E' più pazzo chi della propria follia vive,
o chi muore per la follia altrui?
Francesco De Masi, Altrove ma non lontano
Sai il mio nome, non la mia storia.
Hai sentito quello che ho fatto, non quello
che ho passato.
Sai dove abito, non da dove vengo.
Mi vedi ridere, ma non sai quello che ho
sofferto.
Non giudicarmi.
Sapere il mio nome non
significa conoscermi.
Trama
Aveva trent'anni Elen Bennet e non aveva sogni. ...perchè
era la vita che volevo, con tutte le mie forze, perché avevo capito quant'è veloce
l'attimo che spezza un respiro...
Recensione di Paolo Beretta
“Altrove ma non lontano”, di Francesco De Masi, si snoda
attraverso la minuziosa analisi psicologica dei suoi personaggi, fra i quali
svetta, ovviamente, quella della protagonista, Elen, rivelata dal dialogo con
la propria psicanalista e narrata in prima persona, prima ancora che dai fatti.
Ma anche i personaggi più o meno secondari, i suoi amanti, la sua stessa
analista, tutti vivono attraverso la materia fitta, densa dei propri pensieri e
l’analisi delle proprie pulsioni, dei propri sentimenti. La narrazione assume
quindi il sapore della rielaborazione, del continuo interrogarsi e sentirsi,
del rivivere emozioni e esperienze alla lente del ricordo, del rimpianto, della
domanda, dell’interpretazione e dell’intentata spiegazione o giustificazione.
Pochi i fatti e i dettagli, minima l’azione: essi sono perfettamente secondari
e ricorrenti; il sesso è vissuto quasi come un gesto ripetuto senza requie,
ossessivamente, nel tentativo di comprenderne la valenza e la sincerità,
un'espiazione e forse l'unico mezzo nel tentativo di definire cosa realmente
significhi amare. Tutto è sfondo al vissuto dell’anima, al dialogo di ogni
personaggio con altre parti di sé, prima ancora che con l’altro. “Altrove ma
non lontano” è un romanzo che parla dello spettro dell’amore e prova a
interpretare le ragioni che impediscono di viverlo, con il tacito sospetto che
esso non esista affatto. La narrazione si regge su uno stile denso, profondo,
lirico e sanguigno al contempo, onesto e consapevolmente diretto che, vivendo
nel risvolto psicologico, enfatizza con arte sensazioni, visioni e stati
d’animo. Davvero notevole la capacità di Francesco De Masi di dare voce alle
parti più intimamente radicate nel cuore e nell’animo dei personaggi, dando
così vita, nel dubbio e nel rimpianto, in un ultimo efficace colpo di coda,
anche alla voce interrogativa di Magda, la psicanalista, che fino a quel
momento era stata relegata nel ruolo di silenziosa ascoltatrice delle
rivelazioni dell’inafferrabile protagonista. Come un flusso di pensieri e
sensazioni vissuti in presa diretta, in un continuo senza vuoti, né silenzi, né
tregua, la coscienza viva, pulsante e disorientata dei protagonisti ci
accompagna dall’inizio alla fine, facendo degli agiti un fatto di mera
fenomenologia esteriore, una conseguenza, di più, un simbolo, un ricordo,
un’ipotesi, forse soltanto un sogno. Per chi pensa ancora di averne. Lo stile
di Francesco De Masi sopperisce e riscatta, a nostro avviso, qualche lacuna
nell’impianto narrativo e nell’architettura del racconto, rendendocelo comunque
sempre palpitante, sincero e indubbiamente godibile.
Recensione di Kate Radix
L'autore ha un'invidiabile capacità descrittiva degli stati
d'animo ed è un abile osservatore dell'universo femminile, soprattutto di
quegli angoli in cui una donna ferita va a rifugiarsi trasformando il dolore in
apatia, le lacrime in sorrisi, la voglia di farla finita nell'urgenza di andare
avanti e scappare altrove, ma non lontano.
Così adesso
cammino e indovino
dove porta
quel ponte.
Dove inizia
e finisce il destino
dei passi
verso un
altro orizzonte
E lascio i
miei sogni a te,
perché tu li
riprenda domani.
E tengo i
ricordi per me,
ma come in
un battere d'ali.
(C. De
Andrè: Disegni nel vento)
Citazioni
Pensò che quello era il modo migliore per rendere visibile
la sua solitudine, il solo mezzo per fare ascoltare la sua voce. Una supplica
lacrimevole per un desiderio solo suo, la voglia che aveva di essere madre e
non soltanto di figli, ma figlia lei stessa, destinataria di attenzione e
affetto e che il suo corpo servisse non solo a soddisfare un approdo nei
momenti di malinconia, ma anche gioiosa àncora del futuro e pietra salda di
quell’unione sbagliata. Si raccolse come un bambino nel grembo materno,
incurante ai rumori e al sole, sorda al suo pianto che saliva, le mani tra i
capelli, come per tirare fuori una speranza di vita che si era assottigliata in
un’attesa inutile, in una speranza persa. Aveva sognato allegria di angeli e cristalli
di risa in una casa inondata di primavera, aveva avuto silenzi e graffi ma non
una parola d’amore, una carezza da donna, una condivisione di tenerezze il
mattino. Sotto il letto dove si era rifugiata, era freddo e buio ma non si
rendeva conto di altro se non di quella disperazione che la faceva oscillare
tra la voglia di farla finita per sempre o giocare quell’ultima carta col suo
destino. Sarebbe stato facile, sarebbe stato un attimo, un soffio di vento tra
i capelli, una lama di luce negli occhi e le sue braccia come le ali di un gabbiano
avrebbero spezzato l’aria tra la finestra e l’asfalto; venti metri più giù, un
tic-tac incompiuto, la sirena dell’ambulanza, la voce dei vicini, il telefono
della madre che squillava, le campane del giorno dopo, il viso composto in una
serenità lieve e i suoi occhi chiusi, alla vita e al perdono. Quanto le sarebbe
piaciuto, in quel momento, una carezza di padre, un leggero scorrere di dita tra i capelli, sentire le
rughe di quelle mani sul suo viso, pronte a fermare una lacrima, avide nel
cogliere un sorriso; ma suo padre non era invecchiato, era andato via in un
pomeriggio di aprile, semplicemente, si era addormentato senza svegliarsi,
fermo per sempre nei suoi quarant’anni e a lei si era pietrificato il cuore,
asciugata l’anima e non aveva mai più fatto pace con dio. Eppure lo stesso dio
che si era portato via suo padre le aveva donato quegli occhi, belli, di un
azzurro profondo d’innocenza infantile, pronti alla dolcezza ed all’inganno, così
terribilmente belli da non fare pensare al vuoto immenso che stava dietro, alla
totale assenza di qualsiasi moralità ed umana misericordia. Tutto le era dovuto
e tutto prendeva purché utile alla sua vita, perché era la vita che voleva e
non solo la sua, a qualsiasi costo, a qualsiasi prezzo, sempre pronta a
giustificare un suo comportamento, sempre veloce al rimprovero e all’inganno,
incurante del dolore che seminava attorno, nessuno aveva diritto alla felicità,
lei non era mai stata felice, nessuno avrebbe mai preparato per lei una grande festa,
uccidendo il vitello grasso, come raccontava il cristo dei Vangeli, lei era
morta e non tornava in vita, si era perduta e mai ritrovata, i suoi giorni
erano stati di lotta a denti stretti, di sere senza speranza, senza affetto e
senza rimpianti. E senza nostalgie. Sotto il letto dove si era rifugiata, freddo
e buio, cominciò a piangere, di quel pianto inascoltato che sfocia in singhiozzi,
quelle lacrime che non sono un pianto vero, ma rabbia antica, ultima arma
perché di altri è la colpa, non sua, di altri sono gli errori, lei non sbaglia,
sempre pronta a dire si, sempre pronta a piegare la testa, acconsentire a
tutto, anche ad unirsi a quell’uomo che con lei non aveva alcun punto in comune
se non, in fondo, la stessa componente sbagliata di un algoritmo impazzito.
Solo il loro mondo era quello giusto, il resto era merda da guardare con la dovuta dose di noncuranza
e disgusto. Non ricordava più dove e quando si erano conosciuti, si era solo
convinta di non averlo mai baciato che era un modo per non dare importanza a quel legame, nemmeno
le puttane si baciano col cliente, fanno solo sesso, a pagamento, ma il bacio
no, quello è importante, non ha prezzo, c’è uno scambio di umori, una
confidenza di salive e di sapori ed è cosa che si riserva all’amore, non
all’uomo che dorme con te solo per darti dei figli e un domani, il resto non importa,
quel che desideravi sarà sogno, o speranza o immaginazione, sarà un principe da
venire che accarezzerà i tuoi pensieri, non lui, lui incurante è in un’altra
stanza, lontano da te e dalle tue lacrime.
-
E
poi?
La voce della psicologa sembrava arrivare da un’altra galassia.
-
…...
-
Voglio
dire, dopo cosa ha fatto?
-
Niente,
semplicemente. Ho aspettato, rannicchiata e indifesa. Non poteva finire, dovevo
lottare e lo avrei fatto. Quindi come se niente fosse, sono tornata alla luce,
ho rimesso un sorriso ed ho preparato la cena.
-
Direi
che per oggi può bastare. Ci vediamo giovedì prossimo.
Aveva
trent’anni Elen Bennet e non aveva sogni.
O meglio, più che la fortuna inseguiva una particolare idea
di felicità. La sua irrisolta adolescenza lo aveva portato ad aspettare sempre
il futuro senza minimamente riuscire a vivere il presente; il suo presente era
un’eterna attesa del dopo, del domani che sarebbe stato migliore, ma il domani
era sempre il giorno dopo, mai quello che stava vivendo, così che a quasi
cinquant’anni viveva ancora come quando era studente di giurisprudenza, in un
appartamento ammobiliato aspettando il momento per uno tutto suo, con pochi
mobili, qualcuno recuperato da un amico misericordioso, tanto in un futuro
avrebbe comprato una bella casa, grandi stanze, una parete con una libreria
enorme e comode poltrone di pelle, avrebbe avuto una cucina con i pensili rossi
e piena di luce, con i piani di marmo e la macchina elettrica per il caffè, il
piano cottura in ceramica e una finestra sul verde di un giardino e una donna
di gioia e allegria che lo avrebbe aspettato tutte le sere e con lei, nei
pomeriggi d’inverno accanto al fuoco, avrebbe sentito la pioggia cadere, il
vento soffiare tra gli alberi, con lei avrebbe vissuto estati di splendore nei
caffè sul lungomare, ed avrebbe ammirato la sua pelle abbronzata ed i suoi
occhi di cielo. Ecco, questa era l’idea di felicità e di futuro di Kecco
Rivoir, scrittore indeciso, fotografo e pittore, non avvocato o notaio, come i
suoi studi avrebbero consigliato e come suo padre avrebbe voluto. Solo che gli
anni, inesorabilmente, erano passati e lui era ancora lì, a immaginare il
domani lasciandosi ingannare dalla vita che a volte gli elemosinava, come
improvviso valzer di fortuna, una piccola felicità, facendogli vendere qualche
foto o qualche quadro, o avere una proposta di contratto da qualche sconosciuto
editore. A volte addirittura arrivavano degli occhi, che credeva definitivi
perché all’inizio riusciva a confonderli con i suoi sogni e si convinceva di un
futuro che rimaneva soltanto nei suoi pensieri. Viveva brevi stagioni che
pensava d’amore, dandosi in maniera piena e sincera, poi però si stancava,
sentiva il bisogno di nuovi stimoli, bastava un niente, una frase fuori posto,
una inevitabile tristezza, per rendere insopportabile la donna che fino al
giorno prima era tutto e per la quale tutto avrebbe fatto. Alternando momenti
di gioia a periodi cupi di quasi depressione, inesorabilmente, erano passate le
stagioni; i capelli, una volta lunghi e mossi erano diventati pochi e schizzati
di bianco, talmente pochi che non aveva più bisogno del pettine la mattina,
qualche ruga qua e là e un bisogno sempre più frequente del dentista ma
nonostante tutto continuava a giocare con la propria esistenza senza fermarsi a
riflettere sul suo totale fallimento. Raccoglieva ricordi senza pensare ad
altro, collezionava storie come fossero francobolli, sciupava amicizie,
seminava nostalgie come fossero attestati di merito. Non era stato proprio un
bel ragazzo da giovane, ma con l’età era diventato un uomo interessante. Era
cresciuto in una famiglia povera in tutto, soprattutto di libri; nemmeno uno,
in quella casa grande e fredda, dove da leggere c’erano solo qualche romanzetto
d’appendice a dispense e qualche rivista illustrata. Il primo libro che aveva
comprato con i suoi risparmi era stato Pinocchio cui seguirono tanti altri,
senza una logica e senza alcun criterio, li sceglieva per la copertina o per il
titolo non conoscendo né le storie né gli autori. Questo, però negli anni gli
aveva consentito, oltre che di avere una vastissima biblioteca, di sviluppare
una straordinaria capacità di affascinare incastrando le parole e di saper
discutere su qualsiasi argomento, con l’esclusione però di tutto ciò che avesse
a che fare con formule chimiche o numeri.
Troppe parole erano passate su di loro che ormai dirne altre
sarebbe stato senza senso. E poi, per Kecco, quando si perdeva qualcuno, era
per sempre. Non si ama due volte la stessa persona, così come non la si lascia andare
via.
Geometrie. Giochi della vita. Incastri
del destino.
Succede che,
a un’ora insolita, di un giorno qualunque, in un inverno sereno, due persone
s’incontrano in un supermercato e si riconoscono, prima di ogni altra cosa
dall’odore selvaggio della solitudine, come due animali, e si avvicinano e
ricordano di essersi conosciuti in un corridoio di università, anni prima, di
aver detto poche parole e fatto sorrisi di circostanza, non uno scambio
d’indirizzi o di numeri di telefono, solo, distrattamente, un nome,
nient’altro. Poi il vento li aveva portati ognuno altrove, strade diverse,
[…] In un
piccolo spazio temporale qualche volta, avendo davanti la persona giusta, c’è
una vita da raccontare, ricordi piacevoli, dolori recenti, pensieri. Chi lo sa
poi, perché questo accade e perché in quel preciso momento e non prima né dopo,
e poi perché con quella persona e non altri, forse perché con una quasi
sconosciuta è più facile, è come i compagni di viaggio di un treno nella notte.
Magari non si rivedranno mai più e mai sapranno dell’evolversi della vita, né
le nostre verità. Stanno lì ad ascoltarci, qualche volta annuiscono, a volte sorridono,
ci capiscono o fanno finta di capire, che importa. Intanto passa la notte e il
viaggio arriva alla fine. Scesi dal treno ognuno per la sua strada. Ogni fiume
al suo mare.
Geometrie,
giochi della vita. Incastri del destino.
Succede che,
a un’ora insolita, di un giorno qualunque, in un inverno sereno, due persone
escono da un supermercato, sorridono e parlano, ogni tanto si fermano,
riprendono a camminare sino a un incrocio di strade dove ognuno dovrà prendere
la sua, perché diversa da quella dell’altro e non porta nello stesso posto. Ma
c’è qualcosa di sconosciuto e inspiegabile che li unisce, che non è solo il
comune amore per le buone letture o per il cinema, e nemmeno la nostalgia, qualcosa
che spinge entrambi a un contatto fisico, il bisogno di sentirsi, gustare il
calore della loro pelle. Per un attimo eterno il tempo si spezza tra le loro
mani che prima si avvicinano per un saluto, indugiano lievi sul pulsare delle vene
e poi diventano cima di nave che attracca a riva, vicini, sempre più vicini, i
loro corpi si toccano si stringono, l’alito di lei, caldo e dolce. I suoi occhi
e le sue labbra. Sono morbide e belle le labbra di Elen, sanno di gioventù, di
promesse, di mandorla, di festa, di regali sotto l’albero. Sa di buono quel
bacio, sa di stelle. A volte è sereno il cielo di febbraio.
Incastri del
destino. Giochi della vita. Geometrie.
Due
solitudini che si uniscono, e insieme cercano di sconfiggersi, i giorni
diventano di gioia e meravigliosa scoperta. Si cade, allora, nell’illusione
grande di confondere le galassie del destino, inconsapevoli del fatto che
quello che hanno in mano è sempre lo stesso mazzo di carte, si possono mischiare,
cambiarne l’ordine, ritardare l’uscita degli assi e dei re, ma il mazzo è sempre
quello e sempre quelle le carte. Non si cambia la vita, si può solo variare
gioco, questo sì, è possibile.
E’ difficile una storia con una donna
così, per Kecco che da sempre l’aveva pensata, immaginata, sognata, forse. E’ difficile
respirare l’aria della primavera con una donna così accanto, sottobraccio, che
teneramente si poggia a te, e ti ascolta, e senti il caldo della sua pelle
attraverso i vestiti, ed il resto del mondo si annulla, non esiste. Lei non ha
più la sua vita, la sua casa, ha te, sempre e per sempre e anticipa i giorni sereni,
sei saprai aspettarla, se solo avrai la pazienza di aspettarla, lei verrà da te
per rimanere, con le sue valigie da riempire con i giorni che saranno, quando
insieme andrete in un viaggio verso il mare, alla scoperta di viali alberati,
di onde e aurore e in una passione senza fine e senza tempo dormirà accanto a
te, abbracciata a te, nella notte e sentirete la pioggia battere sui vetri e il
canto del vento tra gli alberi. E’ difficile vivere una storia così senza
pensare che la tua donna, con ancora addosso il tuo odore e l’impronta delle
tue mani sui suoi seni, andrà via, e ci saranno altre mani che annulleranno le
tue, un altro odore si mischierà al tuo, altri sentiranno il suo respiro e la
sua voce, perché la sorte troppo tardi ha incrociato le strade e quella donna
non è la tua donna, è solo un incanto rubato alla vita.
E’ difficile
una storia così.
La accarezzò dolcemente, con gli occhi
chiusi, pensando che quella pelle fosse la pelle della donna che per anni aveva
aspettato, le sfiorò i seni pensando che avevano appena allattato il loro
bambino, con l’indice seguì il contorno delle sue labbra e ne sentì il calore
dell’attesa e l’ansia del respiro, le andò a cercare le mani tra le lenzuola ed
entrò in lei come un pensiero, come un’onda tranquilla e si mosse dentro di lei
con un dolce fluire di risacca e la guardò negli occhi e la chiamò per nome e
in quel momento era il nome più bello del mondo. Lei lo guardò con gli occhi
del cuore e sorridendo felice sussurrò il suo nome, senza paura di sbagliare,
senza l’angoscia di confondersi assecondando dolcemente quel movimento
tranquillo come una melodia di piano, una nota dopo l’altra, un suono,
un’armonia, una nenia di primavera, finché insieme esplosero in un sudore
tiepido e nella preghiera immensa di una felicità da ripetersi, in una scoperta
unica e definitiva, nello spegnersi del pomeriggio:
- E’ così
che si fa l’amore?
- E’ così.
Rispose
Kecco.
E la baciò
sugli occhi.
E il vento
ingarbuglierà
i tuoi
pensieri, l'amore e i tuoi capelli
E ti
cambierà, ti cambierà
Lontano vuoi
dire che domani non ritorno
Lontano vuol
dire sempre un altro giorno
Com'è
lontano questo lontano.
(R. Vecchioni: Canzone da lontano)
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