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23 set 2014

Il biglietto

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La paura è un sentimento prezioso, perché ci avverte di uno stato di pericolo e ci mette in allerta. L'ansia no, ci incute solo angoscia per un pericolo ipotetico, a volte persino improbabile.

Ho sempre fatto indigestione di ansia, ed essendo  cosciente di questo mio limite, la maggior parte delle volte riesco ad arginare l’inquietudine che mi si annida nello stomaco. L'unico limite insuperabile per me è la fobia per i furti, che alberga in me da quando ero una ragazzina di dieci anni, e i ladri visitarono la casa dei miei genitori portando via la mia bambola preferita. Per combattere questa ansia, ho dotato la mia casa di un sistema di allarme di ultima generazione, con videocamere intelligenti, sensori ultra tecnologici, allarmi elettronici e sonori, attivi 24 ore su 24 secondo diverse configurazioni abitative: casa vuota, living house, primo piano disabitato, piano terra disabitato. La centrale operativa, perché di questo si tratta, è naturalmente sul mio smartphone, e se mi capita di attivare le telecamere quando sono fuori, osservo le immagini degli ambienti disabitati con lo stesso animo con cui assisto a un film di Hitchcock.


Non sono quella che può definirsi una persona fortunata, eppure una volta nella mia vita ho vinto al Gratta e Vinci. Avevo acquistato il biglietto una domenica pomeriggio rientrando da Venezia, e lo avevo nascosto nella borsa per tutto il viaggio per godermi quel brivido in tutta calma. Il rito si era consumato dopo cena, e non credetti ai miei occhi quando, grattando la banda dorata, un numero comparve con  le cifre nella sequenza esatta del numero vincente. Ero la vincitrice di un milione di euro, solo “virtuale”, perché fino all’indomani non avrei potuto ufficializzare quella vincita. Dopo la premessa che vi ho fatto, credo possiate immedesimarvi nel mio stato d'animo in quel momento.

In quei giorni abitava con noi un esuberante cucciolo di Labrador di nome Potter,  che la mia amica Virginia mi aveva lasciato per andarsene in vacanza alle Maldive. Era un batuffolo color champagne che quando ero in casa mi gironzolava tra i piedi facendomi inciampare, o, quando non dormiva, passava il tempo a morsicare tappeti e mobili. Per lui avevo creato un’apposita configurazione dell’allarme, “animal house”, impostando le soglie di sensibilità ai movimenti sopra i cinquanta centimetri dal pavimento. Avevo il biglietto vincente della lotteria in mano e Potter mi gironzolava intorno con il suo solito sguardo affamato. Decisi che il sacco dei croccantini in cantina era il posto ideale per nascondere il biglietto fino alla mattina dopo, perché lì sarebbe stato al sicuro da scarabocchi volanti di mio figlio, appunti sbrigativi presi al telefono e note frettolose per la spesa. Così, sotto lo sguardo felice di Potter che mi sbavava intorno, scesi in cantina e affondai nel sacco dei croccantini il cartoncino vincente ben avvolto in una plastica protettiva.

Trascorsi una notte stranamente tranquilla e il primo pensiero  quando mi svegliai fu di controllare il biglietto vincente, con la scusa di prendere la pappa di Potter. Rimasi di stucco nel vedere la porta aperta dello sgabuzzino e Potter che girava intorno al sacco dei croccantini riverso sul pavimento e completamente vuoto. Mi tuffai a terra, mentre Potter mi gironzolava intorno soddisfatto della sua impresa, e compresi perché quella mattina non si era presentato a leccarmi la faccia con la sua lingua bavosa. Mi resi conto di essere stata milionaria solo per poche ore, e senza nemmeno aver potuto godere del sogno di vivere come una principessa, perché quella notte avevo dormito sodo. Me ne tornai a letto, desiderosa di addormentarmi per dimenticare quella sventura, ma poco dopo che mi ero coricata, il suono insistente del campanello e Potter che cercava di spingermi ad alzarmi con le sue insistenti leccate, mi costrinsero a scoprire chi fosse. Era Virginia, che veniva a riprendere Potter.

«Ciao! Scusa l’ora, faccio presto e comunque non posso fermarmi perché ho un sacco di cose da fare. È stato bravo? Non ti ha fatto danni, vero? Ti chiamo nel pomeriggio, scusa devo scappare ci vediamo dopo.» Non ebbi il tempo di fiatare, sommersa dalla sua voce che squillava fiumi di parole, finché Virginia non si fermò per guardarmi: «Ma che hai? Ti vedo un po' sconvolta...»

«Solo un po' stanca, ti chiamo dopo.» le dissi sforzandomi di sorridere.

Virginia si voltò, e Potter le scodinzolò dietro contento, finché non scomparvero dietro l’angolo della strada. Non mi mossi, continuando a guardare la gente in strada che ripeteva ordinari gesti quotidiani: il lattaio scaricava bottiglie dal camioncino ammaccato sulla portiera sinistra, il giornalaio sistemava i quotidiani sullo scaffale di legno sotto la tenda arancione, il macellaio litigava con la saracinesca della macelleria e un gruppo di teppistelli di dieci anni rincorreva una palla andando a scuola. Il fischio della teiera che mio marito aveva messo sul fuoco mi richiamò alla mia vita e stavo per chiudere la porta, dando un’ultima occhiata nel punto in cui Virginia e Potter erano scomparsi, quando il muso elegante e lo sguardo tenero di Potter fecero capolino e le sue zampe corsero veloci verso di me. Mi chinai ad accarezzarlo e lui fece quasi un inchino di ringraziamento stiracchiandosi le zampe davanti, e poi si rialzò abbassando e allargando appena le zampe posteriori per espellere quello che oramai era il suo milione di euro. Sorretta da una inguaribile speranza, rifiutando l’idea di poter annusare solo “il profumo dei soldi”, corsi in cucina, presi dei guanti e tornai fuori a rovistare tra gli escrementi. Non trovai nulla, e rassegnata all’inevitabile destino di milionaria virtuale, rientrai in cucina.

Fu allora che vidi un biglietto di mia figlia: “Ho trovato questo nel sacco dei croccantini di Potter. Peccato!”. “Peccato!”. Perché “Peccato”? Riguardai la sequenza delle cifre ed era perfetta. Solo dopo qualche minuto in cui il mio sguardo era rimasto fisso sul biglietto, mi accorsi di una fragola appena disegnata sotto il numero, ricoperta a metà dalla patina dorata. Rilessi le istruzioni e realizzai che per poter vincere anche il frutto doveva combaciare con quello vincente. L’occhio si mosse in alto, e un piccolo ananas dal ciuffo impertinente mi salutò. Peccato. Già, peccato.

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