«Sedevamo al centro della nostra camera, sul grande tappeto
azzurro, con le gambe incrociate. Lei faceva alcuni movimenti guardandosi in
uno specchio, poi lo metteva giù, e affondava le sue mani nelle mie. Ci
guardavamo in silenzio negli occhi, per un po'. Poi lei iniziava a muovere il
viso, e io la seguivo. Poteva essere l'inarcarsi di un sopracciglio, lo
sbattere di una palpebra, un sorriso, un ghigno. Non importava il gesto in sé,
ma il mio ripetere quel movimento, dopo averlo studiato. Lei ricordava la sua
immagine nello specchio e poi mi correggeva. Erano dettagli, piccolissimi e
impercettibili, non so come facesse a ricordare esattamente l'immagine nello
specchio per poi confrontarla con la mia, eppure era così. E quando raggiungevo
la perfezione, mi urlava ridendo “Specchio!” e mi abbracciava. E
quell’abbraccio era la mia ricompensa, il mio premio per essere uguale a lei.
E’ l’abbraccio più dolce che ricordo, quello nel quale mi perdevo, quello che
mi ha sempre risollevato quando ero demoralizzata, quello che mi riportava alla
vita quando ero chiusa in quelle stanze maledette dell’ospedale di Londra.»
Foto: dreamstime_ID26993455.jpg (Dreamstime)
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