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13 lug 2017

La tentazione di essere felici, di Lorenzo Marone

"L'originalità del soggetto, la chiarezza della scrittura e la musicalità della prosa. E' un romanzo in cui l'amore la fa da padrone senza scadere nella retorica, narrandoci una coralità fatta di personaggi che il lettore penserà di aver conosciuto nella propria quotidianità. L'autore sa prenderci per mano e portarci nella storia con naturalezza e calore, una storia affrontata in contropelo, in modo non troppo prevedibile e piuttosto anticonformista attraverso il coinvolgente cinismo del suo protagonista. L'amore più importante è quello per la vita, e Cesare Annunziata ce lo ricorda, con un simpatico ghigno, più efficace di una dichiarazione d'amore" (Motivazione della giuria per il premio SCRIVERE PER AMORE 2015 assegnato a "La tentazione di essere felici").



Chi si lamenta della vecchiaia è un demente. Anzi no, cieco mi sembra più azzeccato. Uno che non vede a un palmo dal proprio naso. Perché l’alternativa è una sola e non mi sembra auspicabile. Perciò già essere arrivato fin qui è un gran colpo di fortuna. Ma la cosa più interessante è, come dicevo, che puoi permetterti di fare ciò che vuoi. A noi anziani tutto è permesso. […] Eppure la cosa più preziosa che si conquista grazie alla vecchiaia è il rispetto. […] Il rispetto è un’arma che permette all’uomo di raggiungere una meta per molti inarrivabile, fare della propria vita ciò che si vuole. (Cesare)

Nella vita bisogna saper scendere a compromessi e la vecchiaia, caro Cesare, è un compromesso continuo. (Eleonora)



Forse è vero che la vita gira in tondo e alla fine torna al punto di partenza; in un vecchio di ottant’anni e in un neonato, se guardi con attenzione, riesci a scorgere le stesse paure. […] E’ che fino a una certa età ho trascorso una vita alquanto “normale”, senza particolari emozioni. Il problema è che quando ti avvicini alla fine ti vengono a far visita di notte molte vocine irritanti che bisbigliano in modo insistente: “Datti una mossa”, “non marcire in casa”, “fai qualcosa di folle”, “cerca di rimediare a tutto in non fatto della tua misera vita”. Ecco, appunto, il “non fatto”. Ho impiegato più di settant’anni per capire che io sono lì, nel non fatto. La mia vera essenza, i desideri, l’energia e l’istinto sono conservati in ciò che avrei voluto fare. Non è bello sentirsi ripetere che hai sbagliato per una vita intera, hai speso male le tue carte e ti sei ritirato dal tavolo mentre saresti dovuto andare a vedere la giocata, anche se rischiavi di perdere tutte le fiches che avevi davanti. Che poi mica è semplice recuperare il tempo perduto , in pochi anni devi mettere a posto un’esistenza. Quasi impossibile. Curioso, quando inizi a capire come vanno le cose suona il gong, come se in un quiz televisivo cominciassi a fare il tuo gioco gli ultimi trenta secondi, mentre i tre minuti precedenti li hai passati a guardarti le unghie.



La vita terrena dovrebbe essere come un viaggio in Oriente, un’esperienza che ci apre la mente e ci rende esseri speciali. Invece accade l’esatto contrario, ci tirano fuori dal buco nero che siamo candidi e ci infilano in una cassa dopo che ne abbiamo combinate di tutti i colori. Mi sa che qualcosa, nel lasso di tempo che restiamo quaggiù, non funziona a dovere.



Se tenti di educare un figlio, puoi solo sbagliare; se invece lo lasci stare, forse ti trovi un adulto che non ti incolpa delle sue debolezze.



Una passione non ti fa amare tua moglie, non ti insegna a godere fino in fondo del fatto di essere genitore, non ti serve neanche a scrollarti dalle spalle la polvere che ti porti dietro dall’infanzia, questo è vero, ma, almeno, ti aiuta a chiudere gli occhi la sera e non annaspare nei tormenti.



Capita spesso che il corpo non segua lo stesso percorso del cervello, tanto che poi un giorno ci si ritrova davanti allo specchio e non ci si riconosce.



Mi ero dimenticato che la vita è come questa città, un abbaglio. Tutte queste luci, i sorrisi della gente, le bancarelle, i carretti dello zucchero filato, le biciclette che strombazzano, la luna che si riflette in acqua e illumina Capri in lontananza sono ben poca cosa rispetto al silenzio di tanti viali sporchi e dimenticati, di fronte al lamento dei vicoli che trasudano violenza, davanti agli sguardi spauriti di chi ancora non ha capito come confrontarsi con l’altra faccia della città. […] In realtà a Napoli più che la vista serve l’udito, è una citta che si svela attraverso il suono. Nelle viuzze di Chiaia, per esempio, le sere d’estate si riescono ad ascoltare i tacchi delle signore che camminano sicure sui ciottoli, qualche risolino in lontananza, o due bicchieri che si toccano appena dietro il vicolo. Posillipo, invece, sembra muta, con le strade ampie e deserte che si dipanano silenziose sulla collina, mentre la città poco più in giù appare ovattata. Devi saper ascoltare con attenzione i vagiti dei quartieri nobili se vuoi imparare a conoscerli. Nel centro storico, invece, bisogna saper distinguere, prestare attenzione solo a ciò che interessa, separare i suoni, come le tracce di una canzone da mixare. Così puoi guastarti il vocio degli studenti che vagano fra vicoli antichi, il frastuono di posate che zampilla dalle trattorie, le tante campane che battono la domenica mattina, il richiamo dei venditori ambulanti, la voce rauca e malferma di un vecchio che suona la fisarmonica ai piedi di una basilica sprangata e dimenticata. Per gustarti tutto ciò devi, però, cancellare il ronzio dei motorini che infestano le strade, le urla di donne che si azzuffano per u n nonnulla,, la voce di un neomelodico che esplode dai finestrini di un’auto.



“Sai qual è la più grande stravaganza?”

Lei fa no con la testa.

“Vivere d’istinti.”

Mia figlia mi guarda perplessa.

“Finirla di mettere inutili paletti mentali. Se segui l’istinto non sbagli mai. Gli uccelli ogni anno migrano senza chiedersi il perché. Ecco, anche noi dovremmo fare altrettanto, muoverci di continuo e non porci troppe domande. Io me ne sono fatte tante negli anni e sono rimasto immobile. Ora devo recuperare, voglio migrare ogni giorno un po’. ”



So che nella vita a volte avverti un piccolo scampanellio accanto all’orecchio. Può capitare davanti a una donna, in un luogo specifico, mentre ti adoperi in qualcosa che ti piace. Ecco, se dovessi dare un consiglio a mio nipote Federico, un solo consiglio, sarebbe questo: quando senti quel piccolo scampanellio, solleva il capo, drizza le orecchie, sei di fronte a uno di quegli snodi invisibili e ti assicuro che a sbagliare rotta basta un attimo.



E’ strano, di là c’è mia figlia, la stessa donna alla quale ho cambiato i pannolini, pulito il sedere e asciugato le lacrime, eppure provo imbarazzo, come se la mia privacy fosse stata violata da un’estranea. Non sono i legami di sangue a creare l’intimità, è la convivenza. Anche una madre, con il tempo e la lontananza, diventa un po’ più estranea.



“Non lo ami più?”

“Non lo so.”

“Allora è no.”

“Niente vie di mezzo per te, vero?”

“Le vie di mezzo servono a non prendere la strada giusta, quella che ti porta dritto dove vuoi e devi andare. L’essere umano è un maestro nel girare a vuoto pur di non raggiungere l’obiettivo che lo terrorizza.”



Quello che siamo svanisce col corpo, quello che siamo stati, invece, rimane custodito nei nostri cari. In Sveva mi sembra di rivedere un po’ di Caterina, proprio come a un certo punto nel volto di mia madre ho ritrovato il nonno. Chissà se un domani anch’io tornerò in superficie grazie a un movimento, un’espressione, un sorriso di mia figlia. E chissà di chi saranno gli occhi che se ne accorgeranno.

I ripostigli sono luoghi ostili, dove aleggia una strana malinconia. E’ che gli oggetti messi da parte non sono altri che ricordi messi da parte, sì da conservare, ma da non tenere sempre davanti ai piedi. Perciò, quando poi un pomeriggio come tanti spalanchi la porta del ripostiglio, quasi ti sembra che tutti quei ricordi ti stiano cascando in testa per il dolore che senti.



Solo di poche persone c’è concesso osservare la gioia, la disperazione, la rabbia, la sofferenza, il godimento o l’euforia dipinti sul viso, per tutti gli altri bisogna accontentarsi dell’unica maschera a noi visibile.



Le cose interessanti di una persona sono tutte all’esterno, dentro trovi solo viscere, sangue e rimpianti. Nulla di molto attraente.



Bisogna imparare presto a osservare le vite altrui così da non vomitare ingiustamente sulla propria.



La simpatia è troppo sopravvalutata e a volte serve a coprire un bel mucchio di cose marce, però è così che va il mondo, e se ti sei preso la briga di fare due figli, devi imparare presto a mascherare in loro presenza noia, dolore e depressione. A meno che tu non voglia farne degli infelici.



Seguo la barella. Emma non è più cosciente. Fuori dalla stanza da letto lo sguardo mi cade sul pesce rosso. Non si agita più, ha smesso di soffrire. Anche nella vita di un povero pesce conta la fortuna, si è trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato. Se fosse capitato in casa mia, adesso starebbe vagando placido nella sua vaschetta, al più imprecando per la melma nella quale è costretto a trascorrere l’esistenza.

A nessuno è dato scegliere dove sarà collocata la sua boccia di vetro, se nella tranquilla cucina di un vecchio pensionato o sul mobile del corridoio di una casa nella quale si consumerà una tragedia. E’ il caso, così si dice, a decidere. E a volte può stabilire che il nostro mondo debba andare in mille pezzi e a noi non resti che boccheggiare nella speranza che qualche anima pia passi da lì e ci raccolga.

Il problema è che, quasi sempre, l’attesa è più lunga dell’agonia.



Ci insegnano le equazioni, “il cinque maggio” a memoria, i nomi dei sette re di Roma, e nessuno ci chiarisce come affrontare le paure, in che modo accettare le delusioni, dove trovare il coraggio per sostenere un dolore.



Morire in realtà è come sbronzarsi, non ti riesce di mantenere gli occhi aperti. Nulla di più.



Mi piace chi combatte ogni giorno per essere felice.











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