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28 set 2013

Dove finiscono le parole

Goodnight_my_love_by_P_J_TRASH.jpg
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Caroline chiuse gli occhi e iniziò a raccontare.
Francis si stese al suo fianco, le prese la mano e rimase ad ascoltarla, guardando la sua bocca che aveva appena smesso di baciare, schiusa nelle parole che si libravano come farfalle nell’aria.
 «Fermo! Lo prendo io!»
Mark si precipitò su suo figlio e lo scostò con forza via dalla scogliera. Brendan rimase impietrito dal suo gesto e fissò gli occhi su suo padre. Stava risalendo le radici di un pino verso il tronco, con le gambe che tremavano e le braccia aperte, quasi come se da lì a un istante volesse prendere il volo. I piedi tastavano la corteccia secca, che si sfaldava facendo cadere sul terreno delle croste ampie. Era quello il rumore di sottofondo da quella mattina: era la sua vita che si stava sfaldando ed ora, poteva sentirla nelle orecchie, oltre che nel cuore.




«Attento, papà!»
«Tranquillo, Brendan. E’ tutto sotto controllo. Tra poco riavrai il tuo aquilone.»
«No, papà. Ho paura. La mamma ha detto che me ne compra un altro. Questo è tutto rotto. Lo vedi? Non vola più…»
Già. Non vola più. Come non volano più i pensieri, come non volano più le carezze. Da molto tempo oramai. Da un tempo che non riusciva più a ricordare. Eppure ci aveva provato. Aveva provato a capire in quale istante il battito era cessato, ma non c’era riuscito e quel pensiero gli aveva dannato l’anima. Perché doveva esserci un istante, un frammento di tempo nel quale ciò che era aveva smesso di essere, ciò che rallegrava aveva iniziato a rattristare. Forse era una sequenza, per questo non riusciva a trovarlo. Ma un inizio doveva pur esserci stato e lui voleva trovarlo, spulciarlo. Lui doveva capire e fino ad allora, non si sarebbe dato pace.
«Attento, papà. Si è spostato più in cima. Vieni via, papà…»
Era quella la dannazione della vita. Quando pensi di aver raggiunto la felicità, quando stai per sfiorarla con un dito, quando pensi che non c’è altro che tu possa desiderare, la giostra si ferma e devi scendere, perché in tasca non hai più né gettoni né soldi per comprarne. E anche se ne avessi, il giostraio se n’è andato. Ha chiuso tutto e ha spento. I cavalli si sono fermati ed hanno strisciato i loro zoccoli sul terreno. Le macchine hanno fermato i motori e spento le luci. Le astronavi sono atterrate. Le carrozze son tornate zucche. Forse aveva ragione Brendan, doveva tornare indietro e arrendersi all’evidenza.
Eppure non poteva. Con i piedi che saggiavano il punto più liscio dove appoggiare il peso, Mark avanzava verso lo strapiombo, vedendolo sotto di sé. Il mare era minaccioso e scuro, le onde s’infrangevano contro le rocce sottostanti. Lui, dall’alto, percepiva l’odore violento dell’uragano che cavalcava sulle nubi nere. Doveva prendere quell’aquilone e doveva fare presto.
«Papà, andiamo, ti prego. Ho paura. Torniamo a casa. Mamma ci aspetta, si starà preoccupando. Se si arrabbia son guai, lo sai…»
“Sì, lo so.” Disse Mark tra sé e sé. Conosceva quel viso ed il modo in cui si imbronciava quando qualcosa la contrariava. Si aggrottavano le sopracciglia e si rimpicciolivano gli occhi. Le labbra si serravano in parole mute e il suo corpo si tendeva. Era l’arco e la freccia che scoccava impazzita. Il grilletto e la pallottola. E lui, in quei momenti, poteva solo andarsene.
Perché ce l’avesse tanto con lui non lo aveva mai scoperto. La loro vita era stata perfetta. Forse era quello, era stata troppo perfetta. Per anni non avevano mai litigato, erano stati felici. Ci doveva essere stato un istante, un maledetto istante in cui tutto era finito, ma lui non lo sapeva e si era ritrovato quella mattina, con un biglietto stracciato, poggiato sul tavolo della cucina, con quelle semplici parole: “Mi spiace. Non ce la faccio più. Vado via. Non cercarmi.”
Si era seduto al tavolo, frastornato, ascoltando il silenzio della casa. Non c’era il rumore di una doccia che scrosciava, di un fuoco acceso, né di una radio che suonava musica. Il caffè non borbottava sul fuoco e le tazze erano ancora impilate nella credenza, così come erano state sistemate la sera prima. Perfino la natura intorno partecipava a quel silenzio: nessuno stridio di uccelli, né rumore di fronde.
Era rimasto così finché non aveva visto Brendan fermo sulla porta con i suoi capelli biondi scompigliati e gli occhi azzurri assonnati, nel suo pigiama a righe bianche e azzurre da piccolo uomo.
«Dov’è la mamma?»
«E’ uscita.»
«Quando torna?»
«Non lo so.»
Mai mentire ai bambini. Così lo aveva vestito, si era buttato addosso una felpa e aveva preso l’aquilone. E avevano giocato tutto il giorno su quella scogliera impettita sul mare.
E adesso quel maledetto aquilone si era incastrato tra i rami dell’unico pino che c’era, di quel pino che aveva deciso di suicidarsi verso il mare, rimanendo impigliato alla terra per le radici. Non poteva lasciarlo lì. Non poteva perdere quell’aquilone. Aveva già perso Sarah.
Caroline aprì gli occhi, si voltò verso Francis e seguì il profilo delle sue labbra.
«Sono stanca. Continua tu…»
 ***
Francis l’accarezzò e la baciò sulla bocca. Erano morbide le sue labbra. Era dolce il suo viso e pensò che oramai non poteva più fare a meno di averla al suo fianco. Proseguì.
Era buio nella stanza. Non so cosa fosse successo, probabilmente un black-out.
Le porte automatiche non funzionavano, perciò eravamo forzati a una convivenza.
Eravamo in due, ma non avevo scrutato il viso del mio compagno quando era entrato nella stanza, perché leggevo e non avevo voglia di interrompere la lettura.
Eppure poco dopo che la luce era andata via e che ci avevano comunicato dall'esterno di stare tranquilli perché entro un'ora avrebbero forzato la porta e ci avrebbero fatto uscire, poco dopo quell'uomo parlò e mi chiese cosa stessi leggendo.
Gli risposi che leggevo "Oceano Mare" e lui mi chiese a che capitolo fossi di quel romanzo, che aveva letto più volte.
Quell'affermazione aveva scosso in me qualcosa: era la prima volta che incontravo qualcuno che come me adorava Baricco, e che conosceva sulla punta delle dita ogni scena ed era pronto al punto da pormi una domanda così sconcertante. Il numero di un capitolo. Come se li conoscesse a memoria.  «Non so il numero del capitolo» risposi, «Non li guardo. Sto leggendo del naufragio.»
Lui tacque. E tacqui anche io, temendo di averlo deluso, finché sentii che si muoveva nel buio e gli chiesi cosa stesse facendo. Mi rispose che voleva sedersi vicino a me, ed io sentii un brivido quando lo fece, sentii la pelle fremere e il mio cuore battere.
 «Conosci Bartleboom?» «Sì» risposi «l'uomo che scrive le lettere ad una donna sconosciuta, sperando di potergliele dare, un giorno.» «Già. » e tacque. Poco dopo riprese emozionato, come se quelle parole gli stessero scappando di bocca e volesse trattenerle: «Sono come lui.»
Tacqui. Non è normale trovare un uomo che scrive, che scrive lettere d'amore, intendo. E’ ancora peggio trovarne uno che scrive a una donna che non c’è, che speri che arrivi. O era pazzo, o era semplicemente un uomo meraviglioso.
Lui intese il mio silenzio come un invito a proseguire. E mi raccontò delle sue storie, di quelle che aveva vissuto da giovane ribelle, nelle metropoli senza vergogna, nelle città senza pudore. Mi raccontò dei suoi sogni d'infanzia, delle sue principesse perdute, del suo cuore infangato. E mi raccontò delle lettere che scriveva a una donna ideale, senza volto, senza occhi, della quale pur conosceva il profumo e il tocco della pelle, le vibrazioni dell'anima, i desideri e l'ardire di cercare l'amore. E mi rivelò la speranza di incontrarla un giorno e la certezza di riconoscerla tra mille, per il suo profumo di gardenia, la pelle vellutata, l'animo di seta.
Gli chiesi perché raccontasse a me quel segreto così intimo e lui mi disse che ero io quella donna, che mi aveva riconosciuta.
Sorrisi, e lui nel buio se ne accorse e mi disse che dovevo credergli, che non era uno stupido tentativo di abbordaggio. Sorrisi ancora, ma sorrisi non per beffarmi di lui, ma perché gli credevo, perché mi sentivo stupida a credergli, visto che nessuno poteva assicurarmi di ciò che diceva e ai più quelle parole sarebbero sembrate una folle banalità. Eppure non a me. Non quando iniziò a citarmi brani, parole che io stessa avevo scritto. Non quando mi sembrò che non stesse ripetendo ciò che avevo scritto, ma stesse solo leggendo nel mio cuore. Era vero dunque. Mi aveva riconosciuta, e non solo da ciò che ci stavamo raccontando in quella imprevidibile situazione.
Francis si fermò e Caroline aprì gli occhi.
«Sono stanco. Continua tu…»
***
Caroline rimase in silenzio, guardando il volto dell’uomo. Cercò di capire cosa di lui l’attirasse in modo così profondo. Non erano i suoi lineamenti. Non erano i suoi muscoli. Era il modo in cui la guardava, era il modo in cui la desiderava. Era il modo in cui la faceva sentire unica al mondo. Accarezzandogli la spalla continuò:
«Dov’è la mamma?»
«Credo che la mamma non tornerà, Brendan.»
«Torna domani? E dove è andata?»
«Non credo tornerà domani. Forse non tornerà più. E’ andata via.»
«Dov’è "via", papà? E’ lontano?»
«E’ ovunque, è altrove, ma non qui. E' il posto dove finiscono le parole, quello in cui non c'è più bisogno di parole per parlarsi.»
«Non ci vuole più bene?»
«Oh sì Brenda, ce ne vuole. Ce ne vuole molto. E’ per questo che ha dovuto andare via.»
«Non capisco papà. Perché è andata via se ci vuole  bene?»
«Perché se fosse rimasta qui, alla fine ci avrebbe odiato.»
«Perché? Noi non le avremmo fatto mai male, vero?»
«Non avrebbe potuto crescere come avrebbe voluto. Non avrebbe potuto amare la vita come avrebbe voluto, se fosse rimasta qui ad amare solo noi.»
«E ci ama lo stesso se è via?»
«Ci ama anche di più, perché le abbiamo permesso di farlo, di cercare un amore più grande del nostro.»
«Esiste davvero un amore più grande del nostro?»
«Se lei lo ha trovato, allora sì. Ma non rattristartene, adesso. Sono sicuro che un giorno lo farà conoscere anche a noi. Vuole solo essere sicura di averlo trovato davvero, e quindi, come un guerriero, va avanti lei.»
«E’ grande la mamma, vero papà?»
«Buonanotte Brendan. »
Con le lacrime agli occhi Caroline sussurrò a Francis:
«Sono stanca, continua tu…»
***
Francis raccolse le sue lacrime. Sapeva che stava soffrendo e sapeva che l’unico modo che aveva era quello di raccontare il suo dolore attraverso le favole. E guardando le sue lacrime scendere sul viso di seta, continuò:
Non avevo più armi per combattere quel sentimento che provavo per quell’uomo sconosciuto. Non avevo ancora visto i suoi occhi, la sua bocca, il suo volto. Non sapevo se fosse alto o basso, grasso o magro. Eppure poco m’importava. Io di lui desideravo quell’anima che si abbeverava all’amore, che si dissetava nel cuore di una donna da mesi, forse anni. Forse secoli.
E così decisi che sarei andata con lui. Decisi che non sarei tornata a casa se non per prendere le mie cose e scrivere un biglietto a mio marito e a mio figlio. Mi avrebbero mai perdonato? Forse no. Forse il dolore che stavo dando loro era enorme, insostenibile. Eppure non potevo farne a meno. Mark lo avrebbe spiegato a Brendan, ma a Mark chi lo avrebbe spiegato? Mi chiedevo se ce ne fosse bisogno. Lui che mi amava e conosceva ogni anfratto della mia anima, lui che di me conosceva le risa ed il pianto, lui avrebbe capito e forse un giorno mi avrebbe perdonato. E così fu, che in quel giorno io entrai nella casa che non era mai stata mia ed afferrai le sole cose che contavano di me: i miei libri, i miei quaderni, i miei disegni e qualche fotografia.
Seppi di aver fatto la scelta giusta, quando, socchiudendo la porta di quella che era stata la mia casa, sentii il mio cuore più leggero e quando, giunta davanti al mio Bartleboom, guardai i suoi occhi e incominciai a volare.
E Francis disse: «Ora dormi, amore mio…»

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