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11 giu 2014

L'ingorgo

Ero fermo lì, dove ero stato tante altre volte, a guardare la strada e la gente che tornava a casa, solitario, perso nei visi qualunque che attraversavano la strada con lo sguardo assente o guidavano fissando altro, un bambino nell'auto, un cane nel portabagagli, il cellulare lampeggiante.
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 Ero fermo lì, quando sentii la prima pioggia lieve che si depositava su di me.
Amavo la pioggia, così come odiavo il sole.
Quelle gocce, stropicciandomi, mi facevano vivere, mi regalavano una sensazione di vita vissuta tra le mani della gente, mi facevano sentire di essere appartenuto a qualcuno, che mi aveva desiderato e poi amato, anche se in ultimo mi aveva lasciato lì, su un marciapiede, in attesa di un altro amore.
La pioggia rendeva strana la gente, e mi piaceva restare fermo lì a guardarla.

C’erano tutti, in quei volti diversi, ma sempre uguali, che si alternavano davanti a me, seduto comodamente ad osservarli, da un inusuale punto di vista.
 Impeccabili impiegati che diventavano rissosi e sfogavano le quotidiane frustrazioni spiando morbosamente le altre auto attraverso i finestrini, guardoni di vita altrui, invidiosi di chi sedeva comodamente su auto lussuose.
 Donne in carriera che sbuffavano del tempo perso e cercavano di approfittare delle lunghe soste ai semafori per continuare a lavorare, digitando meccanicamente sui cellulari.
 Mamme che impazzivano a cercare di calmare un piccolo bambino seduto come un re sul seggiolino posteriore.
 Ragazzi giovani e meno giovani che cantavano a squarciagola perdendosi nella musica.
 Distratti volti che riflettevano sull’inutilità dei tergicristalli sotto quella pioggia, e li spegnevano, spegnevano i motori come avevano spento da tempo la loro vita.
 Innamorati che approfittavano delle lunghe soste per un bacio, nascosti dietro i vetri appannati, incapaci di stare distanti.
 Le conoscevo tutte quelle storie. Le avevo raccontate, lette, sottolineate. Erano in me, pagina dopo pagina. Conoscevo le loro case, le loro abitudini. Mi avevano sporcato del loro cibo, tenuto nelle loro borse, appoggiato nelle loro stanze. Avevo assorbito in me ogni istante di quelle vite. Eppure, a me piaceva ancora guardarli sotto la pioggia, perché mi sembravano più veri. Perché la pioggia ti consente di essere te stesso, ti fa assaporare di più la gioia, ti fa sprofondare nella tua malinconia.
 Macchina dopo macchina mi passavano davanti. Avevo il tempo di osservarli e più ne vedevo, più mi sentivo umido delle loro vite, e più ne assorbivo, più sentivo di avere una vita mia, composta come in un caleidoscopio, da mille pezzetti di vetro colorato, un po’ sgargianti, un po’ opachi, un po’ rotti.
 Sono soltanto un libro fermo, dentro un piccolo contenitore di metallo depositato fuori da una libreria. La gente si ferma, mi mette nella sua borsa, mi legge e poi mi rilascia lì quando ha finito.
Nessuno ha mai capito che dentro di me non ho solo la storia che qualcuno ha voluto raccontare, ma tutte le storie del mondo.
 Sono soltanto un libro, stropicciato dalla pioggia, che al primo sole seccherà e ingiallirà. Sono soltanto un oggetto, senza vita mia, che ruba la vita degli altri.
Sono soltanto un libro.
E amo la pioggia.

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