Archivio Blog

Cerca nel blog

17 giu 2014

Avevo dodici anni

almost-twelve-by-cameradude.jpg
www.deviantart.com
Avevo dodici anni quando mia madre se ne andò.
Avevo dodici anni, e mio fratello dieci.
Anche quel giorno, come ogni giorno da anni, da prima che io nascessi, suonarono le campane. A mezzogiorno e cinque in punto. Don Emilio percorreva un gradino dopo l'altro, appoggiandosi a un bastone duro e nodoso, fino ad arrivare in cima alla torretta del campanile, dove si fermava un attimo per tirare il fiato, prima di afferrare la corda e tirare per dodici volte.
 
Aveva ottant'anni don Emilio, e ancora recitava Messa a Castiglione Alto, un paese di poche case che nessuno conosceva, se non la direzione sanitaria che aveva assegnato lì mio padre, come medico condotto, a curare quelle poche anime stanche di vita, che messe insieme sommavano a quaranta secoli del mondo, e che perfino la morte aveva dimenticato.
 
Si chiamava Castiglione Alto, ma non c'era un mare giù in basso, non c'era nulla intorno se non campi sterrati che un tempo avevano risuonato del giallo dei girasoli. Il paese più vicino era a solo tre chilometri, appena dopo la curva, ma non si vedeva, e così si aveva l'impressione di essere sulla cima del nulla.

Non c'erano scuole, perché' non c'erano bambini. Così d'inverno la mattina presto quando la notte ancora gelava, un piccolo pulmino che ci portava nel paese vicino, lo stesso pulmino che poi tornava a portare il pane, il latte, un po' di frutta e di carne, per riempire le cantine di quelle case.
 
D'inverno la strada era deserta, le imposte serrate, solo le foglie correvano sull'asfalto. Ma quando nevicava perfino il vento si zittiva. Nemmeno la luna osava sfidare il buio. Mia madre ci raccontava che quell’assenza di luce era il colore del nulla.

D'estate la luce occupava il tempo negli occhi di quei visi spenti, fermi sulle soglie delle loro case, con i loro vestiti scuri, le mani poggiate sulle ginocchia, i vestiti stropicciati trasudanti di sudore. Sembravano corpi esposti come mercanzia per la signora con la falce, semmai si fosse ricordata di quel posto remoto sulla collina. Immaginavo che se fosse arrivata, si sarebbero alzati tutti insieme, come bambini dietro un carretto di gelato su una spiaggia assolata, e avrebbero gridato "Io, io, io!".
Mio padre li visitava tutti, ogni giorno, insieme a don Emilio: uno curava il corpo, e uno l'anima. E la sera quando tornava a casa, si sedeva sulla poltrona davanti al camino in silenzio, ascoltando i nostri racconti.
 
Mia madre invece, d'estate come d'inverno, sedeva fuori, in veranda, sulla sua sedia a rotelle, con in mano una tazza di sangria in estate e un bicchiere di punch in inverno. Noi ragazzi le stavamo lontano, papà ci diceva che era stanca. Il suo sguardo lambiva il patio, ed eravamo certi che dopo tutti quegli anni lei fosse in grado di ridisegnarlo tutto, ogni striatura del legno, ogni imperfezione di quelle liste del parquet, e immaginavamo che sapesse con esattezza l'ora e il giorno in cui ogni macchia di sole e di pioggia vi si erano formate. Sedeva lì silenziosa, come se la sua lingua si fosse seccata per il non poter parlare con nessuno, e quelle gocce di alcol erano l'unica concessione che si faceva, dopo una giornata di nulla.
 
Ed era lì al mattino, quando uscivamo da casa e lei ci faceva un sorriso muovendo appena la piega destra delle labbra e accennava un movimento di dita leggero. Non sapevamo cosa facesse nelle ore in cui eravamo a scuola, ma sapevamo che sarebbe stata lì anche a mezzogiorno e cinque in punto, quando don Emilio suonava le campane, e all'una, quando l'autobus ci riportava da scuola. Ed era lì il pomeriggio, quando alle cinque il sole scompariva dietro le gobbe della collina sonnecchiante.

Un giorno la trovammo con lo sguardo rivolto al patio, e ci sembrò strano vedere i suoi occhi muoversi seguendo una lunga fila di formiche che sembravano impazzite e giravano in tondo disegnando cerchi concentrici. Ma non appena ci interessammo a quel diversivo, lei sorrise e si trascinò in casa, come se si sentisse di aver già osato troppo.
Avevo dodici anni quando mia madre se ne andò.
Avevo dodici anni e mio fratello dieci.
Quando qualcuno gli chiedeva perché non ci fosse più, lui rispondeva "Per abitudine", e noi bambini lo ripetevamo a noi stessi, come se masticando quelle parole all'infinito, all'improvviso potessimo capire perché la morte arrivando a Castiglione Alto avesse scelto proprio lei.
 
Oggi vivo in una casa sul mare.
Il mare non è mai fermo, né stanco. E porta vita.
Riscatto così la mia infanzia.
 Avevo dodici anni, ora ne ho trenta, e lo so cosa uccise mia madre quel giorno a mezzogiorno e cinque in punto.
La noia.

Nessun commento:

Posta un commento