Prima Parte
Mi chiamo Angelica. A dispetto del
mio nome, il mio aspetto ricorda tutt’altro che un angelo. Mia mamma mi dice
che somiglio a Morticia degli Addams quando sono stanca ed i miei capelli mi
cadono sul viso bianco e ovale, dalle occhiaie livide. Parimenti ci sono giorni
che mi dice che sembro una bambola di porcellana, con i miei boccoli ribelli, i
miei occhi verdi, la pelle bianca e le gote rosate.
Io non so quale delle due sia la
verità. Mi trovo carina. Mi piacciono i miei occhi e la mia bocca rosata, ma
avrei preferito la pelle olivastra che si abbronza facilmente a quella da
latticino che si scotta tutte le estati.
Ho ventisette anni ed ho una figlia
di sette. Rimasi incinta la prima volta che feci l’amore con un ragazzo di
cinque anni più grande di me, che frequentava la mia università, fuori corso.
Mia figlia si chiama Azzurra. Lo so, non è un nome tradizionale, ma io adoro il
cielo azzurro: mi fa sorridere, mi illumina la giornata e mi riempie il cuore.
Così le ho dato questo nome perchè non sia mai triste. Una speranza di mamma
contro la legge della vita.
Come tutti i martedì ed i giovedì,
dopo scuola la porto in piscina.
Io non ho un lavoro fisso. Svolgo
lavori saltuari per un’agenzia di modelle, faccio sfilate un po’ in giro per
mantenermi all’università, che ho ripreso a frequentare da poco. Quando Azzurra
nacque avevo smesso per seguirla come una madre deve seguire una figlia. Adesso
che respiro un po’ di più ho voluto riprendere e così i miei genitori mi danno
una mano per seguire la bambina. Tutti i giorni tranne il martedì ed il
giovedì, che mi sono trovata il mio spazio per stare insieme a lei. La porto in
piscina e poi andiamo al cinema, a mangiare una pizza, a fare quello che
vogliamo.
Sono qui in piscina con Eleonora,
la mia amica del cuore. Siamo amiche dai tempi del liceo e abbiamo frequentato
insieme due anni di università. Lei ha continuato e si è laureata ed ora
lavora. Accompagna qui Sara, la sua nipotina di sei anni, che frequenta lo
stesso corso di Azzurra.
Di solito ci mettiamo in un angolo
della piscina e chiacchieriamo. La fauna è tipicamente femminile: mamme o nonne
sedute sulle sedie con il naso schiacciato contro il vetro a guardare dei
bambini che, visti da lì, sembrano tutti uguali, non foss’altro che per la
cuffia e gli occhialini. Io ho abituato Azzurra ad arrangiarsi fin da subito,
così l’accompagno e la lascio fuori degli spogliatoi, per poi riprenderla
quando esce vestita e pettinata.
E’ da tempo che tra i soliti visi
ne ho scorto uno. E’ un papà di una bambina che frequenta lo stesso corso di
Azzurra, ma credo che abbia un anno in più di mia figlia. Arriva sempre trafelato
alle sei e mezza a prenderla e la trova fuori degli spogliatoi, completamente
sudata nel suo piumone e cappellino che immancabilmente indossa prima di uscire
dagli stessi. Appena arriva, il padre la guarda, le dice: “Aspetti da molto?
Potevi evitare di metterti la giacca...” e lei risponde “Papà, mi avevi
promesso di essere puntuale!”. Lui la guarda e le sorride. Ha un viso di un
angelo. E’ castano, con i capelli lisci e folti. Il viso è regolare, un po’
squadrato. Il naso è piccolo, alla francese. Le sue labbra sono carnose e
rosee. Potrebbe quasi essere un volto femminile. Proprio come gli angeli: senza
sesso.
Accadde un martedì che ero da sola
perchè Sara era ammalata. La prospettiva di passare due ore da sola, più la
classica mezz’ora di attesa davanti allo spogliatoio mi opprimeva. Girovagavo
con gli occhi alla ricerca di qualcuno con cui parlare, quando vidi il mio
angelo, che era arrivato incredibilmente presto per accompagnare la sua
bambina, cosa che di solito non faceva. Per caso ci trovammo io seduta al mio
solito posto e lui due posti più in là, con il viso un po’ errabondo tra le
mamme che ciacolavano come chioccie.
Accadde all’improvviso che si avvicinò a me un signore di circa
quarantacinque anni, i capelli arruffati in testa, vestito in modo un po’ rozzo
e unto e mi disse:
-
Tu sei Elena? Elena della palestra?
-
No. Non sono Elena...
-
Ma sei sicura di non essere Elena? Ti giuro, sei
uguale... gli stessi capelli neri...
-
No, le assicuro...
-
Mi scusi... guardi è proprio uguale a Elena, quella
della palestra in fondo al paese. Conosce la palestra?
Chiusi la conversazione, fingendo che il telefono stesse vibrando in
tasca.
La mia finta telefonata riuscì ad allontanarlo solo per un po’, perchè
appena rinfilai il cellulare in tasca, mi arrivò da dietro, porgendomi con
forza un libricino. Pensai volesse farmi vedere la “sua” Elena, per dimostrarmi
che effettivamente aveva tutto il diritto di essersi sbagliato, ma in realtà mi
presentò solo una pagina con la pubblicità di una palestra che conoscevo bene,
perchè la frequentavano molti miei amici.
-
Questa è la palestra, vedi? Sei proprio uguale a
Elena, incredibile.. Non la conosci?
-
No, mi spiace...
Tagliai corto. Lui restò lì cinque minuti e poi se ne andò al bar a
prendersi un caffè.
Si era allontanato da poco quando sentii l’angelo affianco a me
ridacchiare. Quindi si rivolse a me e disse:
-
Certo che però lei è proprio uguale a Elena... sa?
Scoppiai a ridere. Eravamo complici di quel matto che andava in giro per
la piscina e così gli risposi:
-
Lo confesso solo a lei: sono la sua sorella gemella...
-
Beh, è il tentativo di abbordare una donna più buffo
al quale abbia assistito...
Seconda Parte
Fu così che cominciammo a parlare. O meglio: lui parlava, io lo guardavo.
Era davvero bello, più di quanto avessi potuto vedere tutte le volte che lo
avevo incrociato uscendo dagli spogliatoi. Nonostante gli occhi trasparenti,
essi erano profondi e ti penetravano dentro l’anima. Mi perdevo nella sua
bocca, mentre parlava. Scrutavo le sue labbra carnose che si muovevano, le
piccole pieghe che si formavano mentre sorrideva ed i denti bianchi che
apparivano all’improvviso ad abbagliarmi. Sì, era affascinante e mi stava
raccontando la sua vita da mezz’ora come un confessore... faceva l’architetto e
si era messo a raccontarmi della casa che stava costruendo per un ricco
imprenditore di Milano. Era divertente, era bello...
All’improvviso si fermò e mi disse:
-
Anche tua figlia fa due ore di nuoto?
-
Sì, perchè?
-
Beh... conosco un baretto qui vicino, un posto
tranquillo... magari possiamo andare a bere qualcosa... che ne pensi?
Sì, l’idea mi andava... ma sentivo una nota stonata che non capivo...
forse non dovevo accettare? Forse era anche il suo un tentativo di abbordaggio
un po’ meno goffo di quello che mi aveva coinvolto prima? Decisi di non
pensarci. In fondo andavamo solo in un baretto a bere qualcosa, tutto qui.
-
Va bene... però non stiamo via molto...
-
Beh, le ragazze finiscono tra un’ora e noi saremo qui
a recuperarle come al solito, tranquilla!
-
Sai... non vorrei farti fare tardi una volta che puoi
essere puntuale...
-
Come lo sai?
-
Ti vedo sempre... arrivi affannato e tua figlia ti
rimprovera del ritardo...
-
Già... anche se lavoro qui vicino non riesco mai ad
organizzarmi per tempo... mm, però vuol dire che anche tu mi avevi notato...
-
“Anche”?
Non rispose. Fece strada verso l’uscita, mi aprì la porta gentilmente e
andammo verso il parcheggio. Aveva una moto, cosa che non mi aspettavo, ma
ringraziai il cielo che quel giorno mi ero messa i jeans. Mi diede un casco e
mi invitò a sedermi dietro di lui.
Mi sentivo un po’ imbranata. Non sapevo dove fermare le mani e poichè non
trovavo nessun appiglio e le muovevo un po’ in su e in giù, ad un certo punto
lui le prese una per volta e se le portò intorno alla vita.
Sentivo la salivazione aumentare, il ritmo del cuore accelerare ed una
energia spandersi lungo il mio corpo. Era una sensazione che da tempo non
provavo e che mi rendeva felice, anche se la nota stonata ancora rompeva
l’armonia di quel momento, pur non sapendola definire bene.
Si fermò davanti ad un piccolo bar. Non era in centro. Era un bar di
quelli che devi conoscere bene per andarci, di quelli che non trovi per caso
passeggiando per il paese. Aveva un parcheggio all’ombra, un po’ nascosto alla
vista e lì il mio accompagnatore si fermò. Scesi dalla moto e aspettai che lui
la sistemasse sul marciapiede, mettesse i caschi a posto e chiudesse le varie
serrature.
-
Vieni, è carino qui, vedrai.
Il bar aveva un grande bancone al centro, dove si ergeva impettito quello
che credo fosse il proprietario, un uomo sui quarantacinque anni, un po’
brizzolato e con due occhi che definirei “curiosi”, di quelli che ti inquadrano
per cercare di carpire chi sei a prima vista. Era in piedi ad asciugare
bicchieri, tazzine e piattini, che sistemava poi accuratamente sullo scaffale
alle sue spalle, pronti per una nuova ordinazione. Ne aveva lì un po’. Si
guardava un po’ in giro, anzi, ebbi l’impressione che guardasse i suoi
avventori, con l’aria fintamente distratta, come se volesse ostentare
discrezione. Non so perchè, ma il suo sguardo mi imbarazzò un po’ e fu per me
istintivo nascondermi dietro il mio ospite, quasi come se fossi stata colta in
fallo.
-
Salve!
-
Buonasera. Un tavolo per due? – disse
l’uomo scendendo dal bancone per farci strada nel suo locale. Aveva un bel
sorriso, di quelli aperti e sinceri, che ti abbracciano e ti fanno sentire a
casa, al sicuro.
Anche il locale era molto particolare, con tanti separé, di colori diversi.
L’angelo mi chiese dove volessi sedermi e scelsi d’istinto il separé azzurro,
un po’ lontano dalla porta. L’uomo guardò prima me, poi il mio ospite. Ci fece
cenno di sederci e ci chiese cosa gradivamo. Il mio ospite ordinò un caffè. Io continuavo
a scorrere la lista senza sapere cosa scegliere ed alla fine chiesi il mio
solito the verde. Il proprietario non si stupì, come invece mi accade in molti
altri locali.
-
Sai che non mi hai detto come ti chiami? –
mi chiese l’angelo
-
Angelica – risposi
-
Mm... che bel nome... particolare... direi
che ti sta bene...
-
Ma no, dai... sembro una strega a
volte - commentai e poi continuai: - E
tu?
-
Simone... ti piace qui?
-
Sì, è carino... molto intimo... non lo
conoscevo questo posto, ma è aperto da tanto?
-
Non saprei... ci vengo ogni tanto. E’
discreto, non c’è gente strana... sai non è un posto di passaggio... ci vieni
se sai che è qui...
-
Buffo.. la stessa cosa che ho pensato io
quando siamo arrivati...
Un piccolo momento di imbarazzo. Mi guardavo in giro, non sapevo come
continuare. Improvvisamente mi sembrò che Simone volesse corteggiarmi ed io
semplicemente non ero preparata. Non uscivo da otto anni con un uomo. L’ultimo
con il quale ero uscita era il padre di Azzurra e non lo vedevo da quella notte
nella quale avevamo fatto l’amore. Non avevo voluto cercarlo e lui non si era
fatto vivo, così avevo pensato che in fondo se non gli interessavo io non gli
sarebbe interessato nemmeno di Azzurra.
Avevo odiato gli uomini per anni. Non ero mai riuscita ad avvicinarmi a
loro. Era ancora così, anche se negli ultimi tempi avevo iniziato ad uscire con
qualche amico dell’università, uno di quelli con i quali sai di essere al
sicuro, perchè hanno solo lo studio in testa.
Terza Parte
Davanti a me c’era Simone, un uomo qualunque, un uomo più grande di me,
sposato, con almeno una figlia e non sapevo come comportarmi.
Io non avevo mai desiderato una storia qualunque. Avevo sempre desiderato
il principe... e trovarmi davanti Simone era stato bellissimo, finchè si era trattato
di sognare. Avevo davanti il suo volto, mi ero lasciata affascinare e prendere
dalla sua bellezza e dalla sua simpatia, mi ero persa nei suoi occhi. Eppure
alla fine, all’improvviso, qualcosa stava iniziando a tingere il suo volto di
colori scuri.
La nota stonata era diventata un insieme di note che rovinavano il concerto
che stavo ascoltando. Non capivo da dove provenisse quella sensazione così
strana che mi disturbava ed ero confusa nei miei pensieri, quando Simone all’improvviso
mi prese la mano:
-
Angelica, sai che sei davvero bella?
Sfilai la mano proprio mentre il proprietario arrivava con il vassoio:
-
Un the verde per la signorina ed un caffè
per lei, signore.
Che strano, pensai... mi era quasi sembrato che l’uomo avesse calcato in particolare
sulle parole “signorina” e “signore”, quasi volesse sottolineare che era
qualcosa che non stava bene, quasi un avviso a pensarci bene prima di compiere
qualunque azione. Dopo aver appoggiato le nostre ordinazioni sul tavolo, se ne
andò a riconquistare la sua posizione sul bancone, ad asciugar bicchieri.
-
Che ne pensi di vederci una sera? –
insistette Simone
-
Ma.. veramente io non so... credo tu sia
sposato, no?
-
Sì, è un problema?
“Porca miseria!” pensai ed in me quella nota stonata si tramutò in rabbia
“Certo che è un problema... io sarò stata anche una stupida fino ad ora, ma non
è detto che se una è stata stupida una volta poi lo sia per sempre... Io volevo
il principe azzurro e mi sono sbagliata... questo non vuol dire che io non
desideri ancora trovarlo...”
Probabilmente la mia rabbia uscì attraverso i miei occhi come fumo, perchè
Simone iniziò a scusarsi:
-
Dai, cosa hai capito... sai... io
intendevo uscire qualche sera con amici, così... io lo faccio spesso... non
intendevo...
Non dissi nulla. Scostai la mia tazza di the verde, mi alzai e andai verso
la cassa.
Il proprietario si accostò con discrezione e mi lasciò pagare. Ebbi
l’impressione che dal bancone avesse assistito a tutta la scena e così piantai
i miei occhi nei suoi e gli dissi: - Può chiamarmi un taxi... subito?
L’uomo mi sorrise con comprensione ed approvazione. Simone era fermo al
separé a bere il suo caffè. Non si mosse per i cinque minuti che ci vollero per
il taxi a raggiungere quel bar.
Uscii dal locale senza voltarmi indietro e quella fu l’ultima volta che
vidi Simone.
Dopo quella sera a pensarci bene non ho più visto nemmeno sua figlia.
Non mi feci troppe domande su quello strano giorno, ma quando mi capitò in
seguito di tornarci con la mente, la conclusione era sempre che è vero, io quel
giorno avevo incontrato un angelo. In realtà era un angelo di quelli che
rimangono tranquilli in un angolo, senza sguainare la spada e ti guidano con
gli occhi verso la verità, a volte mentre compiono gesti insignificanti.
Talmente insignificanti, come asciugare dei bicchieri dietro un bancone di
un bar, un piccolo bar di provincia.
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