Il mio commento
E’ un libro da gustare lentamente, sia perché lento è il trascorrere del tempo che l’autrice racconta, sia perché è bello assaporare lo stile, lasciare che le immagini sedimentino, riprendere le pagine una dopo l’altra e scoprire che l’autrice ha aspettato, come una vecchia amica che ha sospeso un racconto in attesa che tu tornassi a trovarla e fossi disposto ad ascoltarla.
E’ indubbiamente diverso rispetto alla maggior parte degli autori che ho letto ultimamente. Difficile, indubbiamente, per i tempi che richiede e per le immagini che a volte non sono semplici ed immediate. Mi ha ricordato altri “grandi” romanzi: “La montagna incantata” di Thomas Mann o “Il tamburo di latta” di Günter Grass.
Come per questi, però, sono contenta di essere riuscita ad arrivare in fondo. Molto bella la parte in cui l’autrice descrive la sua vita in Europa. Malinconico il rientro, bellissima la descrizione finale del suo rientro a casa, della sua difficile scelta degli oggetti da portare via, oggetti dei quali “avvertivo ancora i valori, il bisogno che ne avevo, il bisogno degli altri di averli come ricordi”, oggetti che tolti dal loro ambiente diventano “un mucchio di spazzatura”. E qui la scoperta che i veri tesori sono quelli che riesce a portare nella “Città degli Specchi”, il mondo dove sopiscono i ricordi trasformati dalle emozioni in scintillanti “Palazzi di Specchi”.
Un consiglio: non leggetelo in metropolitana. Questo libro merita tutto il tempo che gli dedicherete.
Recensione
Di cosa parla “Un angelo alla mia tavola”?
Si potrebbe dire che parla di schizo-frenia, ma solo nel senso originario del termine su cui pure ha richiamato l'attenzione Jaspers: la mente scissa in due mondi, in questo caso il mondo della vita e quello dell'arte e dell'espressione.
Il mondo della vita è descritto in queste pagine nei suoi capitoli salienti: l'infanzia trascorsa a Dunedin, in Nuova Zelanda, nella povertà degli anni della Depressione; il trasferimento al sud, al seguito del padre ferroviere; i primi colpi che lasciano il segno: l'obesità infantile, la sgraziata adolescenza, la fatalità della morte con la prematura scomparsa della sorella Myrtle, l'orrore dell'ospedale psichiatrico; e poi la fuga, il tentativo di suicidio, il ritorno alla casa paterna.
Il mondo dell'arte e dell'espressione vive nella compagnia dei poeti - Shakespeare, Shelley, Keats, Dylan Thomas, T.S. Eliot, Auden - che come un teatro dell'immaginario subentra spesso alla triste scena del mondo reale e restituisce la felicità perduta.
Vive, infine, nella prosa stessa di Janet Frame, nella sua mobilità nervosa, nella imprevedibilità delle immagini e dello stile che ne fa una delle più grandi scrittrici del Novecento
Ulteriore commento: http://www.albumdiadele.it/cammino/frame.htm
Janet Campion: “Forse il raro genio di Janet, e anche ciò che mi fa considerare il libro un capolavoro, è la profondità e la franchezza con cui ci rivela la sua vulnerabilità; la sua capacità di scrivere sia del suo dolore e della sua umiliazione sia del suo successo, il tutto con la stessa calma e imparzialità. L’ho trovato disarmante. Nessuno mi ha chiesto di ammirare Janet, eppure sono arrivata a conoscerla nei particolari più intimi e a provare per lei un affetto sincero”.
La poesia e la scrittura
La “finzione” per sopperire all’assenza di sciagure che sancissero il suo status di “poetessa”
[…] Sognavo di essere colpita dalla paralisi per poter restare tutto il giorno a letto o seduta in una sedia a rotelle a scrivere racconti e poesie.
[…] Fui sopraffatta dall’invidia e dal desiderio. Shirley aveva tutto quello che serviva a un poeta, più la tragedia di un padre morto. Come avrei potuto diventare un poeta quando non mi distraevo praticamente mai, mi piaceva la matematica e i miei genitori erano vivi? Pensai allora che se non potevo essere una sognatrice come sembrava necessario, avrei potuto almeno fare finta, e scrissi perciò una poesia sui sogni, convinta che se avessi usato ripetutamente la parola ‘sogno’ in un modo o nell’altro avrei creato sogni. […] ne dedussi che la parola ‘sogno’ aveva sortito il suo effetto; allora iniziai ad usarla anche in altre poesie, tanto più che mi ero accorta che gran parte dei poeti la usava, vittime forse della stessa illusione. […] Cominciai a raccogliere altre parole definite ‘poetiche’: stelle, grigio, soffuso, profondo, adombrato, piccolo, fiori… alcune delle quali all’inizio non mi erano venute come parole mie, ma che alla fine usavo solo perché erano parole ‘poetiche’, e poiché la poesia metteva l’accento su tutto quello che era romantico (fosco, ineffabile, piccolo, vecchio, grigio), mi sembrava di essere sulla strada giusta per essere definita ‘poetica e immaginativa’, sebbene fossi sciaguratamente consapevole di non possedere nessuno degli svantaggi considerati essenziali ai poeti: non avevo nessun genitore morto.
La sua visione del mondo degli scrittori: “La città degli specchi”
[…] L’unico motivo per continuare questa autobiografia è che, per quanto abbia usato, inventato, mescolato, rimodellato, cambiato, aggiunto, sottratto da tutte le mie esperienze, non ho mai scritto direttamente della mia vita e dei miei sentimenti. Senza dubbio mi sono mescolata ad altri personaggi che sono a loro volta il prodotto del noto e dell’ignoto, del reale e dell’ “immaginario”; ho creato “esseri”, ma non ho mai scritto del mio essere. Perché? Perché se compio il pericoloso viaggio verso la Città degli Specchi dove tutto quello che ho conosciuto, visto o sognato è immerso nella luce di un altro mondo, a che serve tornare solo con uno specchio pieno di me? O, in verità, di altri che esistono benissimo nella comune luce del giorno? Il sé deve essere il contenitore dei tesori della Città degli Specchi, l’Inviato, per così dire, e quando viene il momento di catalogare quei tesori per dare loro una forma di parole, deve essere il sé a lavorare, a portarne il peso, a scegliere, sistemare e lucidare. E quando il lavoro è concluso e ci si deve rassegnare al non essere, il sé può prendersi una vacanza, anche soltanto per re intrecciare il paniere usato, in attesa della prossima visita alla Città degli Specchi. Sono questi i processi della narrativa. “Mettere giù tutto così come accade” non è narrativa: deve esserci il viaggio, fatto da soli, il cambiamento della luce concentrata sul materiale, la disponibilità dello stesso autore a vivere in quella luce, in quella città di riflessi governata da leggi, materiali e moneta diversi. Scrivere un romanzo non è soltanto andare a fare acquisti oltre frontiera in una terra irreale: sono ore e anni passati nelle fabbriche, nelle case, nelle cattedrali dell’immaginazione per apprendere il funzionamento speciale della Città degli Specchi, i suoi cieli e il suo spazio, il suo sistema planetario, senza fermarsi a pensare che ci si potrebbe ritrovare senza casa al mondo, falliti, abbandonati dall’Inviato.
L’immaginazione e la fantasia
[…] La mia vita da molti anni subiva il potere delle parole, adesso era sospinta dall’incessante ricerca e dal bisogno di quella che, dopotutto, era “solo una parola”: immaginazione
[…] Considero quindi l’immaginazione o come primaria o come secondaria. L’immaginazione primaria giudico sia la facoltà vivente e il primo agente di ogni percezione umana, e la ripetizione nella nostra mente finita dell’eterno atto di creazione dell’infinito. Io Sono. Considero l’immaginazione secondaria come un’eco della precedente, coesistente con la volontà, eppure identica alla primaria nell’essenza del suo agire, e diversa solo nel grado e nel modo di operare. Dissolve, diffonde, dissipa, allo scopo di ricreare: o, quando questo processo è reso impossibile, per ogni eventualità continua a lottare per idealizzare e unificare. E’ essenzialmente vitale, proprio mentre tutti gli oggetti (in quanto oggetti) sono essenzialmente immobili e morti… La fantasia al contrario, non ha altri oggetti sui quali agire, che non siano fissi e definiti. La fantasia in verità non è che un modo della memoria per emanciparsi dal tempo e dallo spazio: mentre è mescolata e modificata da quel fenomeno empirico della volontà che noi descriviamo con la parola “scelta”. Ma insieme con i ricordi ordinari, la fantasia deve ricevere tutti i materiali creati dalla legge di associazione. Il buon senso è il corpo del genio poetico, la fantasia il suo abbigliamento, il momento la sua vita, l’immaginazione l’anima che si trova dovunque in ognuno; e modella un intero armonioso e intelligente.
Le immagini più belle
[…] Quell’anno, da filo o sentiero orizzontale che si poteva seguire o percorrere, il tempo si fece all’improvviso verticale, da salire come una scala fino al cielo, con scalini o episodi che si succedevano rapidamente l’uno all’altro.
[…] Il futuro si accumula come un peso sul passato. Il peso accumulato sui primi anni è più facile da rimuovere per permettere al tempo di rialzarsi come erba schiacciata. Gli anni che seguono quelli dell’infanzia sono saldati al loro futuro, compatti come pietra, e spesso il tempo che sta sotto non può rialzarsi come l’erba: giace sbiadito in una nuova forma con quei fragili germogli esangui di un altro tempo ignoto, avvinghiati gli uni agli altri sotto la pietra.
[…] Scrivere un’autobiografia, comunemente considerato un guardarsi indietro, può anche significare guardare al di là o attraverso, con il passare del tempo che conferisce allo sguardo una facoltà analoga a quella dei raggi X. Inoltre il tempo passato non è tempo scomparso, è tempo accumulato, e il cumulo somiglia al personaggio della favola al quale lungo la strada continuavano ad unirsi altri personaggi, nessuno dei quali poteva essere separato dall’altro o dal protagonista stesso, con alcuni tanto appiccicati addosso da provocare con la loro presenza una sofferenza fisica. Aggiungete ai personaggi tutti gli avvenimenti, i pensieri, i sentimenti, e avrete una massa di tempo, ora informe e appiccicosa, ora un gioiello più grande delle stelle e dei pianeti.
[…] Il tempo conferisce il privilegio di sistemazioni e risistemazioni che non si sognano neppure finchè non diventa Passato
[…] Gli spiegai che piangevo per la vita di mia madre, non per la sua morte. Mi rammaricavo del fatto che la vita dei nostri genitori, spesa a nutrirci, vestirci e proteggerci, ci avesse lasciato poco tempo per conoscerli e amarli. Avevo passato la vita a osservarli, ad ascoltarli, a cercare di decifrare il loro codice, sempre alla ricerca di indizi. Erano i due alberi fra noi e il vento, la neve e il mare; ma questo nell’infanzia. Sentivo che la loro morte ci avrebbe forse esposti alle intemperie, ma avrebbe anche lasciato entrare la luce da ogni direzione e avremmo conosciuto la realtà invece del rumore del vento, della neve, del mare e saremmo stati in grado di percepire ogni momento dell’esistenza.
[…] Sapevo di avere già recitato quella parte, a casa, da bambina, a scuola, all’università: ligia alle regole, la “buona” liberata dal male, mai indotta in tentazione. Ma mentre allora gli elogi mi avevano dato una sensazione di dolciastro autocompiacimento, adesso mi davano poca soddisfazione, perché nell’aritmetica dei miei trentadue anni erano piuttosto una sottrazione che un’addizione alla stima che avevo di me stessa.
[…] Finalmente entrammo nel golfo di Hauraki, superando lentamente le baie con le loro case inaspettatamente variopinte, come file di caramelle (dieci anni prima avrei detto “lecca-lecca”) rosa, gialle, blu e verdi, alcune a strisce, che si stagliavano sullo sfondo del verde vivo dell’erba (verde foglia? verde menta?) e del verde più scuro dei cespugli indigeni. Avevo dimenticato la tinta stile pasticceria delle case e la profondità del cielo azzurro, non lontano, ma a portata di mano, di testa, un cielo condiviso. […] Ed ecco di nuovo la luce di Auckland, mai dimenticata, come luce di montagna in una città senza montagne, eppure più morbida, piena di correnti di azzurro allegro, violetto e verde, e muovendosi la si poteva attraversare senza sforzo.
[…] era ancora il mare a reclamare di essere ascoltato, facendo della città una conchiglia che cantava all’orecchio di ognuno.
Il dramma dell’ospedale psichiatrico
[…] Le sei settimane trascorse all’ospedale di Seacliff, in un mondo che non avrei mai immaginato, fra gente la cui esistenza non avrei mai creduto possibile, furono per me un corso accelerato sugli orrori della pazzia e suoi luoghi abitati da coloro che vengono ritenuti pazzim separandomi per sempre dalle precedenti realtà e dalle sicurezze della vita di ogni giorno. Dal primo istante a Seacliff compresi che non sarei potuta tornare alla mia solita vita o dimenticare quello che avevo visto lì dentro. Mi sembrava che la mia vita fosse stata sconvolta da quell’improvvisa suddivisione della gente fra quella “comune”, della strada e questa gente “segreta” che pochi avevano visto o alla quale avevano rivolto la parola, ma della quale molti parlavano, deridendola, con ilarità o paura. Vidi persone con gli occhi sbarrati come l’occhio di un ciclone, circondate da vortici invisibili e silenziosi tumulti che contrastavano stranamente con la loro quiete. […] Molti pazienti rinchiusi in altri reparti di Seacliff non avevano neppure un nome, solo soprannomi, nessun passato, nessun futuro, solo un Adesso di reclusione, un’eterna Isola del Presente [ndr. Is-Land = Isola del presente; Was-Land = Isola del passato] senza orizzonti che la accompagnassero, senza appoggi né appigli, e perfino senza il suo cielo mutevole. [..] Divenni “lei”, una di “loro”. [..] Guardavo i miei e sapevo che non sapevano quello che avevo visto, che in diversi luoghi del paese c’erano uomini donne e bambini rinchiusi, tenuti nascosti, senza più niente di proprio all’infuori di un soprannome, con la parola stessa soprannome a indicare qualcosa che veniva messo “sopra”, a coprire chissà quale malvagità.
[…] Cominciai a provare un sentimento di impotenza verso la situazione in cui mi trovavo. Vivevo in una terra solitaria che penso assomigli al luogo dove i moribondi passano i loro ultimi istanti prima di morire, e dal quale chi fa ritorno al mondo dei vivi porta inevitabilmente con sé un punto di vista privilegiato, descrivendolo come un incubo, come un tesoro, e qualcosa che ti apparterrà per tutta la vita; penso talvolta che debba essere il miglior punto di osservazione al mondo, poiché la vista spazia perfino più lontano che dalle montagne dell’amore, simile per estasi ed esposizione alle intemperie, così vicino alle dimore degli antichi dèi e dee.
[…] La mia condizione poteva definirsi una sottomissione forzata a una custodia coatta. […] L’atteggiamento di chi comandava, e purtroppo scriveva rapporti e influiva sulle cure, era punitivo e repressivo, con certe forme di cure mediche che venivano minacciate come punizione se non volevi “collaborare”, laddove “non collaborare” poteva significare rifiutarsi di obbedire a un ordine, per esempio andare al gabinetto senza porta con altre sei donne a urinare in pubblico mentre si veniva insultate dall’infermiera per la propria riluttanza. «Siamo troppo schizzinose, vero? Bene Miss Istruita: qui imparerà una o due cosette.» Cara Istruita, Miss Istruita: purtroppo il fatto di essere stata al liceo, al magistero e all’università toccava una corda di sadismo vendicativo in alcuni membri del personale. Fu la mia attività di scrittrice a venire alla fine in mio soccorso. Non c’è da stupirsi se considero la scrittura un modo di vivere, dal momento che mi ha letteralmente salvato la vita.
[…] Ripeto che fu la mia attività di scrittrice a salvarmi. Avevo visto nell’ufficio del reparto la lista di coloro che dovevano essere lobotomizzati, con il mio nome insieme ad altri cancellati a mano a mano che veniva eseguita l’operazione. Il mio “turno” doveva essere molto vicino, quando una sera il primario dell’ospedale, il dottor Blake Palmer, fece una visita inattesa al reparto. Mi parlò, con stupore di tutti […] «Ho deciso che deve restare com’è. Non voglio che cambi, […] Lei ha vinto il premio Hubert Church per la prosa, Il suo libro, La laguna» […] Invece di essere trattata con la lobotomia, venivo trattata come una persona di un certo valore, un essere umano, a dispetto del malanimo e del dissenso di alcuni membri del personale.
[…] La mia amica Nola, che per sua sfortuna non aveva vinto un premio e il cui nome non appariva sui giornali, subì la lobotomia e ritornò in ospedale dove, nel gruppo conosciuto come “le lobotomie”, veniva fatto qualche tentativo, con attenzioni personali, per continuare il processo di “normalizzazione o quanto meno di trasformazione”. Alle “lobotomie” si parlava, venivano accompagnate a passeggio, abbellite con il trucco e con sciarpe a fiori che coprivano la loro testa rasata. Erano silenziose, docili; avevano gli occhi grandi e scuri, la faccia pallida, con la pelle sudata. Venivano “riadattate” per essere inserite nella realtà quotidiana, descritta sempre come “fuori”; il mondo “fuori”.
[…] Avevo visto abbastanza schizofrenia per capire di non averne mai sofferto e da tempo avevo scartato l’ipotesi di essere inevitabilmente condannata alla pazzia.
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