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13 lug 2014

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Il tempo passava. Alternavo le visite a Federica a lunghe passeggiate sul Tamigi. Mi mancava il mio oceano, mi mancava l’orizzonte infinito dove lasciar andare i miei pensieri. Lì era tutto finito, si scontrava con l’altra riva, non riusciva a perdersi nell’immenso e così i miei pensieri vagavano intorno a termini medici e nomi di farmaci, senza soluzione di continuità, e non riuscivano a rafforzare il mio bisogno di sentire che Federica, da qualche parte, c’era ancora e poteva tornare.
 
Il giorno che entrai nella sua stanza e lei volse a me il suo sguardo sorridendomi, la sentii come un germoglio appena spuntato, non dal corpo di Martha come quando era appena nata, ma dal suo stesso corpo. Aveva bisogno di me come allora, anche se non riusciva a stare più tra le mie braccia. L’abbracciai, stringendola al mio corpo per farle sentire che c’ero e lei pianse, con lo stesso istinto liberatorio di una neonata, imbevendo i polmoni di tutta l’aria che c’era nella stanza. Mi sentii soffocare in quell’abbraccio, ma era bello soffocare vedendo respirare lei.

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