L’elettroshock non era
l’ultima spiaggia della disperazione, era un tentativo come un altro: per
essere sottoposti a quel trattamento, era sufficiente avere una normale
reazione di rabbia o di frustrazione, dettate da quel sentimento di impotenza che
attanagliava chiunque fosse ricoverato in quel luogo. Prima o poi capitava a
tutti di avere quella reazione inconsueta che spingeva qualcuno a decidere che ci
fosse bisogno di una scarica elettrica per resettare il cervello. Imbragavano il
corpo su una lettiga, infilando una pezza in bocca perché il malato non potesse
farsi del male e attaccavano gli elettrodi; poi partivano con le scariche e quel corpo
tremava e sobbalzava su quel lettino in convulsioni ininterrotte, si sollevava
e ripiombava giù sotto il fermo delle imbragature. Alla fine le membra stanche
si afflosciavano sul letto e la mente era liquefatta in uno stato di morte
cerebrale. Quello che prima era una parvenza di uomo, si riduceva al fantasma
di un altro fantasma, tanto quell’esperienza riusciva ad assottigliare il suo
spirito. Spesso il paziente era fortunato, perdeva coscienza e non ricordava
più nulla; frequentemente egli riportava
fratture, bruciature, escoriazioni e stiramenti muscolari, ma più di tutto,
restava in qualche modo in lui il ricordo di quelle scariche che gli
resettavano l’anima.
Sai, Lisa, come è nata l’idea dell’elettroshock? La dobbiamo
ad un neurologo italiano, Ugo Cerletti, nato nella seconda metà dell’Ottocento.
Cerletti aveva osservato che i maiali condotti al macello erano anestetizzati
prima della morte con una scarica elettrica di medio voltaggio: delle tenaglie
metalliche venivano applicate alle tempie dei maiali e collegate a corrente
elettrica a 125 volt. I maiali perdevano conoscenza, si irrigidivano e dopo
qualche secondo erano presi da convulsioni. Mentre erano incoscienti, il
macellaio li accoltellava e li dissanguava, senza che questi urlassero con
quelle grida stridule che infastidivano la gente intorno, senza soffrire. Provò
anche sui cani, con scosse che attraversavano il corpo degli animali per
parecchi minuti e senza far attraversare per la teste la corrente, così non
morivano. Da lì all’esperimento sull’uomo passò davvero poco tempo. La prima
vittima arrivò nel 1938, un povero disgraziato quarantenne di Milano, arrestato
a Roma per vagabondaggio: si aggirava sui treni in partenza senza biglietto e
in stato confusionale. Il commissariato di Roma lo inviò a Cerletti e la
diagnosi fu di schizofrenia, anche se successivamente furono avanzati molti
dubbi sulla sua correttezza. Gli applicarono due elettrodi e lo martellarono
con corrente a bassa densità per qualche decimo di secondo, ma i risultati
furono quasi nulli. Così il giorno dopo ci riprovarono, per lo stesso tempo, ma
con un voltaggio superiore. Il paziente non era consenziente, anzi, dopo il
primo tentativo, quando comprese che lo avrebbero sottoposto nuovamente a quel
trattamento, li aveva implorati di non farlo.
Cerletti non era solo: aveva tutto il supporto di una
comunità scientifica che aveva una visione tipicamente organica delle malattie
mentali, e di uno Stato che riteneva di avere il diritto di disporre a
piacimento dei condannati come cavie in esperimenti particolarmente pericolosi,
perché potessero restituire il loro debito alla società. Pensa che per questa
“grande” idea, Treviso, la città natale di Cerletti, gli ha perfino dedicato la Scuola di
Enologia.
Fu solo più avanti, negli anni Quaranta e Cinquanta, che si
iniziò ad osteggiare l’elettroshock, grazie allo sviluppo della psicoanalisi,
che non poteva continuare ad appoggiare la teoria che la causa delle malattie
mentali fosse a livello neuronale. E più avanti la scoperta degli psicofarmaci
e il movimento sessantottino portarono ad un uso sempre più ridotto
dell’elettroshock.
Oggi si usa ancora, non credere... Nel 1999 una circolare
del Ministero della Sanità ne ha limitato i termini per il ricorso. Le diagnosi
nelle quali si usa ancora l’elettroshock sono quelle di depressione, con alto
rischio di suicidio o addirittura una serie già tentata di suicidi, stati di
catatonia, schizofrenie resistenti ad altri trattamenti o impossibilità di
utilizzare farmaci su pazienti gravide. Capisci? Pazienti “gravide”. Qualche
ritocco all’anestesia, alla potenza della corrente utilizzata, alla durata
dell’impulso e per mettersi di più la coscienza a posto, la firma della
liberatoria da parte del paziente stesso o, quando questi non collabora, quella
di un diretto familiare.
Un quarto dei pazienti non ne trae beneficio. Tre quarti dei
pazienti, invece, si sentono meglio e non riescono nemmeno a credere di aver
detto o fatto certe cose. Il paradiso dura poco: i trattamenti devono essere
comunque somministrati a cicli di più settimane, e soprattutto devono essere
ripetuti nel tempo. Nulla di cui stupirsi, comunque... Come diceva Basaglia, è
come dare una botta a una radio rotta: prima o poi riprende a funzionare.
L’unico vantaggio di questa terapia è la velocità, se paragonata al periodo in
cui gli antidepressivi iniziano a far sentire la loro efficacia, e in alcuni
casi, è vero, il tempo è vitale. Tuttavia non mancano gli effetti collaterali.
Se l’elettroshock avesse un proprio bugiardino, ci sarebbe scritto come
indicazioni “frigge o buca il cervello” e come effetti collaterali “mal di
testa, dolori muscolari, confusione mentale, perdita della memoria a breve
termine per un periodo che varia da alcuni giorni a qualche mese”.
Il perché funzioni o comunque la certezza
della sua efficacia sono privi di fondamento scientifico. Sono una cinquantina
le teorie elaborate a supporto dell’elettroshock: nessuna, capisci?, nessuna si
è dimostrata esatta. Lo sanno tutti, così come tutti sanno che gli stessi
risultati possono essere raggiunti con trattamenti cognitivi-comportamentali,
farmacologici, assistenziali e psicoterapeutici. Solo che nessuno vuole
ammetterlo e parecchi istituti, anche qui in Italia, continuano a praticarlo a
scopo terapeutico, pur avendone ristretto formalmente gli ambiti nei casi
prescritti dalla legge: in Italia tra il 2008 ed il 2010 ne sono stati eseguiti
più di millequattrocento e non ci metterei la mano sul fuoco che tali casi
rientrino tutti in quelli ammessi. Negli Stati Uniti sembra siano addirittura
centomila. Ovviamente, non esistono statistiche ufficiali...
E poi dimmi, Lisa, se io te lo
proponessi, tu riusciresti a scegliere se sottoporti o meno a questo
trattamento? O i tuoi familiari, in tutta coscienza, riuscirebbero a capire se
sia giusto dare il loro assenso? Non esistono basi certe per una scelta
consapevole... quindi su cosa fondi la tua scelta, solo su un’apparente
recessione dei sintomi nelle prime sedute, per “sentito dire”, perché te lo
dice un altro? In ogni caso una sola seduta non basta e nel tempo queste devono
essere ripetute, con risultati che sono comunque fugaci. Una cosa buona è
successa nel tempo: oggi l’elettroshock è davvero l’ultima la spiaggia sulla
quale ti areni quando non sai più cosa fare, quando non riesci a comprendere la
psicologia del paziente, le ragioni dei suoi comportamenti, e ti accanisci sul
suo cervello e su tutto il suo corpo credendo che esso nasconda da qualche
parte la sua follia, invece di guardargli dentro e sradicargliela dall’anima.
Nessun commento:
Posta un commento