dove un
tremito scuote gli ultimi radi e tristi capelli grigi,
dove la
giovinezza impallidisce, si fa spettrale e muore,
dove il solo
pensare è tutto un tormento…»
John Keats, Ode a un usignolo
Trama
Il suo nome è “Everyman”,
come tutti, verrebbe da dire. Il romanzo di Philip Roth, poco più di cento
pagine intrise di morte, racconta la storia di un ex pubblicitario, con tre ex
mogli, tre figli, due maschi, Randy e Lonny, che nutrono rancore nei suoi
confronti, nati dal primo matrimonio, e una ragazza, Nancy, che lui ama sopra
ogni cosa, nata dal suo secondo matrimonio, un fratello maggiore, la cui stima
giovanile, con il passare dell’età si è trasformata in profonda invidia.
Il romanzo si apre
con la celebrazione del suo funerale. Seguono, poi, le vicende più
significative della sua esistenza, raccontata attraverso un continuo alternarsi
di salti avanti e indietro nel tempo, frammenti non disposti cronologicamente,
ma tenuti assieme saldamente dal collante irrespirabile della fine di ogni
cosa. “Incontri terrificanti con la fine?
Ho trentaquattro anni! Comincia a preoccuparti dell’oblio, diceva tra sé e sé,
quando ne avrai settantacinque! Il futuro remoto sarà il momento giusto per
affiggersi pensando alla catastrofe finale!”. Il romanzo non racconta altro
che l’avvicinarsi a quella tanto odiata catastrofe finale.
“Everyman” altro non è che un romanzo
sullo scioglimento di un corpo, sul trascorrere del tempo che trasforma il
vigore in malattia, la salute in disfacimento.
Non basta il suo trasferimento, nel 2001, dalla New York del
post 11 settembre a New Jersey, in un residence abitato da soli anziani, dove
cerca di rendersi utile dando lezioni di pittura, sua grande e immensa
passione. No, non basta: “Non c’era più
nulla che stimolasse la sua curiosità o che rispondesse ai suoi bisogni, né la
pittura, né la famiglia, né i vicini, nulla tranne le giovani donne che gli
passavano davanti facendo jogging la mattina sulla promenade. Mio Dio, pensava,
che uomo ero una volta! Che vita avevo intorno! Che forza avevo dentro! Nessuna
alterità da avvertire! Una volta ero completo: ero un essere umano”.
Non ci sono barlumi di speranza. Dimenticate Portnoy e il vigore del suo corpo
sessualmente attivo. Qui ci troviamo di fronte ad una macchina sessuale spenta.
Dolente la scena in cui il protagonista, dopo aver fermato una bellissima
ragazza che fa jogging, le dona il suo numero di telefono. Aspettandosi,
magari, di essere richiamato. Come gli accadeva in precedenza. In fondo la sua
terza moglie era una modella. Quando la conobbe aveva 50 anni e lei 24. Le
cose, in questo caso, non vanno così: “Non
chiamò mai. E durante le sue passeggiate lui non la vide più. Doveva aver
deciso di fare jogging su un altro tratto della promenade, frustrando così il
suo desiderio di un’ultima grande vampata di ogni cosa”. Non ci sono più
vampate per il protagonista. Muore in un ospedale, dopo un intervento
chirurgico, chiudendo ciclicamente una storia apertasi con la sua sepoltura.
Quotes
E’ impossibile rifare la realtà. Devi prendere le cose come
vengono. Tener duro e prendere le cose come vengono. Non c’è altro sistema.
E’ una faccenda impegnativa per un operaio comprare un
diamante, - diceva ai figli, - per piccolo che sia. La moglie può portarlo per
bellezza e può portarlo per ragioni di prestigio. E quando lo porta, quest’uomo
non è solo un idraulico: è il marito di una donna con un diamante. Sua moglie
porta una cosa che è indistruttibile. Perché oltre la bellezza e il prestigio e
il valore, il diamante è indistruttibile. Un pezzo della terra che è
indistruttibile, e un semplice mortale lo porta al dito!
Suo fratello, elegante in un abito scuro, una camicia
bianca, una cravatta nera e sfavillanti scarpe nere, si avvicinò al mucchio di
terra per estrarne una delle vanghe, e poi provvide a colmarne la lama finché
non fu traboccante di terriccio. Quindi camminò cerimoniosamente fino a un capo
della fossa, rimase là un momento immerso nei suoi pensieri, e inclinando un
po’ la vanga lasciò scorrere lentamente il terriccio. Cadendo sul coperchio di legno
della bara, esso mandò quel suono che ognuno di noi assorbe nel proprio essere
come nessun altro.
Sono i dilettanti a cercare l’ispirazione; tutti gli altri
si rimboccano le maniche e si mettono al lavoro.
Quando sei giovane è l’esterno del corpo che conta,
l’aspetto che hai esternamente. Quando invecchi, ciò che conta è quello che c’è
dentro, e la gente smette di badare all’aspetto che hai.
Sai cosa mi farebbe bene? – disse lei – Il suono della voce
che è scomparsa. La voce dell’uomo eccezionale che amavo. Credo che riuscirei a
sopportare tutto questo, se lui fosse qui. Ma senza di lui non ce la faccio.
La maggior parte della gente, era convinto, lo avrebbe
considerato un conformista. Lui stesso da giovane si considerava un
conformista, così tradizionale e poco avventuroso che dopo l’accademia, invece
di fare il pittore e vivere con i soldi che riusciva a raggranellare – che era
la sua segreta ambizione – aveva fatto il bravo e, esaudendo più i desideri dei
genitori che ii suoi si era sposato, aveva avuto dei figli e, per avere un
lavoro sicuro, si era dato alla pubblicità. Non aveva mai pensato di essere
qualcosa di più di un normale essere umano, uno che avrebbe dato qualunque cosa
perché il suo matrimonio durasse tutta la vita. Si era sposato proprio con
questa aspettativa. Invece il matrimonio diventò la sua cella carceraria, e
così, dopo molti tortuosi pensieri che lo assorbivano mentre lavorava e quando
avrebbe dovuto riposare, cominciò spasmodicamente, tormentosamente a cercare
una via d’uscita. Non è ciò che avrebbe fatto un normale essere umano? Non è
quello che fanno ogni giorno i normali esseri umani? Contrariamente a ciò che
sua moglie diceva a tutti, non aveva agognato la sfrenata libertà di fare tutto
quello che voleva. Tutt’altro. Agognava qualcosa di stabile mentre aveva sempre
detestato quello che aveva. Non era un uomo che desiderasse una doppia vita.
Non ce l’aveva né con i limiti né con le comodità del conformismo. Aveva solo
voluto svuotare la mente di tutti i brutti pensieri generati dalla sventura di
una prolungata guerra coniugale. Non si considerava eccezionale. Solo
vulnerabile e attaccabile e confuso. E convinto di avere il diritto, come un
normale essere umano, di essere infine perdonato per tutti i dispiaceri che
poteva aver inflitto ai suoi figli innocenti al fine di non fare, per metà del
tempo, una vita da squilibrato.
[...] Randy e
Lonny erano la fonte dei suoi rimorsi più profondi, ma non poteva continuare a
spiegargli il suo comportamento. Ci aveva provato abbastanza spesso quando
erano dei ragazzi: ma allora erano troppo giovani e arrabbiati per capire, e
adesso erano troppo vecchi e arrabbiati per capire. E in fondo cosa c’era da
capire? Gli riusciva inspiegabile, l’emozione che ancora riuscivano seriamente
a ricavare dalla sua condanna. Aveva fatto quello che aveva fatto nel modo in
cui l’aveva fatto così come loro facevano quello che facevano nel modo in cui
lo facevano. Era forse più scusabile la loro posizione, quella irremovibile di
chi non perdona? O era meno nociva nei suoi effetti? Lui non era altro che uno
dei milioni di americani coinvolti in una causa di divorzio che aveva smembrato
una famiglia. Ma aveva forse picchiato la loro madre? Aveva forse picchiato
anche loro? Aveva mancato di mantenere la loro madre o mancato di mantenere
loro? Qualcuno di essi aveva mai dovuto chiedergli dei soldi? E lui, era mai
stato, una volta sola, severo? Non aveva fatto, verso di loro, tutte le
aperture che poteva? Cosa si sarebbe potuto evitare? Così avrebbe potuto fare,
di diverso, che lo avrebbe reso più accettabile, tranne ciò che non poteva
fare, cioè continuare a essere sposato e a vivere con la loro madre? O lo
capivano o non lo capivano; e tristemente per lui, e per loro, non lo capivano.
Così come non avrebbero mai potuto capire che lui aveva perso la stessa
famiglia che avevano perso loro. E senza dubbio c’erano delle cose che era lui
a non poter capire. Se quello era il caso, non era meno triste. Nessuno poteva
dire che non ci fosse abbastanza tristezza per tutti, o abbastanza rimorsi per
suggerire la filza di domande con cui cercava di difendere la storia della sua
vita.
[...] Minimizzata la sua dignità, ingigantivano i suoi difetti,
per un motivo che sicuramente non poteva continuare ad avere, a quest’ora e
dopo tanto tempo, una forza così grande. A più di quarant’anni erano rimasti,
nei rapporti col padre, i bambini che erano quando lui aveva lasciato la loro
madre, bambini che per la loro natura non potevano capire che il comportamento
umano poteva avere più di una spiegazione: bambini, però, con l’aspetto e
l’aggressività degli uomini, e contro la cui opera di delegittimazione non
avrebbe mai potuto opporre una valida difesa. Avevano deciso di farlo soffrire,
qual padre assente, e così il padre soffriva, investendoli di questo potere.
Soffrire per le sue malefatte era tutto ciò che poteva fare per accontentarli,
per pagare il conto, per mostrarsi indulgente come il migliore dei papà verso
la loro esasperante opposizione.
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In fondo a quella carezza mentale c’era una fonte di amara
tristezza che poteva solo intensificare una solitudine insopportabile. Certo,
aveva scelto lui di vivere da solo, ma non così insopportabilmente solo. Il
lato peggiore di quella situazione – essere insopportabilmente solo – era che
dovevi sopportarlo: o questo o sprofondavi. Ti dovevi impegnare a fondo per
impedire alla tua mente di sabotarti voltandosi indietro a guardare avidamente
la sovrabbondanza del passato.
Era come se la pittura fosse stata un esorcismo. Ma
destinata a espellere quale spirito maligno? La più antica delle sue illusioni?
O si era messo a dipingere per cercare di liberarsi dalla consapevolezza che si
nasce per vivere e invece si muore?
Perse conoscenza sentendosi tutt’altro che abbattuto,
tutt’altro che condannato, ancora una volta impaziente di realizzare i propri
sogni, ma ciò nonostante non si svegliò più. Arresto cardiaco. Non esisteva
più, era stato liberato dal peso di esistere, era entrato nel nulla senza
nemmeno saperlo. Proprio come aveva temuto fin dal principio.
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