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Goodnight_my_love_by_P_J_TRASH.jpg www.deviantart.com |
Caroline chiuse gli
occhi e iniziò a raccontare.
Francis si stese al
suo fianco, le prese la mano e rimase ad ascoltarla, guardando la sua bocca che
aveva appena smesso di baciare, schiusa nelle parole che si libravano come farfalle
nell’aria.
«Fermo!
Lo prendo io!»
Mark si precipitò su suo figlio e lo scostò con forza via
dalla scogliera. Brendan rimase impietrito dal suo gesto e fissò gli occhi su
suo padre. Stava risalendo le radici di un pino verso il tronco, con le gambe
che tremavano e le braccia aperte, quasi come se da lì a un istante volesse
prendere il volo. I piedi tastavano la corteccia secca, che si sfaldava facendo
cadere sul terreno delle croste ampie. Era quello il rumore di sottofondo da
quella mattina: era la sua vita che si stava sfaldando ed ora, poteva sentirla
nelle orecchie, oltre che nel cuore.
«Attento,
papà!»
«Tranquillo,
Brendan. E’ tutto sotto controllo. Tra poco riavrai il tuo aquilone.»
«No,
papà. Ho paura. La mamma ha detto che me ne compra un altro. Questo è tutto
rotto. Lo vedi? Non vola più…»
Già. Non vola più. Come non volano più i pensieri, come non
volano più le carezze. Da molto tempo oramai. Da un tempo che non riusciva più
a ricordare. Eppure ci aveva provato. Aveva provato a capire in quale istante
il battito era cessato, ma non c’era riuscito e quel pensiero gli aveva dannato
l’anima. Perché doveva esserci un istante, un frammento di tempo nel quale ciò
che era aveva smesso di essere, ciò che rallegrava aveva iniziato a
rattristare. Forse era una sequenza, per questo non riusciva a trovarlo. Ma un
inizio doveva pur esserci stato e lui voleva trovarlo, spulciarlo. Lui doveva
capire e fino ad allora, non si sarebbe dato pace.
«Attento,
papà. Si è spostato più in cima. Vieni via, papà…»
Era quella la dannazione della vita. Quando pensi di aver
raggiunto la felicità, quando stai per sfiorarla con un dito, quando pensi che
non c’è altro che tu possa desiderare, la giostra si ferma e devi scendere,
perché in tasca non hai più né gettoni né soldi per comprarne. E anche se ne
avessi, il giostraio se n’è andato. Ha chiuso tutto e ha spento. I cavalli si
sono fermati ed hanno strisciato i loro zoccoli sul terreno. Le macchine hanno
fermato i motori e spento le luci. Le astronavi sono atterrate. Le carrozze son
tornate zucche. Forse aveva ragione Brendan, doveva tornare indietro e
arrendersi all’evidenza.
Eppure non poteva. Con i piedi che saggiavano il punto più
liscio dove appoggiare il peso, Mark avanzava verso lo strapiombo, vedendolo
sotto di sé. Il mare era minaccioso e scuro, le onde s’infrangevano contro le
rocce sottostanti. Lui, dall’alto, percepiva l’odore violento dell’uragano che
cavalcava sulle nubi nere. Doveva prendere quell’aquilone e doveva fare presto.
«Papà,
andiamo, ti prego. Ho paura. Torniamo a casa. Mamma ci aspetta, si starà
preoccupando. Se si arrabbia son guai, lo sai…»
“Sì, lo so.” Disse Mark tra sé e sé. Conosceva quel viso ed
il modo in cui si imbronciava quando qualcosa la contrariava. Si aggrottavano
le sopracciglia e si rimpicciolivano gli occhi. Le labbra si serravano in
parole mute e il suo corpo si tendeva. Era l’arco e la freccia che scoccava
impazzita. Il grilletto e la pallottola. E lui, in quei momenti, poteva solo
andarsene.
Perché ce l’avesse tanto con lui non lo aveva mai scoperto.
La loro vita era stata perfetta. Forse era quello, era stata troppo perfetta.
Per anni non avevano mai litigato, erano stati felici. Ci doveva essere stato
un istante, un maledetto istante in cui tutto era finito, ma lui non lo sapeva
e si era ritrovato quella mattina, con un biglietto stracciato, poggiato sul
tavolo della cucina, con quelle semplici parole: “Mi spiace. Non ce la faccio
più. Vado via. Non cercarmi.”
Si era seduto al tavolo, frastornato, ascoltando il silenzio
della casa. Non c’era il rumore di una doccia che scrosciava, di un fuoco
acceso, né di una radio che suonava musica. Il caffè non borbottava sul fuoco e
le tazze erano ancora impilate nella credenza, così come erano state sistemate
la sera prima. Perfino la natura intorno partecipava a quel silenzio: nessuno
stridio di uccelli, né rumore di fronde.
Era rimasto così finché non aveva visto Brendan fermo sulla
porta con i suoi capelli biondi scompigliati e gli occhi azzurri assonnati, nel
suo pigiama a righe bianche e azzurre da piccolo uomo.
«Dov’è la
mamma?»
«E’
uscita.»
«Quando
torna?»
«Non lo
so.»
Mai mentire ai bambini. Così lo aveva vestito, si era
buttato addosso una felpa e aveva preso l’aquilone. E avevano giocato tutto il
giorno su quella scogliera impettita sul mare.
E adesso quel maledetto aquilone si era incastrato tra i
rami dell’unico pino che c’era, di quel pino che aveva deciso di suicidarsi
verso il mare, rimanendo impigliato alla terra per le radici. Non poteva
lasciarlo lì. Non poteva perdere quell’aquilone. Aveva già perso Sarah.
Caroline aprì gli
occhi, si voltò verso Francis e seguì il profilo delle sue labbra.
«Sono stanca. Continua tu…»
Francis l’accarezzò e
la baciò sulla bocca. Erano morbide le sue labbra. Era dolce il suo viso e
pensò che oramai non poteva più fare a meno di averla al suo fianco. Proseguì.
Era buio nella stanza. Non so cosa fosse successo,
probabilmente un black-out.
Le porte automatiche non funzionavano, perciò eravamo
forzati a una convivenza.
Eravamo in due, ma
non avevo scrutato il viso del mio compagno quando era entrato nella stanza,
perché leggevo e non avevo voglia di interrompere la lettura.
Eppure poco dopo che la luce era andata via e che ci avevano
comunicato dall'esterno di stare tranquilli perché entro un'ora avrebbero
forzato la porta e ci avrebbero fatto uscire, poco dopo quell'uomo parlò e mi
chiese cosa stessi leggendo.
Gli risposi che leggevo "Oceano Mare" e lui mi
chiese a che capitolo fossi di quel romanzo, che aveva letto più volte.
Quell'affermazione aveva scosso in me qualcosa: era la prima
volta che incontravo qualcuno che come me adorava Baricco, e che conosceva
sulla punta delle dita ogni scena ed era pronto al punto da pormi una domanda
così sconcertante. Il numero di un capitolo. Come se li conoscesse a
memoria. «Non so il numero del capitolo»
risposi, «Non li guardo. Sto leggendo del naufragio.»
Lui tacque. E tacqui anche io, temendo di averlo deluso,
finché sentii che si muoveva nel buio e gli chiesi cosa stesse facendo. Mi
rispose che voleva sedersi vicino a me, ed io sentii un brivido quando lo fece,
sentii la pelle fremere e il mio cuore battere.
«Conosci Bartleboom?»
«Sì» risposi «l'uomo che scrive le lettere ad una donna sconosciuta, sperando
di potergliele dare, un giorno.» «Già. » e tacque. Poco dopo riprese
emozionato, come se quelle parole gli stessero scappando di bocca e volesse
trattenerle: «Sono come lui.»
Tacqui. Non è normale trovare un uomo che scrive, che scrive
lettere d'amore, intendo. E’ ancora peggio trovarne uno che scrive a una donna
che non c’è, che speri che arrivi. O era pazzo, o era semplicemente un uomo meraviglioso.
Lui intese il mio silenzio come un invito a proseguire. E mi
raccontò delle sue storie, di quelle che aveva vissuto da giovane ribelle,
nelle metropoli senza vergogna, nelle città senza pudore. Mi raccontò dei suoi
sogni d'infanzia, delle sue principesse perdute, del suo cuore infangato. E mi
raccontò delle lettere che scriveva a una donna ideale, senza volto, senza
occhi, della quale pur conosceva il profumo e il tocco della pelle, le
vibrazioni dell'anima, i desideri e l'ardire di cercare l'amore. E mi rivelò la
speranza di incontrarla un giorno e la certezza di riconoscerla tra mille, per
il suo profumo di gardenia, la pelle vellutata, l'animo di seta.
Gli chiesi perché raccontasse a me quel segreto così intimo
e lui mi disse che ero io quella donna, che mi aveva riconosciuta.
Sorrisi, e lui nel buio se ne accorse e mi disse che dovevo
credergli, che non era uno stupido tentativo di abbordaggio. Sorrisi ancora, ma
sorrisi non per beffarmi di lui, ma perché gli credevo, perché mi sentivo
stupida a credergli, visto che nessuno poteva assicurarmi di ciò che diceva e
ai più quelle parole sarebbero sembrate una folle banalità. Eppure non a me. Non quando
iniziò a citarmi brani, parole che io stessa avevo scritto. Non quando mi
sembrò che non stesse ripetendo ciò che avevo scritto, ma stesse solo leggendo
nel mio cuore. Era vero dunque. Mi aveva riconosciuta, e non solo da ciò che ci stavamo raccontando in quella imprevidibile situazione.
Francis si fermò e
Caroline aprì gli occhi.
«Sono stanco. Continua tu…»
***
Caroline rimase in
silenzio, guardando il volto dell’uomo. Cercò di capire cosa di lui l’attirasse
in modo così profondo. Non erano i suoi lineamenti. Non erano i suoi muscoli.
Era il modo in cui la guardava, era il modo in cui la desiderava. Era il modo
in cui la faceva sentire unica al mondo. Accarezzandogli la spalla continuò:
«Dov’è la
mamma?»
«Credo che la mamma non tornerà, Brendan.»
«Torna
domani? E dove è andata?»
«Non
credo tornerà domani. Forse non tornerà più. E’ andata via.»
«Dov’è "via", papà? E’ lontano?»
«E’ ovunque, è altrove, ma non qui. E' il posto dove finiscono le parole, quello in cui non c'è più bisogno di parole per parlarsi.»
«Non ci vuole più bene?»
«Oh sì Brenda, ce ne vuole. Ce ne vuole molto. E’ per questo che ha dovuto
andare via.»
«Non capisco papà. Perché è andata via se ci vuole bene?»
«Perché se fosse rimasta qui, alla fine ci avrebbe odiato.»
«Perché? Noi non le avremmo fatto mai male, vero?»
«Non avrebbe potuto crescere come avrebbe voluto. Non
avrebbe potuto amare la vita come avrebbe voluto, se fosse rimasta qui ad amare
solo noi.»
«E ci ama lo stesso se è via?»
«Ci ama anche di più, perché le abbiamo permesso di farlo,
di cercare un amore più grande del nostro.»
«Esiste davvero un amore più grande del nostro?»
«Se lei lo ha trovato, allora sì. Ma non rattristartene,
adesso. Sono sicuro che un giorno lo farà conoscere anche a noi. Vuole solo
essere sicura di averlo trovato davvero, e quindi, come un guerriero, va avanti lei.»
«E’ grande la mamma, vero papà?»
«Buonanotte Brendan. »
Con le lacrime agli
occhi Caroline sussurrò a Francis:
«Sono stanca, continua
tu…»
***
Francis raccolse le
sue lacrime. Sapeva che stava soffrendo e sapeva che l’unico modo che aveva era
quello di raccontare il suo dolore attraverso le favole. E guardando le sue
lacrime scendere sul viso di seta, continuò:
Non avevo più armi per combattere quel sentimento che
provavo per quell’uomo sconosciuto. Non avevo ancora visto i suoi occhi, la sua
bocca, il suo volto. Non sapevo se fosse alto o basso, grasso o magro. Eppure
poco m’importava. Io di lui desideravo quell’anima che si abbeverava all’amore,
che si dissetava nel cuore di una donna da mesi, forse anni. Forse secoli.
E così decisi che sarei andata con lui. Decisi che non sarei
tornata a casa se non per prendere le mie cose e scrivere un biglietto a mio
marito e a mio figlio. Mi avrebbero mai perdonato? Forse no. Forse il dolore
che stavo dando loro era enorme, insostenibile. Eppure non potevo farne a meno.
Mark lo avrebbe spiegato a Brendan, ma a Mark chi lo avrebbe spiegato? Mi
chiedevo se ce ne fosse bisogno. Lui che mi amava e conosceva ogni anfratto
della mia anima, lui che di me conosceva le risa ed il pianto, lui avrebbe
capito e forse un giorno mi avrebbe perdonato. E così fu, che in quel giorno io
entrai nella casa che non era mai stata mia ed afferrai le sole cose che
contavano di me: i miei libri, i miei quaderni, i miei disegni e qualche
fotografia.
Seppi di aver fatto la scelta giusta, quando, socchiudendo la
porta di quella che era stata la mia casa, sentii il mio cuore più leggero e quando, giunta davanti al mio Bartleboom, guardai i suoi occhi e incominciai a volare.
E Francis disse: «Ora
dormi, amore mio…»
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