Il tempo passava. Alternavo le visite a Federica a lunghe
passeggiate sul Tamigi. Mi mancava il mio oceano, mi mancava l’orizzonte
infinito dove lasciar andare i miei pensieri. Lì era tutto finito, si scontrava
con l’altra riva, non riusciva a perdersi nell’immenso e così i miei pensieri
vagavano intorno a termini medici e nomi di farmaci, senza soluzione di
continuità, e non riuscivano a rafforzare il mio bisogno di sentire che Federica,
da qualche parte, c’era ancora e poteva tornare.
Il giorno che entrai nella sua stanza e lei volse a
me il suo sguardo sorridendomi, la sentii come un germoglio appena spuntato, non
dal corpo di Martha come quando era appena nata, ma dal suo stesso corpo. Aveva
bisogno di me come allora, anche se non riusciva a stare più tra le mie
braccia. L’abbracciai, stringendola al mio corpo per farle sentire che c’ero e
lei pianse, con lo stesso istinto liberatorio di una neonata, imbevendo i
polmoni di tutta l’aria che c’era nella stanza. Mi sentii soffocare in
quell’abbraccio, ma era bello soffocare vedendo respirare lei.
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