"So invece di essere appena un passante in mezzo a tanti, un ragazzo invecchiato senza arte né parte, ancora con l’indefinitezza di un giovane e già con la disillusione di un anziano, identico ai mille e mille che mi passano attorno"
L’Italia di Michele Serra è il luogo meno renziano che potete immaginare. Infatti è il mondo reale, nel quale i fatti sono fatti e le parole sono parole, si vive precari e il futuro non è un un’ipotesi sorridente e sfolgorante, gli smartphone sono oggetti di distrazione (puoi sbattere in un palo, se non guardi dove vai) e non di distrazione di massa. “Ognuno potrebbe” (Feltrinelli, pagg. 152, euro 14) è un affresco estremamente arguto, feroce e sarcastico dei nostri tempi e di un’Italia composta da gente che si è persa “a pochi chilometri da casa, lungo le strade che percorro da una vita”, proprio come accade a Giulio Maria (alter ego di Serra).
"Quel rimanere un passo indietro che per centinaia di generazioni è parso opportuno o comunque beneducato, è forse diventato un atteggiamento asociale? Forse, per evitare di sembrare sprezzante – la banale ragione è che non lo sono – dovrei vincere la mia naturale vocazione al sottotono e cominciare pure io a mettermi in posa, magari in una parte minore e poco impegnativa, sventolare un cappellino o mulinare le dita, strizzare un occhio o digrignare i denti o tirare i lobi delle orecchie di chi mi sta davanti, non so, qualsiasi cosa che mi renda simile agli altri nella movimentata coreografia dei tempi presenti. Nel dubbio cerco di sottrarmi a qualunque inquadratura, di sfuggire a qualunque scatto."
"Minuti che si affastellano e diventano ore, ore che passano senza poterle più contare perché contarle non conta più, tempo finalmente ingannato, ignorato, puoi avere nove anni, puoi averne novanta, non ha più importanza, sei solamente il lavoro che stai facendo. Non pensi più a te stesso. Finalmente! Non pensi più a te stesso, ovvero interrompi la principale attività dei miei contemporanei (me compreso, mica mi illudo), e anche la più nociva, la più inutile, la più inconcludente. Se non hai le mani libere, non puoi farti un selfie."
"È che sempre, quando si deve decidere delle cose di un morto, i suoi armadi, i suoi cassetti, i suoi luoghi, si esita, si rimanda, si teme che ogni decisione (tengo/butto/regalo/vendo) sia una profanazione, sovverta un ordine che la morte ha reso inespugnabile. Non saprai mai, di quelle venti cravatte, di quei dieci foulard, di quelle quattro paia di scarpe, quali davvero erano importanti, quali superflui, e il valore economico, vero o presunto, non è che un debolissimo indizio. E non stai esitando e patendo per conto del morto, che da quei cassetti e da quelle stanze è sparito per sempre, libero lui e libere le stanze; stai parlando di te, dei tuoi conti in sospeso con lui o con lei, non avergli fatto almeno qualcuna delle domande che vorresti fargli ora, nel silenzio e nel vuoto, ora che nessuna risposta può restituire un significato e una storia alle cose abbandonate."
"(Passano i digitambuli, nel vasto mondo attorno, a migliaia, a milioni, assorti nei loro rettangolini di luce fredda, così fredda che neppure gli si riverbera sul viso. Lo sguardo rivolto in basso rende la loro fronte piana; le palpebre a mezz’asta fanno schermo alle pupille, nascondendo anche il colore degli occhi. Sono volti inabissati, volti che hanno abbandonato il volto. Hanno tutti qualcosa di sospeso: uno star dicendo, uno star facendo che deve avere avuto un inizio e certamente avrà una fine, ma non adesso. Adesso tutto è solo e sempre in corso, e soprattutto non è qui che è in corso. Attraversano questi posti e queste giornate come se non li riguardassero. Passano soltanto.)"
"Gli errori alle rotonde sono micidiali, basta un angolo di pochi gradi e in un paio di chilometri si genera un abisso tra il posto dove credevi di essere e quello dove ti ritrovi."
"Le rotonde sono milioni, da queste parti. Produciamo rotonde. Di tutto il resto è come se si fosse perduto l’originale, la madreforma dalla quale le cose scaturiscono in file ordinate, con l’energia di un esercito in marcia. L’esercito delle merci si è fermato. Forse è solo un lungo bivacco, forse qualcuno ha dato il definitivo “rompete le righe”, ancora non è chiaro. Ma le rotonde no, loro continuano a nascere, in misteriosa autonomia. La loro corolla discoidale sboccia ovunque come se quell’unica specie avesse capito come moltiplicarsi mentre intorno disseccano, uno dopo l’altro, tutti gli altri fiori. Le rotonde sono la sola evidente genia vitale in questo sterminato deposito di muri silenziosi, capannoni vuoti, case scure che dietro ogni luce celano stremati calcoli domestici."
"La coppia è l’embrione di qualunque tipo di società. Uno più uno, la somma più elementare, quella che rende possibili tutte le altre somme. Se non si riesce a fare più neanche uno più uno, vuol dire che nessun’altra somma sarà mai più possibile... Esisterà solo l’uno. Dunque esisterà solo l’io. Ognuno con il suo egòfono acceso. Muto con chi gli sta intorno, loquace solo con chi ha il merito di rimanersene a debita distanza."
"Forse, infine, nessun dramma personale è tale da poter essere vomitato in faccia agli altri. Per quelli rimediabili, basta e avanza la commedia. Per quelli irrimediabili, in novecentonovantanove casi su mille è preferibile il silenzio. È più decente."
"fino a poco tempo fa gli altri sono sempre stati quasi tutti, indiscriminatamente, più grandi di me, in particolare le persone a qualsiasi titolo notevoli, importanti, famose; e quando li guardavo li vedevo tutti quanti molto più avanti nella vita, ben oltre il punto dove mi trovavo io. Se guardavo in là, più in là di me, più in là del mio percorso ancora acerbo, vedevo gli altri. Li stavo inseguendo. Ed ecco che quasi di colpo, soprattutto per responsabilità di Caleb Followill e del maledetto egòfono di Agnese, succede che una notevole fetta di altri, per guardarla, devo voltarmi indietro: verso la giovinezza, verso il tratto di strada che io ho già consumato, loro ancora no."
"Quando li senti latrare come cani tu guardali bene, Giulio, dice spesso la vecchia Oriani. Se la tirano da padroni, ma hanno lo sguardo del servo. Se sono così arroganti, così furiosi, è perché sanno di essere servi per l’eternità, e più diventano ricchi più rimangono servi, e più rimangono servi più la loro ricchezza, invece di sollevarli, li fa sentire a terra."
"Il lavoro materiale, nel suo farsi faticoso e al tempo stesso minuzioso, non lascia campo ad altra attenzione, invade e colonizza tempo e spazio, zittisce la psiche e i suoi misteriosi subbugli, il suo artefice diventa anche il suo automa: obbedisce al battito che lui stesso ha innescato.”
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