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29 set 2013

Confondimi i sogni, Francesco De Masi

At_railway_station_by_youzeka.jpg
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L’aveva vista nella linea interrotta delle sue mani, nella mappa delle stelle d’agosto, nel dormiveglia delle rose del venerdì di gioia della sua nascita, nel frullo dei passeri sotto la neve, nell’azzurro marino delle onde ioniche, l’aveva sentita nel vento di scirocco, tra le foglie degli ulivi nelle primavere di pioggia, nell’odore di grafite dei pomeriggi scolastici, l’aveva aspettata nei regali sotto l’albero, nell’incarto di cioccolata delle campane pasquali e preparato girandole d’artificio, zirconi splendenti, estratto di ciclamini e silenzi di foglie e finalmente era arrivata, nel martedì delle ceneri con  un profumo di viola e questi occhi color di mare.





Quel giorno il cielo era di neve e il suo respiro aveva spezzato i minuti con un calore inaspettato e crudele; avrebbe voluto percorrere con le labbra l’arco vellutato del suo collo, aprirle la camicetta e sentire sul suo petto il marmo dei seni e la pelle, la sua pelle sino allora straniera, ma era rimasto immobile, aveva chiuso gli occhi e aspettato la sua voce. E la sua voce aveva sussurrato promesse, attese di orologi, estati afose e torrenti di frescura, aveva dato sospiri al domani e speranze per i mesi e per gli anni a venire, e l’aveva chiamato tesoro delle mie notti e del domani e l’aveva fatto sentire vivo e finalmente un uomo. Ed era cominciata la vita con i treni della sera pronti a prenderla per portarla via, a ricordargli che freccia rossa non  era un capo indiano che faceva capolino nei fumetti dell’infanzia, ma erano vagoni veloci e tendine tirate, viaggiatori frettolosi e gentili pronti a mettere a posto il suo beauty pieno di creme, di rossetti e sogni, era cominciata la vita delle stanze a quattro stelle al diciassettesimo piano con la tessera magnetica che s’incastrava nei minuti dell’ansia, dei portici misericordiosi senza pioggia e senza sole, delle sere serene con la luna dietro le colline, dei pomeriggi per le strade della città, mano per mano, fischiando una canzone. Poi le nuvole erano diventate casa, rondini disorientate dal suono delle campane, montagne lontane confuse dalla foschia, luci sul lago e profumo di merletti, risvegli al mattino cercando le sue mani, perché l’immagine di lei era lì con la sua sottoveste pervinca che le accarezzava il cuore e lo chiamava amore e ti chiamavo amore con il caffè che gorgogliava in cucina mentre il giorno inondava i suoi occhi. Lei non era più la parentesi graffa che scandiva i mesi, la speranza crudele di un incrocio di fortune, era viva e vera nell’afa dell’estate con i suoi passi decisi che risuonavano nelle stanze, e le spalle di passero senza nido. Da quel giorno sentirsi soli significava stare senza di lei, sciupare i giorni della vita con la sua assenza, immaginarla affacciata al balcone a guardare i voli nel tramonto aspettando un ritorno, aspettando quell’uomo che non aveva gli occhi del futuro ma che riusciva a prenderle l’anima sussurrando i venti del nord nelle sue orecchie, formule magiche per liberare i suoi sospiri, farle chiudere gli occhi immaginando onde e gabbiani, muscoli da pirata e calore d’aprile e dirti sono qui, qui per te, con te per sempre sulle luci di questa valle, nelle preghiere della sera, nei silenzi, del cielo, son qui per te, per te soltanto, per andar più via.

 

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