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Avevo
dodici anni quando mia madre se ne andò.
Avevo
dodici anni, e mio fratello dieci.
Anche quel giorno, come ogni giorno da anni, da prima che io nascessi,
suonarono le campane. A mezzogiorno e cinque in punto. Don Emilio percorreva un
gradino dopo l'altro, appoggiandosi a un bastone duro e nodoso, fino ad
arrivare in cima alla torretta del campanile, dove si fermava un attimo per
tirare il fiato, prima di afferrare la corda e tirare per dodici volte.
Aveva ottant'anni don Emilio, e ancora recitava Messa a Castiglione Alto, un
paese di poche case che nessuno conosceva, se non la direzione sanitaria che
aveva assegnato lì mio padre, come medico condotto, a curare quelle poche anime
stanche di vita, che messe insieme sommavano a quaranta secoli del mondo, e che
perfino la morte aveva dimenticato.
Si chiamava Castiglione Alto, ma non c'era un mare giù in basso, non c'era
nulla intorno se non campi sterrati che un tempo avevano risuonato del giallo
dei girasoli. Il paese più vicino era a solo tre chilometri, appena dopo la
curva, ma non si vedeva, e così si aveva l'impressione di essere sulla cima del
nulla.
Non c'erano scuole, perché' non c'erano bambini. Così d'inverno la mattina
presto quando la notte ancora gelava, un piccolo pulmino che ci portava nel
paese vicino, lo stesso pulmino che poi tornava a portare il pane, il latte, un
po' di frutta e di carne, per riempire le cantine di quelle case.
D'inverno la strada era deserta, le imposte serrate, solo le foglie correvano
sull'asfalto. Ma quando nevicava perfino il vento si zittiva. Nemmeno la luna
osava sfidare il buio. Mia madre ci raccontava che quell’assenza di luce era il
colore del nulla.
D'estate
la luce occupava il tempo negli occhi di quei visi spenti, fermi sulle soglie
delle loro case, con i loro vestiti scuri, le mani poggiate sulle ginocchia, i
vestiti stropicciati trasudanti di sudore. Sembravano corpi esposti come
mercanzia per la signora con la falce, semmai si fosse ricordata di quel posto
remoto sulla collina. Immaginavo che se fosse arrivata, si sarebbero alzati
tutti insieme, come bambini dietro un carretto di gelato su una spiaggia
assolata, e avrebbero gridato "Io, io, io!".
Mio padre li visitava tutti, ogni giorno, insieme a don Emilio: uno curava il
corpo, e uno l'anima. E la sera quando tornava a casa, si sedeva sulla poltrona
davanti al camino in silenzio, ascoltando i nostri racconti.
Mia madre invece, d'estate come d'inverno, sedeva fuori, in veranda, sulla sua
sedia a rotelle, con in mano una tazza di sangria in estate e un bicchiere di punch
in inverno. Noi ragazzi le stavamo lontano, papà ci diceva che era stanca. Il
suo sguardo lambiva il patio, ed eravamo certi che dopo tutti quegli anni lei
fosse in grado di ridisegnarlo tutto, ogni striatura del legno, ogni imperfezione
di quelle liste del parquet, e immaginavamo che sapesse con esattezza l'ora e
il giorno in cui ogni macchia di sole e di pioggia vi si erano formate. Sedeva
lì silenziosa, come se la sua lingua si fosse seccata per il non poter parlare
con nessuno, e quelle gocce di alcol erano l'unica concessione che si faceva,
dopo una giornata di nulla.
Ed era lì al mattino, quando uscivamo da casa e lei ci faceva un sorriso
muovendo appena la piega destra delle labbra e accennava un movimento di dita
leggero. Non sapevamo cosa facesse nelle ore in cui eravamo a scuola, ma
sapevamo che sarebbe stata lì anche a mezzogiorno e cinque in punto, quando don
Emilio suonava le campane, e all'una, quando l'autobus ci riportava da scuola. Ed
era lì il pomeriggio, quando alle cinque il sole scompariva dietro le gobbe
della collina sonnecchiante.
Un
giorno la trovammo con lo sguardo rivolto al patio, e ci sembrò strano vedere i
suoi occhi muoversi seguendo una lunga fila di formiche che sembravano
impazzite e giravano in tondo disegnando cerchi concentrici. Ma non appena ci
interessammo a quel diversivo, lei sorrise e si trascinò in casa, come se si
sentisse di aver già osato troppo.
Avevo dodici anni quando mia madre se ne andò.
Avevo
dodici anni e mio fratello dieci.
Quando qualcuno gli chiedeva perché non ci fosse più, lui rispondeva "Per
abitudine", e noi bambini lo ripetevamo a noi stessi, come se masticando
quelle parole all'infinito, all'improvviso potessimo capire perché la morte
arrivando a Castiglione Alto avesse scelto proprio lei.
Oggi vivo in una casa sul mare.
Il
mare non è mai fermo, né stanco. E porta vita.
Riscatto
così la mia infanzia.
La noia.
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