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19 giu 2013

Intervista a Carla Pavone - di Paolo Savini

Paolo Savini, scrittore

 

Sono nato in una località imprecisata della Toscana mentre mia madre inseguiva mio padre, ufficiale dei carabinieri “non allineato”, tenuto prigioniero delle forze di occupazione tedesche che risalivano l’Italia da Sud a Nord. Alla fine della guerra mi sono ritrovato a vivere nell’alloggio che mio padre aveva all’interno della caserma di Siena e vi sono rimasto sino all’età di dodici anni quando è stato trasferito a Milano con la famiglia dissenziente al seguito. Alla Cattolica ho frequentato i corsi di economia e poi di legge ma a dispetto di quanto mio padre avesse in mente per me ho cominciato a viaggiare per conto dell’ICE per promuovere le imprese italiane all’estero.
 

All’inizio due anni in Europa da dove, conquistate le referenze necessarie, sono stato spedito in Giappone. Da lì alla Cina il passo è stato breve e ci sono arrivato dopo incarichi in Corea, India e Filippine. In quei lunghi soggiorni ho cominciato a scrivere, per lo più racconti, che ho sempre scritto in maniera disordinata quanto compulsiva.

Nel 1978 sono atterrato per la prima volta al JFK di New York realizzando così il sogno della vita. Per vent’anni ho girato gli Stati Uniti sino a quando sono approdato all’Ambasciata Italiana a Washington e ho iniziato a collaborare con l’Istituto Italiano di Cultura, dando il mio contributo alla creazione di eventi culturali nel mondo dell’arte e della letteratura. In uno di questi eventi ho conosciuto Philip Roth del quale avevo già letto molte opere ma ascoltarlo mentre mangiavo al suo tavolo mi è stato fatale. Mi sono riconosciuto nella maggioranza dei suoi personaggi, pur diversi tra loro, al punto di far vacillare la mia stessa identità. I libri che più degli altri hanno inciso nella mia formazione sono stati: “Lo scrittore fantasma”, Il fantasma esce di scena”, “L’animale morente” ed “Everyman”: quest’ultimo in particolare con il passaggio della cerimonia funebre è stato la base di partenza de “Il buio che non ti aspetti”.


 
Il buio che non ti aspetti
ISBN 9788891049247
Ordinabile a breve presso le librerie Feltrinelli
 
Marketing e dintorni:
 
Di prossima uscita: La vita non è per sempre
 
 

Paolo Savini in Sei domande: intervista a Carla Pavone, autrice di “Come battito d’ali” e “Il sorriso imperfetto” presto disponibili in tutte le librerie Feltrinelli.


Intervista pubblicata su Facebook: https://www.facebook.com/Paolo.Savini.USA#!/photo.php?fbid=615670858452396&set=a.558551464164336.126371.541512792534870&type=1&theater




Buongiorno Carla, vorrei iniziare chiedendoti a quale età ti sei avvicinata alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito. Inoltre, scrivevi per comunicare o per leggerti.
Alle elementari ho scritto il mio primo racconto, ispirato ad un incubo notturno.

Dalla seconda media e per tutto il liceo, scrivevo diari, riportando in essi la rabbia e i sentimenti più profondi della mia adolescenza. Ripresi a scrivere durante le mie maternità: un diario che voleva raccontare ai miei figli il percorso che stavo facendo con loro nei primi anni della loro infanzia. Quel diario diventò il primo libro, “Malafemmena”, al quale seguì “Ci vediamo piccoletta”, ma abbandonai entrambi, perché erano solo un colloquio con me stessa. Come dice Philip Roth in I fatti , “La persona alla quale intendevo rendermi visibile in queste pagine ero, in primo luogo, me stesso”.
Tra il 2009 e il 2011 avvenne il grande salto. “Come battito d’ali”, il blog “Il Pavone Bianco” e la collaborazione su un blog di amici mi hanno avvicinato al pubblico ed i commenti ricevuti mi fecero capire che se scrivere è bello, emozionare qualcuno con le proprie parole lo è molto di più.
 



Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, a quale distanza dai due tu collocheresti il tuo modo di produrre scrittura?
Mi sento molto più vicino all’istinto creativo quando nasce l’idea del racconto o del romanzo e quando devo trasformare quell’idea in parole.
La parte razionale interviene successivamente, quando è necessario battere i tempi, curare i dettagli, garantire la coerenza della trama, recuperare informazioni, creare intrecci sensati tra i personaggi e rivedere le bozze.

Alcuni autori famosi, cascasse il mondo, erano soliti scrivere tutte le mattine, altri rigorosamente e soltanto la notte. Tu hai un metodo rigido da rispettare o lo vivi nel caos della vita cercando un’ispirazione?
Direi un mix delle due cose.
Molte idee spuntano inattese durante la giornata: un SMS di un amico che scrive “tra 8 minuti arrivo” (racconto Otto minuti), una signora che esce da una farmacia (racconto Era Clarissa ), un amico che racconta la propria storia d’amore (racconti Il cappello di paglia, L’uomo della pipa, L’ombra di Cyrano). Anche il tema della schizofrenia in “Il sorriso imperfetto” (di prossima uscita) è nato per caso, guardando il film “The Alphabet Killer”. L’ispirazione è fondamentale e ovunque mi colga devo fermarla: ho scritto ovunque - sul divano, a letto, in cucina, in sala, in metro, nelle pause di lavoro, al semaforo, scendendo o salendo le scale, camminando – su strumenti a volte improvvisati come post-it, pezzi volanti di carta, blackberry, o pagine bianche di libri che sto leggendo.
Una volta maturata l’idea nei tratti essenziali, mi impongo comunque un impegno più o meno regolare per terminarlo. Condivido l’opinione di Stephen King che in “On Writing” sosteneva che per scrivere servono disciplina e regolarità, pertanto, quando avvio un progetto, romanzo o racconto che sia, cerco sempre di scrivere almeno qualche pagina al giorno. In questi casi, il momento in cui preferisco scrivere è di notte.

Di cosa non puoi fare a meno quando scrivi? Hai qualche curiosità o aneddoto da raccontarci al riguardo?
Ritengo che sia fondamentale avere un posto mio, più mentale che fisico. Mi innervosiscono le interruzioni di qualunque genere, soprattutto dettate da stupidaggini per le quali posso essere disturbata in un altro momento. “Non si interrompe un’emozione”.
Aneddoti? Sono spesso scesa alla fermata sbagliata del metro, essendo troppo concentrata a scrivere sul mio cellulare. Più volte ho rischiato di essere investita, perché scrivevo al cellulare senza guardare la strada. La cosa che mi ha stupita di più è stato, tuttavia, ritrovare sul World Wide Web una valida fonte di ispirazione o di approfondimento: scrivendo per passione non ho la possibilità di intervistare esperti, approfondire argomenti sconosciuti o vedere luoghi nei quali non sono mai stata. Google Maps è stata ed è una riserva straordinaria: ad esempio, la casa in cui vivono Viola e Morgan di “Il sorriso imperfetto” l’ho scelta navigando con Google Maps lungo Marina Boulevard ed è un mio sogno andare a S.Francisco per vederla dal vivo, soprattutto dentro. Idem per Casablanca e soprattutto le spiagge di Mohammedia e Zenata Beach di “Come battito d’ali”.

Scriverti ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, credi che la letteratura ti abbia fornito strumenti migliori per realizzare i tuoi desideri
La scrittura è per me una continua fonte di soddisfazione personale, sia a livello intimo che per i riconoscimenti che ricevo da chi mi legge. Creare situazioni nuove, curarne i dettagli, definire i personaggi, inventarsi trame e svilupparle e, soprattutto, trovare le parole giuste per definire ogni emozione è qualcosa che mi appaga profondamente. Non smetterei mai. Qualcuno mi dice che scrivo troppo, ma davvero non riesco a farne a meno, innanzi tutto per me stessa.
Se parliamo di realizzazione di desideri, ritengo di essere lontana dal mio desiderio più grande: poter vivere (anche economicamente) dei miei romanzi, dedicando anche il mio spazio “lavorativo” alla scrittura. Mi sono, quindi, rassegnata a mantenere il mio lavoro ancora per molti anni, lasciando che il tempo della scrittura sia solo una sequenza di attimi rubati per passione.

Abbiamo finito Carla, questa è l’ultima. Quanto lo scrivere ti causa dolore, visto il genere passionale nel quale ti immergi, e quanto poi i tuoi libri si sono rivelati terapeutici quando riaffiori alla vita?
Io direi che NON scrivere mi causa dolore. Il desiderio di scrivere, a volte irrefrenabile, spesso mi ha portato a piccoli conflitti familiari. E’ per questo che, quando posso, scrivo di sera o di notte, cioè nei momenti in cui scrivere non sottrae il mio tempo a nessun altro.
Credo in me ci siano tre “arterie”:
- L’arteria “fantastica”: è quella delle favole. Adoro le streghe, i folletti, i fantasmi e i Peter Pan. In alcuni racconti ho giocato molto con questi personaggi e scrivere questo tipo di storie mi diverte e mi consente di evadere dalla realtà. Il rientro ad essa è spesso mitigato da quella magia che mi porto dentro dopo aver creato le mie favole.
- L’arteria “noir”: è quella dei thriller. Adoro descrivere scene di omicidi e mi affascina il mondo dei serial killer. Scrivere storie di questo tipo è per me una sfida contro gli istinti più violenti che a volte si affacciano dal profondo. Il rientro alla realtà costituisce il ritorno alla normalità dopo un attimo di follia.
- L’arteria “emotiva”: è quella principale, sempre presente nelle mie storie, di qualunque tipo esse siano. E’ quella che ha più a che fare con il dolore, un dolore che però sento già dentro di me, indipendentemente dal fatto che io riporti emozioni personali o emozioni di altri. Nella maggior parte dei casi è proprio il dolore che mi spinge a scrivere e raccontare: nei periodi davvero felici della mia vita, non ho mai scritto una riga.
L’esternalizzazione del dolore attraverso la scrittura mi consente di liberarmi delle mie emozioni, sì che esse finiscono per apparirmi come se non fossero mie: ciò mi consente di affrontarle e superarle. Ogni libro rappresenta una parte significativa di me e mi permette, una volta terminato, di riconciliarmi con un passato che il più delle volte è causa ed ispirazione del libro stesso.
 
Grazie, Paolo!


 

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