrire. Provò anche sui cani, con scosse che attraversavano il corpo degli animali per parecchi minuti e senza far attraversare per la teste la corrente, così non morivano. Da lì all’esperimento sull’uomo passò davvero poco tempo. La prima vittima arrivò nel 1938, un povero disgraziato quarantenne di Milano, arrestato a Roma per vagabondaggio: si aggirava sui treni in partenza senza biglietto e in stato confusionale. Il commissariato di Roma lo inviò a Cerletti e la diagnosi fu di schizofrenia, anche se successivamente furono avanzati molti dubbi sulla sua correttezza. Gli applicarono due elettrodi e lo martellarono con corrente a bassa densità per qualche decimo di secondo, ma i risultati furono quasi nulli. Così il giorno dopo ci riprovarono, per lo stesso tempo, ma con un voltaggio superiore. Il paziente non era consenziente, anzi, dopo il primo tentativo, quando comprese che lo avrebbero sottoposto nuovamente a quel trattamento, li aveva implorati di non farlo.
Cerletti non era solo: aveva tutto il supporto di una comunità scientifica che aveva una visione tipicamente organica delle malattie mentali, e di uno Stato che riteneva di avere il diritto di disporre a piacimento dei condannati come cavie in esperimenti particolarmente pericolosi, perché potessero restituire il loro debito alla società. Pensa che per questa “grande” idea, Treviso, la città natale di Cerletti,  gli ha perfino dedicato la Scuola di Enologia.
Fu solo più avanti, negli anni Quaranta e Cinquanta, che si iniziò ad osteggiare l’elettroshock, grazie allo sviluppo della psicoanalisi, che non poteva continuare ad appoggiare la teoria che la causa delle malattie mentali fosse a livello neuronale. E più avanti la scoperta degli psicofarmaci e il movimento sessantottino portarono ad un uso sempre più ridotto dell’elettroshock.
Oggi si usa ancora, non credere... Nel 1999 una circolare del Ministero della Sanità ne ha limitato i termini per il ricorso. Le diagnosi nelle quali si usa ancora l’elettroshock sono quelle di depressione, con alto rischio di suicidio o addirittura una serie già tentata di suicidi, stati di catatonia, schizofrenie resistenti ad altri trattamenti o impossibilità di utilizzare farmaci su pazienti gravide. Capisci? Pazienti “gravide”. Qualche ritocco all’anestesia, alla potenza della corrente utilizzata, alla durata dell’impulso e per mettersi di più la coscienza a posto, la firma della liberatoria da parte del paziente stesso o, quando questi non collabora, quella di un diretto familiare.
Un quarto dei pazienti non ne trae beneficio. Tre quarti dei pazienti, invece, si sentono meglio e non riescono nemmeno a credere di aver detto o fatto certe cose. Il paradiso dura poco: i trattamenti devono essere comunque somministrati a cicli di più settimane, e soprattutto devono essere ripetuti nel tempo. Nulla di cui stupirsi, comunque... Come diceva Basaglia, è come dare una botta a una radio rotta: prima o poi riprende a funzionare. L’unico vantaggio di questa terapia è la velocità, se paragonata al periodo in cui gli antidepressivi iniziano a far sentire la loro efficacia, e in alcuni casi, è vero, il tempo è vitale. Tuttavia non mancano gli effetti collaterali. Se l’elettroshock avesse un proprio bugiardino, ci sarebbe scritto come indicazioni “frigge o buca il cervello” e come effetti collaterali “mal di testa, dolori muscolari, confusione mentale, perdita della memoria a breve termine per un periodo che varia da alcuni giorni a qualche mese”.
Il perché funzioni o comunque la certezza della sua efficacia sono privi di fondamento scientifico. Sono una cinquantina le teorie elaborate a supporto dell’elettroshock: nessuna, capisci?, nessuna si è dimostrata esatta. Lo sanno tutti, così come tutti sanno che gli stessi risultati possono essere raggiunti con trattamenti cognitivi-comportamentali, farmacologici, assistenziali e psicoterapeutici. Solo che nessuno vuole ammetterlo e parecchi istituti, anche qui in Italia, continuano a praticarlo a scopo terapeutico, pur avendone ristretto formalmente gli ambiti nei casi prescritti dalla legge: in Italia tra il 2008 ed il 2010 ne sono stati eseguiti più di millequattrocento e non ci metterei la mano sul fuoco che tali casi rientrino tutti in quelli ammessi. Negli Stati Uniti sembra siano addirittura centomila. Ovviamente, non esistono statistiche ufficiali...
E poi dimmi, Lisa, se io te lo proponessi, tu riusciresti a scegliere se sottoporti o meno a questo trattamento? O i tuoi familiari, in tutta coscienza, riuscirebbero a capire se sia giusto dare il loro assenso? Non esistono basi certe per una scelta consapevole... quindi su cosa fondi la tua scelta, solo su un’apparente recessione dei sintomi nelle prime sedute, per “sentito dire”, perché te lo dice un altro? In ogni caso una sola seduta non basta e nel tempo queste devono essere ripetute, con risultati che sono comunque fugaci. Una cosa buona è successa nel tempo: oggi l’elettroshock è davvero l’ultima la spiaggia sulla quale ti areni quando non sai più cosa fare, quando non riesci a comprendere la psicologia del paziente, le ragioni dei suoi comportamenti, e ti accanisci sul suo cervello e su tutto il suo corpo credendo che esso nasconda da qualche parte la sua follia, invece di guardargli dentro e sradicargliela dall’anima.

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