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19 ott 2013

Grazie per i giorni - Francesco De Masi




I frammenti e ricordi di una vita possono essere pieni di amore, dolore, gioia o inferno. Ogni stagione è segnata da un volto, un sorriso o una lacrima: quando eri bambino e tuo padre ti prendeva per mano, quando adolescente giocavi a vivere la vita, quando il cuore ha sognato o è rimasto ferito. I ricordi sono l’essenza di noi, sono ciò che ci resta di ciò che eravamo. Sono i ricordi di Francesco, ma possono essere quelli di tutti noi, e Francesco ha solo trovato le parole per incastonarli come diamanti.
  
Citazioni
Non voglio vedere i fanali intermittenti che scompaiono dietro la curva dell’orizzonte e che ti stanno portando via, rifiuto la rosa che mi offre il vagabondo sui gradini della stazione, non c’è più a chi darla, quella rosa, la coltivo dentro l’anima e aspetto che torni.




Eravamo io e te da sempre, naufraghi fuggiaschi da una crociera che andava altrove, pronti ad inventare i giorni come antichi amici e compagni di giochi. Parole come oceano, vita come tessere di un mosaico bizantino e non un’ombra, un rimpianto, un ricordo, solo il fluire dolce di tempi che oramai erano solo indecisi superstiti nella memoria. Poi ho sentito un tenue filo di vento affacciandomi su quel balcone sospeso sul fiume, con le nubi che arrossivano al tramonto del sole, come le tue gote allo scontro coi miei pensieri; tu continuavi a parlare con quel tuo accento che modulava le vocali portandoli su pentagrammi per farle diventare musica, ti guardavo e mi accorgevo di essere felice, sul quel balcone, con te, mentre attorno arrivava la sera.

 
Ma se a sera, per un po’ smetteva di piovere, allora, anche se non era domenica, mio padre si rasava, si profumava di primavera, cravatta, vestito e mi prendeva per mano. Uscivamo insieme, lui basso  come tutti gli uomini del Sud in quegli anni, ma io più basso di lui, perché di pochi anni, lo vedevo alto e bello, immenso come un Dio mentre mi portava sul Corso del paese e salutava e sorrideva e mi ripeteva si dice niente, grazie, se qualcuno al bar ti chiede cosa vuoi, va bene ? niente grazie!

 
Era la guerra che lui aveva vissuto ed ora guardava con gli occhi della memoria, su quelle immagini ferme e senza cielo. C’era la strada dove abitavamo e le rovine del bombardamento aereo di un febbraio ormai lontano, quando ancora non c’ero e mia madre raccontava di un rombo tra le  nuvole, del sagrestano che correva a suonare le campane per dare l’allarme e correva e cadeva e cadeva e correva, di polvere immensa, del buio improvviso, del fuoco di tempesta e quando finalmente dopo istanti immensi la polvere si era diradata, la famiglia di sette figli che viveva in cima alla via non c’era più, al suo posto un lamento di donna come di animale ferito, un urlo che era pianto di dolore, case che non erano più case, galline impazzite, e silenzio, e polvere, e dolore. Avevano riparato in campagna per sfuggire non so a chi; di tanto in tanto arrivavano notizie allarmanti, i tedeschi sono all’ingresso del paese, ammazzano tutti, scannano bambini…mia nonna chiedeva voi li avete visti, comare, la risposta sempre quella… no, per sentito dire. Molto più tardi arrivarono i soldati americani e non tutti bianchi e lasciarono caffè, cioccolata, gomme da masticare e bimbi scuri.

 
Ma non ero io che scrivevo che non sarei stato più ingannato dalle estati? Non ero io che mi sentivo grande e vivo solo perché avevo fatto l’amore in una notte d’afa, sopra un muretto con la città ai miei piedi? Lei era bella, col suo vestito nero, i tacchi alti, monili da zingara, profumo e fianchi che sapevano d’eterno.
[…] E sono qui, con la mia voglia bambina di stringerti, di percorrere con le dita il tuo profilo, del tuo viso, del tuo corpo, di sentire l’alito potente della tua vita… ed ho paura, paura di parlarti di me, perché vorrei essere sicuro di non annoiarti, paura  perché non conosco questo mio aprirmi, paura di chiedere le tue parole, la tua presenza, te…e vorrei conoscerla la magia delle tue parole, vorrei che tu mi insegnassi il loro segreto, di quanta forza devono avere per riuscire a farmi piangere.

 
Ero come un passero fermo sui fili del telegrafo e attorno, tutto attorno  il cielo, azzurro o di nuvole e il vento di scirocco o l’aria di primavera e avrei voluto spiccare il volo per bucare quel manto d’azzurro che sembrava non dare alcuna indicazione di rotta, ero lì con i miei fili spezzati che cercavo di annodare  in un anagramma d’innocenza per custodire i segnali del mio alfabeto morse; tu hai saputo quali bottoni schiacciare per cominciare la comunicazione e con i fili legati il capitano è sul ponte di comando, all’erta ai segnali, forse un po’ cauto perché non sia di nuovo Titanic, ma è sul mare, ben sapendo che se si affonda non bisogna andare alle scialuppe, si rimane a prua e si ascolta l’orchestra suonare.

 
Sento i tuoi occhi e vorrei fare un ballo con te; non sarà un giro di valzer, né invenzione di jazz, voglio che sia un ballo tra le stelle sentendo il rumore del mare del sud, perché il sud non si rimprovera, come non si rimproverano le assenze. E’ vero ci manca la rotta nella tempesta, il nord è buio e non si sa dove andare, i nostri porti non hanno attracchi, ma false requie ai venti di bufera,  ma proprio per questo cerco il tuo cuore, perché vorrei approdare e il golfo placido dei tuoi fianchi sarà il giorno, il risveglio ed i gabbiani.

 
Succede che ci siamo noi, e se è notte, se ho sonno e ti scrivo, dimmi, ci sarà un perché?

 
Salirò con il cuore in tumulto i gradini della tua casa per venire incontro alla passione con uno squilibrio dolce che sa di vino e nella mia mente ci saranno immagini lacerate che tenterò di tradurre in immense piazze bianche, infuocate dal sole, imponenti come fortezze, e mi accoglierai tra le tue braccia.

 
E sarà prato di papaveri, riposo, dolcezza, tutto ricomincerà con il vento giusto; si apriranno le finestre su musiche di festa, guarderemo i tetti prima delle nuvole e tu sarai un pezzo di quel cielo perché chiuderemo, senza farla scricchiolare, la porta del passato e finalmente avrà un significato quella nastro di vita su cui siamo in bilico come funamboli sospirando i tramonti.

 
Si era affacciata ai suoi anni con  il suo viso fatato, i suoi occhi grandi, le sue parole lievi che si poggiavano su Marco come una piuma, gli varcavano i pensieri  fino a diventare come un tarlo di dolcezza nelle sue notti insonni. Sapeva che sarebbe stata come la vita, un inizio, una fine, un pezzetto di linea retta, un segmento del suo universo; no, non sarebbe stato per sempre, ma in fondo nemmeno lui sarebbe stato per sempre… solo che lei sarebbe andata via prima, altrove, in quel suo universo di cielo congelato e lui sarebbe rimasto lì, con quel mare amaro e senza orizzonte, su quella sabbia umida di inverno nuovo a ricordarla.
Foto di Francesco De Masi
 
Non ci sarebbe più stato tempo per loro, il tempo era passato piano, come una lacrima che scende dagli occhi e si perde tra le labbra.

 
Ma tanto era l’agitarsi del cuore che  in quel momento non ho saputo esprimere tutta la   tenerezza che ti dovevo, non ho saputo cingerti il ventre con alghe e catene per trattenere il  respiro e far vivere  il sogno, non ho saputo raccontare la favola bella che come tutte  le  favole comincia con c’era una  volta. c’era una volta, principessa, anzi per qualche giorno c’è stato, un principe forse biondo col cielo negli occhi, ed era tutto mio, ed era tutto tuo, ed era tutto nostro ed  era… ma non c’è. Tu che sapevi leggere i segni ed i flussi nelle vene, il  polline sui seni  e gli arcobaleni dei  giorni,  con un po’ di sollievo e con un po’ di dolore, non sapendo se era più  giusto dire  finalmente o mi  dispiace, hai scelto un  semplice tutto ok.

 
E mi chiedo dove sei ora, in questo vento di gennaio che taglia la notte, in questa città che dorme, nel silenzio di questa stanza con i tuoi ricordi che mi fissano da foto ingiallite. Chissà se hai dimenticato le mie braccia ed il mio cercarti nelle mattine di ansia quando a svegliarmi era il tuo sorriso, il giorno si apriva con la melodia della tua voce ed il tuo viso  si moltiplicava nelle lancette degli orologi.

 
Io  ora sono qui, senza sogni e senza futuro, ho soltanto l’alabastro dei tuoi ricordi ad accompagnare i giorni; non c’è rumore di stelle nelle mie notti insonni, né canto di gallo ad ogni sorgere del sole con la tua assenza, ma sempre e comunque la domanda senza eco, su quale alfiere distratto, in quale rovina di torri o scalpito di cavalli ho costruito questa disfatta, questo irrimediabile eterno scacco.

 
Al di là del cielo, in bilico tra le nostre realtà, ci incontreremo come fosse un patto, una convenzione, una sfida. Di te mi piace il fatto che sai sognare scavalcando l’ovvio; è uno sforzo costante in cui ti vedo splendente in mezzo alle tormente, e lì mi sembri un angelo che a forza di saggiare fiocchi di neve ha negli occhi il bagliore grigio ghiaccio dell’inverno.

 
Non sussurrare, rispondi alla tua anima, non lasciare andare questa eco.
 
 
Angelo
 
Stai rannicchiata in un angolo, accanto al fuoco, nella tranquilla incertezza se domani sarà cielo o buio per sempre e anche se esplode il sole nelle estati colme di ortensie e frescura dietro le imposte socchiuse, aspetti, con le tue ali calate a proteggerti il cuore e con la tua voce che ora è sussurro dolce di stanca sirena. Non credere, anche se lontano, che non ti sto pensando così come non sono assente nel labirinto dei tuoi pensieri o che non conosca i tuoi voli di malinconia quando ti sforzi ad immaginare dove sono e cosa sto facendo.
 
 
Ti ho visto piangere, talvolta, di quel dolore sordo che distrugge l’anima e scava la vita e ti fa cercare in catini di finta cartomante, gli inganni del destino o una speranza, per me, di alterna fortuna, ma non ho mai visto una ruga di stanchezza in giorni e giorni, nemmeno quando le tue ossa hanno cominciato a raccontare il peso degli anni e la fatica di vivere.
 
 
Non chiedo altro, se non una voce pacata che accompagni i tuoi sorrisi e una carezza d’affetto che ti possa riportare a quelle feste solo sognate, di gioventù agreste, alle nostre notti di San Silvestro, chiusi in casa, attenti alle baldorie di tuono, agli spari di giubilo, alle luci allegre che spaccavano la notte, ad aspettare il futuro con la stella del Salvatore brillante d’argento che oscillava al soffitto. Se in questo oceano di dubbi mi giro a guardare le lanterne dei nostri porti, non trovo altro se non i c’era una volta da favola con te che pulisci gli acini d’uva perché potessi mangiarli, ingannando una colite vigliacca, trovo i giorni del mare, le Pasque di vento tiepido, e ti rivedo, rivedo il tuo sguardo di dolcezza, i cerchi d’oro ai tuoi lobi d farfalla, risento la tua voce raccontare, le tue braccia avvolgermi in una mantellina rossa all’uscita di scuola, con la pioggia fitta di un autunno lontano.
 
 
Tutte le Stelle che hanno accompagnato i miei anni di sfortuna erano solo repliche dei tuoi sorrisi, ma come me, speravi sempre in un universo di quiete e in braccia d’amore che sapessero accogliere le mie sere.
 
 
Ogni giorno sento la tua voce ed ogni giorno mi ridai la vita, e vorrei raccontarti di questa galassia che ora im avvolge e riesce ancora a farmi immaginare un futuro, così che per ridare pace alla tua ansia, mi piacerebbe parlarti di questa felicità nuova di queste carezze non sperate che mi stanno facendo sopravvivere ai flutti dell’inganno di quel lancio di dadi che mi ha rubato gli anni. Chissà cosa diresti ai suoi capelli di vento, ai suoi occhi profondi, alle sue braccia di passero perdute nella neve. Forse non saresti più in quell’angolo di buio a pregare che il domani comunque mi trovi, forse potrei fare smettere la nenia incessante della tua schiena curva, riuscirei a farti sorridere e fare in modo che le tue notti fossero solo e soltanto una certezza di risveglio sereno e le tue braccia esili stringerebbero, assieme a me, questo Natale di fili dorati che mi scrive e mi parla con parole bambine. Così, come mi perdo nei tuoi ricordi, oggi mi perdo nei suoi pensieri, ma tu conosci le strade della mia esistenza e mi perdoni del tempo che ti ho rubato, dei dolori che ti ho dato, di tutti i giorni senza domeniche, delle assenze alle tue domande e dei tuoi perché senza risposte, della mia voce crudele e dei miei graffi sul mondo, dei miei silenzi di giuda, di questa ferita grande che ho nel cuore.
 
 
Non so se l’alba porterà sereno o neve, non importa, comunque sia purché ci sia la tua voce e per questa notte, che sa di arance e di miele, per le stelle e per la luna, e per il tuo sonno lieve, buonanotte, madre.
 

Lettera al padre.


Ti guardo.
Mi hanno fatto venire perché stavi male, non ho preso il primo treno, ho temporeggiato, ho aspettato, non potevi morire senza di me e finché io non arrivavo tu avresti continuato a vivere.
Ti guardo. 
Steso in un letto d'ospedale con gli occhi chiusi, in un settembre d'afa. Nessuno mi sa dire che cosa hai di preciso: la testa, il cuore, il respiro…So soltanto che hai cominciato urlando per le tue scarpe bagnate, che volevi andare al Consiglio dei Dieci, so soltanto che a volte, di notte, sentivo i tuoi passi per le scale e ti vedevo con un mappamondo in mano. Era inutile chiederti dove stavi andando, perché mi rispondevi che volevi vedere come è grande il mondo.
Io avevo provato a fartelo vedere un po' di mondo, dall'oblò di un aereo, l'unico regalo che ti ho fatto per avermi regalato la vita. E la tua voglia continua di andare a casa tua, da tua madre, nella via dove eri nato, ma casa tua è qui, ci sei a casa tua, no mi urlavi, questa non è casa mia e mia mamma mi aspetta.
Ti guardo...
E ti invidio perché hai qualcuno che ti tiene le mani, che ti bagna le labbra, io non avrò nessuno, io come dici tu non ho né figli né conigli e non ti ho dato il nipote che volevi, che avrebbe portato il tuo nome e il tuo cognome, niente, non ti ho dato niente, solo quella piccola, insignificante soddisfazione del giorno della mia laurea, quando finalmente, dopo anni che aspettavo un tuo assenso, mi hai detto ce l'abbiamo fatta! Tu ce l'hai fatta, babbo, tu non io.
Ti guardo...
E so che vivrai, è troppo azzurro il cielo, è troppo dolce l'aria, nonostante i dottori ti guardano scuotendo la testa e non rispondono se chiediamo qualcosa, allargano le braccia e vanno via. Tu non ci fai caso, guardi il tuo vicino di letto e di dolore, poi guardi me, e sussurri: "è fregato". Hai ancora l'ironia in quel tuo respiro di farfalla, hai ancora il sorriso, poi chiudi gli occhi ma so che li riaprirai, so che lo farai, so che per te ci sarà ancora domani. Allora esco nel corridoio e fumo e piango e aspetto che tu riapra gli occhi e che cessi l'affanno del tuo respiro.
 

Quell’istante eterno fermava il cuore del mondo e congelava il canto degli uccelli, serrava i balconi, chiudeva le porte, appannava gli specchi e sulle terrazze esponeva i damaschi della via crucis e del cristo risorto e l’aria portava petali di ginestre e odore di rosmarino per quel viandante senza ritorno…
Adesso, non sente più dolore.


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