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the_lift_by_zestkitten-d3d8hp4.jpg www.deviantart.com |
L’apertura delle porte
dell’ascensore nella hall intitolata a George Washington annunciò l’inizio
della mia avventura presso la Warner Financial Co. di Boston. Allora ero
giovane, inesperta, ma avevo tanta voglia di lavorare, mettendo a frutto gli
studi universitari e i master che i miei genitori a fatica avevano pagato. Ero
l’unica figlia di una famiglia della media borghesia americana, che non aveva
ancora abbandonato l’idea che gli Stati Uniti fossero il posto dove se avevi
talento potevi ancora aspirare a diventare Presidente di una Nazione. La mia
carriera universitaria aveva dimostrato con i voti sempre al massimo e i
numerosi premi che io avevo talento, e la Warner Financial mi aveva fatta
recapitare una lettera a firma dell’Amministratore Delegato, nella quale si
dichiaravano onorati di offrirmi il posto di gestore di un portafoglio di clientela
istituzionale.
Quando entrai mi aspettavo di
annusare l’aria e trovarvi l’odore di sudore degli uomini in giacca e cravatta
dal fare piuttosto arrogante, che si muovevano con sicurezza tra quegli spazi
angusti, delimitati da piccole pareti in cartongesso ricoperto di ruvida carta
da parati, ciascun loculo arredato di computer e telefono di ultima generazione
collegati con i principali broker internazionali.
Per questo rimasi sorpresa
dall’odore che percepii entrando. Un uomo e una donna al mio fianco sembravano
usciti da un corpo a corpo piuttosto eccitante, e emanavano un odore acre di
amore consumato di fretta in qualche sgabuzzino fuori dalla portata di occhi
indiscreti. E mi stupii ancora di più quando le porte si riaprirono al terzo
piano e il profumo di pappe sbrodolate misto a un profumo da donna che sembrava
piuttosto costoso si diffuse impietoso nelle mie narici. Dopo lo stupore
iniziale, immaginai che si trattasse della moglie di un alto dirigente, in gita
occasionale nel tempio della finanza bostoniana.
Decisi di smettere di respirare
quegli odori che non mi appartenevano, restituendoli ai legittimi proprietari,
per tirare una boccata d’aria appena fuori dall’ascensore, due piani più su. Ma
i commenti sommessi dei due amanti e le interminabili parole di consolazione
della madre mi convinsero che la sosta non solo non era una novità, ma poteva
essere anche piuttosto lunga.
Incurante di cosa avrebbero
potuto pensare quegli sconosciuti intorno a me, mi sedetti a terra e il bambino
subito mi imitò. I rumori che si susseguirono mi fecero immaginare allarmi in
stanze di controllo, operai in tute da lavoro che correvano alle centrali degli
ascensori, sferragliare di attrezzi intorno a oggetti meccanici di sconosciute
forme e dimensioni. Gli odori cambiavano con i minuti che passavano e si
alternavano su di me con violenza il sudore della paura, l’acre respiro
dell’attesa, oltre che a uno spiacevole odore di escrementi che non riusciva ad
essere bloccato dai pannolini. Ma più degli odori, quello che mi dava fastidio
era la paura incondizionata dei miei compagni, che pian piano si distorceva in
rassegnazione, si esaltava in speranza e volgeva infine in rabbia. Credo di
essere l’unica a essere rimasta calma in quella situazione. E in tutto questo,
nemmeno una parola, che non fosse diretta dall’uomo alla donna, dalla donna
all’uomo, dalla madre al bambino. Era come se io lì dentro non fossi con loro,
come se fossi una presenza trasparente, e imputai il motivo di quella
percezione d’assenza alla mia calma, inspiegabile ai loro occhi.
Quando una voce risuonò metallica
da una griglia, annunciandoci che quel tempo in cui avevamo vissuto
forzatamente insieme era finito, sospiri di sollievo e risate di gioia
accompagnarono le piccole scosse dell’ascensore che aveva ripreso la sua corsa
verso il cielo. Si aprirono le porte e ci fu intimato di scendere, quasi come
se quella sosta fosse stata colpa nostra. Fummo fatti sedere su comode poltrone
e ci portarono da bere. Stavo per andare via, quando una mano mi trattenne.
«Mi spiega come ha fatto a rimanere calma, al buio, tutto il tempo?»
«Era
buio? Mi spiace, non me ne sono accorta. Io sono cieca, sono abituata a restare
in attesa per lungo tempo, nello spazio ristretto della mia mente, e a cercarmi
varchi nella mia coscienza per sopravvivere.»
«Mi
spiace, non me ne ero accorta.»
«Non
si preoccupi. Del resto era buio, come poteva saperlo?»
Me ne andai, sorridendo.
Il giorno dopo arrivai in
ufficio, mi sedetti alla scrivania e tastai il piano per cercare la tastiera.
Mi punsi con una spina. Avrei dovuto immaginarlo per l’odore pungente che mi
aveva sopraffatto appena mi era seduta. C’era una rosa, ed un biglietto in
braille. “Grazie, per aver insegnato a mia moglie che perfino nel buio si può
vedere una luce, se quella luce è dentro di te.»
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