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17 giu 2014

L'ascensore

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L’apertura delle porte dell’ascensore nella hall intitolata a George Washington annunciò l’inizio della mia avventura presso la Warner Financial Co. di Boston. Allora ero giovane, inesperta, ma avevo tanta voglia di lavorare, mettendo a frutto gli studi universitari e i master che i miei genitori a fatica avevano pagato. Ero l’unica figlia di una famiglia della media borghesia americana, che non aveva ancora abbandonato l’idea che gli Stati Uniti fossero il posto dove se avevi talento potevi ancora aspirare a diventare Presidente di una Nazione. La mia carriera universitaria aveva dimostrato con i voti sempre al massimo e i numerosi premi che io avevo talento, e la Warner Financial mi aveva fatta recapitare una lettera a firma dell’Amministratore Delegato, nella quale si dichiaravano onorati di offrirmi il posto di gestore di un portafoglio di clientela istituzionale.
Quando entrai mi aspettavo di annusare l’aria e trovarvi l’odore di sudore degli uomini in giacca e cravatta dal fare piuttosto arrogante, che si muovevano con sicurezza tra quegli spazi angusti, delimitati da piccole pareti in cartongesso ricoperto di ruvida carta da parati, ciascun loculo arredato di computer e telefono di ultima generazione collegati con i principali broker internazionali.
Per questo rimasi sorpresa dall’odore che percepii entrando. Un uomo e una donna al mio fianco sembravano usciti da un corpo a corpo piuttosto eccitante, e emanavano un odore acre di amore consumato di fretta in qualche sgabuzzino fuori dalla portata di occhi indiscreti. E mi stupii ancora di più quando le porte si riaprirono al terzo piano e il profumo di pappe sbrodolate misto a un profumo da donna che sembrava piuttosto costoso si diffuse impietoso nelle mie narici. Dopo lo stupore iniziale, immaginai che si trattasse della moglie di un alto dirigente, in gita occasionale nel tempio della finanza bostoniana.
Decisi di smettere di respirare quegli odori che non mi appartenevano, restituendoli ai legittimi proprietari, per tirare una boccata d’aria appena fuori dall’ascensore, due piani più su. Ma i commenti sommessi dei due amanti e le interminabili parole di consolazione della madre mi convinsero che la sosta non solo non era una novità, ma poteva essere anche piuttosto lunga.
Incurante di cosa avrebbero potuto pensare quegli sconosciuti intorno a me, mi sedetti a terra e il bambino subito mi imitò. I rumori che si susseguirono mi fecero immaginare allarmi in stanze di controllo, operai in tute da lavoro che correvano alle centrali degli ascensori, sferragliare di attrezzi intorno a oggetti meccanici di sconosciute forme e dimensioni. Gli odori cambiavano con i minuti che passavano e si alternavano su di me con violenza il sudore della paura, l’acre respiro dell’attesa, oltre che a uno spiacevole odore di escrementi che non riusciva ad essere bloccato dai pannolini. Ma più degli odori, quello che mi dava fastidio era la paura incondizionata dei miei compagni, che pian piano si distorceva in rassegnazione, si esaltava in speranza e volgeva infine in rabbia. Credo di essere l’unica a essere rimasta calma in quella situazione. E in tutto questo, nemmeno una parola, che non fosse diretta dall’uomo alla donna, dalla donna all’uomo, dalla madre al bambino. Era come se io lì dentro non fossi con loro, come se fossi una presenza trasparente, e imputai il motivo di quella percezione d’assenza alla mia calma, inspiegabile ai loro occhi.
Quando una voce risuonò metallica da una griglia, annunciandoci che quel tempo in cui avevamo vissuto forzatamente insieme era finito, sospiri di sollievo e risate di gioia accompagnarono le piccole scosse dell’ascensore che aveva ripreso la sua corsa verso il cielo. Si aprirono le porte e ci fu intimato di scendere, quasi come se quella sosta fosse stata colpa nostra. Fummo fatti sedere su comode poltrone e ci portarono da bere. Stavo per andare via, quando una mano mi trattenne.
«Mi spiega come ha fatto a rimanere calma, al buio, tutto il tempo?»
«Era buio? Mi spiace, non me ne sono accorta. Io sono cieca, sono abituata a restare in attesa per lungo tempo, nello spazio ristretto della mia mente, e a cercarmi varchi nella mia coscienza per sopravvivere.»
«Mi spiace, non me ne ero accorta.»
«Non si preoccupi. Del resto era buio, come poteva saperlo?»
 
Me ne andai, sorridendo.
Il giorno dopo arrivai in ufficio, mi sedetti alla scrivania e tastai il piano per cercare la tastiera. Mi punsi con una spina. Avrei dovuto immaginarlo per l’odore pungente che mi aveva sopraffatto appena mi era seduta. C’era una rosa, ed un biglietto in braille. “Grazie, per aver insegnato a mia moglie che perfino nel buio si può vedere una luce, se quella luce è dentro di te.»

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