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17 lug 2017

Sofia si veste sempre di nero, di Paolo Cognetti




“Sofia”, disse l'infermiera a voce alta, “lo sai che cos'è la nascita? E' una nave che parte per la guerra” (p.9)

La vita di Sofia Muratore assomiglia proprio ad una guerra, una continua battaglia per la sopravvivenza. Un parto prematuro la pone fin da subito in una situazione di precarietà, in bilico tra la vita e la morte: la piccola viene posta in rianimazione e affidata alle premurose cure di un'ostetrica. Sua madre, Rossana, aspirante artista, non sembra in grado di occuparsi continuativamente della figlia: alterna infatti momenti di euforia a crisi depressive che le impediscono di prendersi cura della bambina. Suo padre, Roberto, ingegnere all'Alfa Romeo, sopravvive ad un matrimonio infelice dapprima buttandosi a capofitto nel lavoro, poi trovando consolazione in un'amante. Roberto, sebbene animato da buone intenzioni, non pare però trovare un canale di comunicazione efficace con la figlia che proverà ad avvicinarsi a lui solo quando sarà troppo tardi. La sola persona che sembra dare conforto a Sofia è la zia Marta, sorella di suo padre: personaggio dalla vita molto alternativa e combattiva, la zia è l'unica che si accorge della sofferenza della nipote e si attiva per supportarla offrendole ospitalità quando Sofia, devastata da una situazione familiare insostenibile, tenta il suicidio inghiottendo psicofarmaci e superalcolici.
Sofia è prima una bambina sensibile, poi un'adolescente fragile: i litigi dei genitori, la malattia psichiatrica di sua madre e la morte di suo padre, la portano a prendere le distanze dalle persone che ama nel tentativo di difendersi dalla sofferenza. Anche dal punto di vista sentimentale, infatti, Sofia non sembra in grado di mantenere legami stabili e non a caso alla fine del romanzo verrà paragonata a Holly Golighly, la famosa protagonista di Colazione da 
Tiffany, affascinate e sfuggente.“Sofia si veste sempre di nero” mi ha lasciato una sensazione di tristezza, di malinconia, di sofferenza, ma non di disperazione. La vita è una guerra che ci costringe a combattere ogni giorno la nostra battaglia: a volte perdiamo, a volte riusciamo a conquistarci quel poco che ci basta per essere, come afferma Sofia, felici adesso.
http://www.qlibri.it/narrativa-italiana/romanzi/sofia-si-veste-sempre-di-nero/


"Pensò che, se avesse potuto tornare indietro, le sarebbe piaciuto diventare un’attrice. Sarebbe stato un modo appassionante per non essere più se stessa. Ma ormai era tardi per tutto, e quella sarebbe rimasta per sempre la sua strada non presa, il suo talento sprecato."

"«Ma il coraggio è una cosa che si impara?», domandava. «Oppure una ci nasce e basta? È possibile che ho paura di tutto?»"

"se la tua casa è spazzata da un uragano non chiuderti dentro, ma apri porte e finestre e lascialo passare"

"«Ha così tante paure», le aveva detto Sofia, «che l’unico posto in cui si sente al sicuro è il suo letto. Decidere cosa cucinare per cena riesce a gettarla nel panico. Penso che non abbia mai scelto niente in vita sua, neppure di sposarsi o fare un figlio». Non c’erano dubbi che, alla fine, Rossana avesse trovato una stanza tutta per sé."

"Quella sera Roberto rimase a lungo davanti allo specchio del bagno, ma non per valutare la propria bellezza. Si accorse che, se respirava profondamente e si rilassava, il suo volto raggiungeva una specie di grado zero dell’espressività, in cui potevi leggere niente o qualunque cosa. Aveva temuto di avere la verità scritta in fronte, invece l’uomo nello specchio era un tranquillo trentaquattrenne borghese, senza grandi passioni né terribili segreti, di certo incapace di mentire, e decise che se gli altri lo vedevano così a lui andava più che bene."

"Roberto non aveva mai immaginato che si potesse pensare in due, però era proprio questo che gli succedeva con Emma. Discutevano di progetti anche in mensa. Uno esponeva un’idea ad alta voce e l’altro ne smascherava i punti deboli, ribaltava la prospettiva, alzava il tiro del ragionamento ottenendo quasi sempre un’idea migliore. Erano questi i loro momenti d’intimità, e pazienza se non avvenivano dentro un letto."

Nel 1986 lo Stato italiano decise di liquidare alcune partecipazioni industriali, e dopo mesi di trattative, ingerenze politiche, accordi sindacali preventivi, l’Alfa Romeo venne acquistata a prezzo di favore dai concorrenti storici della Fiat. Era Roma, che svendeva Milano a Torino. O secondo Giuseppe Russo, fu come cedere un ristorante francese a una catena di pizzerie. Lui temeva che l’avrebbero messo a costruire utilitarie, la Panda, la Uno e altre baracche del genere, ma il progetto era molto più crudele di così: bruciare i mobili, licenziare cuochi e camerieri, speculare con la cessione dei locali e portarsi via l’insegna come trofeo. Solo che non lo potevano fare subito. Ma si capì in fretta che aria tirava: nel 1987 furono tagliati seimila dipendenti, per la maggior parte operai, tutti con l’anzianità sufficiente per la pensione, e Giuseppe era nella lista. Aveva quarantanove anni, di cui trentacinque passati lì dentro. C’era arrivato da ragazzino attraverso la scuola aziendale. Trascorse l’ultima settimana svolgendo le solite mansioni, ma voltandosi spesso a controllare l’ingresso del reparto. Sembrava che aspettasse qualcuno. Il venerdì sera, alla consegna del cartellino, non gli venne risparmiata la prassi della perquisizione, visto che l’ultimo giorno di lavoro gli operai rubavano di tutto, dai cacciaviti alle forchette della mensa. Il guardiano gli controllò le tasche e la borsa, poi lo cancellò da un elenco e avanti il prossimo. «Ma cosa mi credevo?», disse Giuseppe, quando Roberto andò a trovarlo a casa. «Che mi dicessero grazie? Stavo lì a contare i giorni che mancavano e mi pareva impossibile che finisse in niente, alle cinque di un cazzo di venerdì. Magari mi aspettavo una sorpresa. Sai come le feste dove tutti si nascondono nell’altra stanza? Ecco, una cosa così. Io che apro la porta e saltano fuori il presidente, l’amministratore delegato, e giù tutti fino al capo del personale, a dirmi Russo, ti ringraziamo, è stato un onore lavorare con te per tutti questi anni. È una bella fantasia, no? Che coglione»."

"Sul teatro ti ha insegnato soprattutto questo: che sono più importanti le persone, i viaggi, le storie dei luoghi, gli oggetti che si possono annusare, assaggiare e toccare con le mani, e quello che un attore fa sul palcoscenico viene solo alla fine, ed è bene non parlarne troppo."

"Il centro non gli interessa, palazzi e chiese per lui sono solo mucchi di sassi senza vita. La città vera si nasconde fuori, oltre il confine della circonvallazione. Girare tra la Bovisa e Niguarda di notte, in motorino, le mani nelle sue tasche e la guancia appoggiata alla sua schiena, l’aria di gennaio che ti fischia nelle orecchie, è uno dei piaceri più puri che tu abbia mai provato." […]"Sbattendo gli occhi osservi scorrere i treni in sosta, gli edifici ferroviari, i palazzi di edilizia popolare tra Greco e viale Monza. Non ti eri mai accorta che, dalla Stazione Centrale, i binari puntano verso nord, e per andare a sud bisogna fare il giro di mezza Milano. Per te era solo l’attraversamento di una palude urbana, la faticosa rincorsa necessaria prima di prendere velocità in campo aperto. Adesso invece riconosci i luoghi. Il ponte di via Padova, Lambrate, l’Ortica. Le torri di periferia logorate dal tempo, il giallo e il rosso sbiaditi verso un’uniforme tinta militare. I balconi incolonnati uno sull’altro, addobbati per la tua partenza, da cui ti dicono addio eroici scaldabagni e lavatrici, stendibiancheria sgangherati, piante d’appartamento rosicchiate dai parassiti, gabbie di criceti e canarini che ora corrono a vuoto e cinguettano nell’altro mondo, bambole zoppe o decapitate o rasate a zero, accantonate da bambine cresciute, armadietti stracolmi di federe nuziali e lenzuola ridotte a stracci, elettrodomestici che ai loro tempi avevano varcato la soglia di casa come prodigi della tecnologia, e ora sono soltanto un ingombro che nessuno sa dove buttare. Poi la vista ti si appanna o è il tuo fiato che fa condensa sul finestrino. E solo quando te ne vai ti accorgi che le vuoi bene, a questa morsa nello stomaco che è la tua città d’inverno.”

"«Secondo me», dice tuo padre, «il problema è che ti aspetti troppo dalle relazioni». «Come troppo? Un po’ di amore ti pare troppo?» «Non mi pare troppo l’amore, mi pare troppo come lo intendi tu». «Cioè come lo intendo, scusa?» Tuo padre sospira. «A una persona puoi chiedere un po’ di compagnia. Ma non di fondersi con te, affidarti la sua vita e farne una cosa sola con la tua. Se chiedi questo all’amore, finisce che ti deludono tutti». «Papà, ma è una cosa tristissima». «Non direi». «Un po’ di compagnia? Sei sposato da vent’anni ed è tutto lì?» «Senti», dice lui. «Io sto bene con tua madre. E sto bene quando sono con te, sono contento adesso che parliamo. Ma l’amore arriva fino a un certo punto, più in là non ci può andare. Io non posso fare molto per la tua vita, se non darti una mano in quello che ti serve, aiutarti coi soldi, dirti studia, vai, vai a Roma, trovati la tua strada. Ma lì mi fermo. E tu non puoi prenderti la mia malattia. Anche con tutto l’amore del mondo, qui dentro ci sono solo io». Dice qui dentro battendosi un pugno sul petto, e sai qual è la cosa più strana? Che proprio mentre tuo padre ti rivela le sue terribili verità, tu senti come un sollievo. E che questa panchina non è una fine, ma l’inizio di qualcosa."

"L’importante, diceva, è abituarsi a una faccia: non la bellezza ma l’abitudine. La bellezza in fondo che cos’è, una stupida questione geometrica, solo un incastro fortunato nel campionario di bocche, nasi e orecchie disponibili. Ma se una faccia hai imparato a conoscerla, e l’hai vista quando ha sonno, quando ha il raffreddore, quando è distrutta da una giornata nera, se ti sei abituato a quella faccia, allora hai superato la questione della bellezza, non sei d’accordo?"

"Non sono le tue azioni, sosteneva, ma le tue reazioni a definire chi sei. Guerre, malattie, persone che muoiono, case che ti crollano in testa, e pure film che non ne vogliono sapere di stare insieme. «Quando le cose vanno bene sono buoni tutti», disse. «È quando vanno male che si vede di che pasta sei fatto»."





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