«Mangia,
Jessie. Da quanto tempo è che non mangi?»
Non
dirò più a nessuno "mangi come un lupo". Da oggi in poi dirò:
"Mangi come Jessie", e racconterò la sua storia, come la sto
raccontando a te, con un filo di emozione nella voce.
Si
era avventata sul piatto di pasta al pomodoro come se fosse un ricco banchetto,
a testa bassa, senza alzarla nemmeno un attimo.
Non
gliene fregava nulla di ciò che le girava intorno, e nemmeno di me, che le
stavo offrendo quel pasto. Nemmeno un cenno di riconoscenza. Non che me lo
aspettassi, per carità! Ma almeno uno sguardo felice, quello sì che mi
aspettavo di vederlo nei suoi occhi.
Erano giorni che volevo farlo. Forse persino dalla prima volta che l'avevo vista, nei sotterranei del metro, nel lungo corridoio della linea gialla, in cui di solito trasmettono musica, e ogni tanto ci trovi band di giovani assetati di libertà. E invece quella mattina c'era lei, al di fuori della pioggia che scrosciava, al di fuori dell'umido di quell'estate che ti appiccicava addosso i vestiti. Allentai la cravatta quando la vidi, come se aspirassi a quella libertà che aveva lei, di girare intorno al mondo chiuso in una città.
Erano giorni che volevo farlo. Forse persino dalla prima volta che l'avevo vista, nei sotterranei del metro, nel lungo corridoio della linea gialla, in cui di solito trasmettono musica, e ogni tanto ci trovi band di giovani assetati di libertà. E invece quella mattina c'era lei, al di fuori della pioggia che scrosciava, al di fuori dell'umido di quell'estate che ti appiccicava addosso i vestiti. Allentai la cravatta quando la vidi, come se aspirassi a quella libertà che aveva lei, di girare intorno al mondo chiuso in una città.
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Non
aveva più di diciotto anni, e se ne stava seduta a terra con un violino
appoggiato su una spalla, con il suo cane che appoggiava il muso su una coscia.
Un cappello nero che le cadeva un po’ sulla fronte. Indossava un giubbetto e
una canotta nera sopra un paio di jeans scoloriti, strappati sul ginocchio e la
lingua del suo compagno di giochi bambini era instancabile nel mostrarle il suo
affetto incondizionato.
Le
sue dita magre e nodose si appoggiavano ora con forza ora con delicatezza
sull'archetto del violino, risuonando nell'aria una musica dolce e bastarda, di
quelle che ti scuotono la bocca dello stomaco e ti fanno rigurgitare la vita
marcia che senti dentro di te, fino a farti sentire in pace con te stesso.
Da
quel giorno la vidi tutte le mattine. La stessa scena oramai era un puzzle che
si incastrava perfettamente nello scorrere uguale di istanti delle mie
giornate. La vedevo da lontano, affondavo la mano nella tasca dei pantaloni,
quella appena rotta, che avrei dovuto rammendare da sempre, e che invece era ancora
lì, con un buco sfrangiato dal quale passavano tutte le monetine, fermandosi
appena più sotto, in un angolo del pantalone dove solo il mignolo riusciva a infilarsi.
Era un lavoro nervoso riuscire ad afferrarle, uno o due euro, e le deponevo in
un cappello da cow-boy che restava lì, a due centimetri da lei, come fauci
spalancate ad inghiottire le elemosine della mia vita.
Poi
un giorno passavo di lì, e non la trovai. Fu come se qualcuno avesse spostato
l'ordine del tempo e dello spazio che segnava la mia vita. Guardai
istintivamente l'orologio pensando "è troppo presto, è troppo tardi"
e invece le lancette scandivano senza pietà gli stessi attimi di sempre, quelle
frazioni uguali di una vita che si ripete, ogni giorno uguale all'altro.
La trovai sulla banchina, ferma, ritta e impettita, lo sguardo che fissava il muro di fronte, sul quale un enorme McBurger le faceva l'occhiolino. Era elegante, nei suoi cenci sporchi e abbruttiti di vagabonda.
La trovai sulla banchina, ferma, ritta e impettita, lo sguardo che fissava il muro di fronte, sul quale un enorme McBurger le faceva l'occhiolino. Era elegante, nei suoi cenci sporchi e abbruttiti di vagabonda.
Mi
avvicinai istintivamente a lei, annusai l'odore di strada che la teneva lontana
dalla gente. Intorno a lei c'era un vuoto di persone perbene che prendeva le
distanze da quel relitto. Ruppi quell'invisibile muro, e mi avvicinai. Lei
volse lo sguardo verso di me. I suoi occhi mi dissero "non hai paura, come
gli altri?", una sorpresa per me, che mi aspettavo che mi respingesse con
un "come ti permetti?".
E
fu allora che le parlai. "Credevo di trovarti lì, nel corridoio". La
sua risposta fu un vago alzarsi di spalle, e il suo viso si riportò
sull'immagine di fronte a sé. Non so perché, ma volevo insistere. "Dove
vai ora?" "Perché non c'eri?".
Il
suo volto non si girava più, difficile dire se stesse ancora ascoltando me o la
sua fame. Ma poi all'improvviso si voltò, e lesse nei miei occhi un profondo
bisogno di lei, della sua musica. Lei che non aveva niente, si fermò, si
sedette a terra, prese il suo violino e inizio a suonare per me, per me che
avevo avuto dalla vita tutto ciò che avevo desiderato.
E allora feci ciò che non avrei mai pensato di fare, fregandomene della gente che inorridiva intorno a noi.
E allora feci ciò che non avrei mai pensato di fare, fregandomene della gente che inorridiva intorno a noi.
Mi
sedetti davanti a lei e chiusi gli occhi, e l'ascoltai suonare e suonare e
suonare per un tempo che non saprei dire. Per quegli istanti ero con lei, fuori
dall'ordinario, fuori dalla vita, senza lancette, senza luoghi, senza regole.
Una
mano dura si appoggiò alla mia spalla. "Sta bene signore"? "Sì,
sto bene". E poco dopo vidi quella divisa che si accostava a lei,
l'afferrava rozza sotto l'ascella e la trascinava via. "Fermo, lei sta con
me". Dissi. E l'uomo si fermò. "Mi scusi, pensavo la
disturbasse". "Siamo noi che disturbiamo lei, non lo capisce?" gli
dissi mentre se ne andava scuotendo la testa.
"Grazie".
La sua voce era voce di bimba. Improvvisamente non sembrava più adolescente.
Aveva occhi neri profondi e capelli arruffati, e graffi dappertutto e sangue
sulle ginocchia. Poteva essere mia sorella, quella bambina impertinente che mi
sfidava ringraziandomi.
Passammo qualche ora insieme. Mi raccontò della sua infanzia spezzata dalla morte del fratello, dei suoi genitori troppo presi da quel dolore per accorgersi di lei, del suo affannarsi a studiare violino, del rifugio della musica.
Passammo qualche ora insieme. Mi raccontò della sua infanzia spezzata dalla morte del fratello, dei suoi genitori troppo presi da quel dolore per accorgersi di lei, del suo affannarsi a studiare violino, del rifugio della musica.
Mi
ricordai dell'immagine che mangiava con gli occhi, e le dissi "Vieni"
e entrammo in quel McDonald all'angolo della strada, con le luci colorate che,
mi disse, le ricordavano le vigilie di Natale, quando con suo fratello andava a
letto presto per paura che nessuno scendesse dal camino a portarle regali.
"Dove vivi?" "Qui e là". Non amava parlare della sua vita
attuale, e rispettai quella scelta.
«Mangia
Jessie, mangia.»
Si
interruppe, su quell'invito, e alzò lo sguardo. Non so spiegare bene ciò che
successe, ma i suoi occhi si schiusero all’improvviso dalla gioia al terrore.
Vidi che fissava un punto preciso dietro di me e pian piano lo sguardo si levò.
Qualcuno mi urtò la spalla, scortese e incurante, e mi accorsi che era lui che
Jessie stava guardando. Mi chiesi perché una persona sconosciuta potesse
suscitare in lei un così profondo orrore, e poi capii, quando l’uomo si sedette
al nostro fianco, e iniziò a tamburellare con le dita sul tavolo, guardando
fisso verso di noi, a turno, un po’ lei e un po’ me.
Jessie
non mangiava più e intuii che fosse più a causa di quell’uomo che per la ovvia
sazietà che un uomo avrebbe provato al quarto piatto di pasta. La interrogai
con gli occhi, ma lei li distolse e iniziò a tamburellare con le dita come se
fra lei e quell’uomo che quasi la sfiorava si stesse intrattenendo una
conversazione in codice Morse. Tum, tum tum, tum, tum, tum. Rimpiansi di non
aver svolto il servizio militare come telegrafista, io che sulla nave ci ero
salito come marinaio semplice, un puro “mozzo di borgata”, come mi chiamavano i
miei commilitoni.
Fu
allora che le chiesi: “Cosa c’è, Jessie, vuoi andare via?”
Non
mi rispose, semplicemente si alzò, perdendo la sua eleganza e come una barbona
gettò sul tavolo il tovagliolo che prima riposava sulle ginocchia. Mi guardò,
mi disse “Ma di che ti impicci? Pensi che solo per avermi fatto compagnia e
dato da mangiare tu abbia il diritto di chiedermi quello che vuoi?”. Uscì,
senza nemmeno darmi la possibilità di replicare.
Guardai
quell’uomo. Cercavo di immaginare quale potere fosse nelle sue mani, e stavo
quasi per andare via, rassegnato di aver perso Jessie e il suo mondo incantato,
quando l’uomo si alzò e mi mise una mano sulla spalla.
«Sono
suo padre. Le ho dato la vita. E mi piange il cuore vederla così… E’ un gioco
che facevamo quando era piccola. Parlavamo con le dita. Io la seguo, spesso,
nel suo vagabondare. Tengo le distanze, e so che prima o poi tornerà.»
«Io
le ho solo dato da mangiare. Ben poco, se ci penso, per ciò che mi regala lei
ogni giorno con la sua musica. So della vostra famiglia, Jessie me ne ha
parlato. Non posso certo insegnare a lei come trattare sua figlia. Ma fa bene a
seguirla, è preziosa. Buona fortuna.»
Uscii
dal locale. Mi accesi una sigaretta e mi guardai in giro.
Era
ferma sul marciapiede, seduta per terra, con il violino sulla spalla e
l’archetto pronto a suonare. Sembrava mi stesse aspettando. Iniziò a suonare il
Canone di Pachelbel, e mi fermai ad ascoltarla. Lo suonò tutto, e la musica
volava intorno a lei rendendola bellissima.
Dopo
l’ultima nota si fermò, poggiò il violino accanto a sé.
«Scusa.
Torna quando vuoi e suonerò ancora per te.»
Le
sorrisi. «Ci puoi giurare!».
Le
lasciai qualche moneta e un cioccolatino nel cappello da cow-boy e voltai
l’angolo. Mi fermai davanti alla prima vetrina e vidi il mio viso. Sorridevo, e
non riuscivo a ricordare da quanto tempo non mi capitasse.
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