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30 set 2014

Il treno


«Un bicchiere di Chablis.»
Il cameriere si allontanò dal tavolo, e appena la sua figura si mosse, un viso di donna mi apparve in tutta la sua bellezza: i capelli biondi raccolti in un delicato chignon, gli occhi azzurri trasparenti, i lineamenti che raccoglievano una perfezione d'altri tempi.


Nel momento in cui i nostri sguardi si incrociarono, la voce di suor Amandine emerse nella mia coscienza e sentii il tocco della sua mano trasformarsi in una presa stretta che avvolgeva la mia: «Sali, George, presto. Il treno parte.»
Avevo cinque anni, e suor Amandine era la superiora dell'orfanatrofio in cui avevo vissuto almeno da quando ero in grado di far emergere i primi ricordi. Di ciò che c'era stato prima non sapevo nulla, forse perché non avevo mai chiesto, forse perché non potevo immaginare all'epoca, che un prima diverso potesse esserci mai stato. Tutto ciò che ricordavo era tutto ciò che avevo e sapevo di me.

«Dove andiamo?»
 «A Parigi, George.»
Il nome di quella città non solleticava in me nessuna immagine, se non quella di un paesaggio simile a quello che aveva iniziato a scorrere veloce dietro il finestrino offuscato dalla nebbia del primo mattino: campi estesi splendenti di rugiada, case di mattoni sparse, piccoli borghi insignificanti in cui la gente sopravviveva a giornate oberate di lavoro. Parigi era per me qualcosa di analogo, solo molto più grande, perché, questo lo sapevo, Parigi era la capitale della Francia.

«Perché andiamo a Parigi, Suor Amandine?»
«Sei stato adottato, George. La tua nuova mamma vive lì.»
Volsi lo sguardo verso di lei, una donna di circa cinquant'anni, dai capelli imprecisati sotto il velo bianco, profonde rughe sul viso, e un cuore duro sotto il grosso Cristo in croce appeso a una collana d'argento. Non riuscivo a immaginare un volto diverso per una madre, né una severità differente da quella cui mi avevano abituato all'orfanatrofio, fatta di regole e orari da rispettare, con l'alternativa indesiderabile di soffrire la fame e le botte.

Mi guardai intorno. I sedili del vagone erano di legno scuro, dalla seduta morbida in velluto bordeaux, liso e stinto. La passatoia tra i sedili era dello stesso colore, solo un po' più logora. L'odore di ferro e carbone impregnava l'aria e feriva le narici, al punto che molti passeggeri si riparavano il naso con un fazzoletto. C'erano molti anziani, e qualche donna con i propri figli. Il rumore delle rotaie e delle sferzate di vento freddo che penetravano dai finestrini socchiusi coprivano i discorsi di quei pochi che avevano voglia di parlare a quell'ora del mattino. Alcuni dormivano, riparandosi dal gelo sotto panni di lana. Io ero stretto nel mio cappotto infeltrito, le mani viola dal freddo, la gola dolente per la tonsillite appena diagnosticata. Avrei desiderato quasi avere la febbre, che mi avrebbe riscaldato in quello che immaginavo sarebbe stato un viaggio molto lungo, ma suor Amandine era stata previdente e mi aveva imbottito di antibiotici fino a qualche giorno prima, per evitare complicazioni inutili durante il viaggio. Cercai il conforto del calore della pesante giacca di lana di suor Amandine, avvicinandomi un po' a lei, e mi addormentai, vinto dalla stanchezza della levataccia, che poté più della tensione che chilometro dopo chilometro si stava accumulando in me.

Mi svegliai a un rintocco di campane e mi colpì il vociare della gente, dopo che per ore lo sferragliare regolare del treno aveva cullato il mio sonno. Aprii gli occhi e vidi i passeggeri in piedi, che scaricavano le valigie traboccanti dal ripiano sopra le nostre teste, bambini che correvano ai finestrini in cerca di qualcuno, uomini e donne sulla banchina che salutavano felici, e altri che muovevano la testa come galline cercando un volto conosciuto dietro i vetri.

Guardai anche io, senza muovermi dal posto nel quale ero incastrato, tra il sedile e il braccio pesante di suor Amandine che dormiva ancora profondamente. Non avevo nessuno da riconoscere, né sapevo se la mia nuova madre sarebbe stata lì ad aspettarmi, o al chiuso di una casa che immaginavo buia come i corridoi dell'orfanatrofio di notte. Allungai la mano verso il braccio di suor Amandine e lo smossi appena. «Suor Amandine, siamo arrivati.»

Suor Amandine schioccò la bocca e dopo vari grugniti aprì gli occhi e si impaurì per  quella confusione. Si alzò di scatto, recuperò la mia piccola valigia, e mi trascinò giù dal predellino, muovendosi sicura verso l'edificio antistante i binari. Attraversammo un locale enorme, che mi ricordava i grandi saloni dell'ingresso all'orfanatrofio, fino a una porta a vetri, oltre la quale si intravvedeva la strada.

Quello che mi colpì appena fuori dalla stazione fu la gente, un'enorme quantità di persone che si muoveva di corsa come pesci in branchi che si intersecano muovendosi in direzioni diverse. Nemmeno mettendo insieme tutti gli abitanti di Neully-au-Pont e Metiers-le-Mont avrei potuto immaginare tanti visi diversi. Mamme con i loro bambini con le cartelle sulle spalle, uomini con valigette in mano, eleganti nei loro morbidi e caldi vestiti. E confusi tra di loro, straccioni che chiedevano l'elemosina o dormivano sotto coperte di cartone, infrattati in angoli al riparo dal freddo. Operai nelle loro tute colorate, dal volto stanco e l'espressione triste negli occhi. Donnicciole sciatte che correvano con le borse della spesa in mano. Mi girò la testa per quella confusione, e alzai d'istinto gli occhi verso il cielo, come se volgendo lo sguardo in alto io potessi liberare l'angoscia annidata in me. Ma non c'era il cielo a Parigi, c'era solo una soffice ovatta grigia che copriva i tetti di case di mattoni enormi, che si rincorrevano l'una dopo l'altra, per chilometri che sapevano d'infinito. Dunque era quella la capitale? Una enorme scatola grigia dove la gente correva come topi?

Non ero preparato a quello spettacolo, e svenni per un tempo che non saprei stimare. Il suono di una voce dolce mi risvegliò, insieme a un tocco caldo e delicato sulla guancia. Non era suor Amandine, né le sue mani aspre e callose, né la sua voce brusca. Quando aprii gli occhi, la vidi per la prima volta, una donna con la pelle diafana, gli occhi azzurri trasparenti, e i capelli biondi raccolti in una elegante crocchia che le lasciava scoperto il collo.
«George, George, svegliati.»


«Signore, mi scusi, ma volevo chiederle di smettere di guardare in modo così insistente mia moglie. Non mi sarei permesso se fosse stato uno sguardo sfuggente o un soffermarsi appena su di lei. Ma è più di mezz'ora che la osserva e lo ritengo poco educato da parte sua. La conosce forse?»
«Sì...»
«Sì? Buffo, mia moglie sostiene di non conoscerla.»
«No. Mi scusi, mi scusi, non conosco sua moglie. È solo che... è solo che è... è solo che somiglia incredibilmente a... mia madre.»

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