Archivio Blog

Cerca nel blog

31 gen 2012

El Sheba


Silvia_I_by_borissov
www.deviantart.com
Ero seduto ad un tavolino da caffé, nel bar appena a destra dell’ingresso dell’ufficio.

Tutte le mattine seguivo lo stesso rito: uscivo da casa alle sei in punto, prendevo l’auto e andavo alla fermata del metro, quello che andava in centro città, mi fermavo al giornalaio per comprare il quotidiano e facevo una piccola passeggiata di dieci minuti a piedi. Alle sette in punto varcavo la soglia del Bar At Noon, un baretto del centro di Milano sempre pieno, a qualsiasi ora del giorno, persino alle sette, quando le strade sono ancora un po’ vuote e quei pochi che sono già in ufficio aspettano i colleghi per andare a prendere il caffé.

Tuttavia Gervaso, il titolare, sapeva che doveva riservarmi un posto. Lo sa da quindici anni, da quando avevo preso l’abitudine di dedicarmi un’ora e mezzo al mattino per stare con me stesso, con i miei pensieri.

Ero sposato da venti anni, avevo due figlie oramai grandi, una frequentava il liceo ed una l’università. La mia vita non presentava nulla di straordinario, era una vita tranquilla, qualcuno direbbe mediocre, della quale apprezzavo la certezza delle cose che mi circondavano. Ad essa mi ero adeguato, almeno apparentemente. Ero un bravo marito, un bravo padre ed un onesto lavoratore. Avevo impiegato anni, anni di dura lotta tra la mia innata voglia di straordinario e la mia realtà quotidiana. Alla fine sembrava aver vinto la pacatezza dell’età matura e la voglia di non stravolgere completamente la vita mia e della mia famiglia.

Quell’unica ora e mezzo al giorno era l’unica nella quale lasciavo libero il piccolo diavolo che c’è in me. Ero uno scrittore a tempo perso. Collaboravo per una piccola casa editrice che pubblicava libri del genere del quale scrivevo: piccoli racconti di vita quotidiana, che avevano in sé un tocco di eccezionalità. Leggevo il giornale e prendevo appunti, rintracciando nella cronaca alcuni avvenimenti che solleticavano la mia fantasia. O quando la realtà era generosa, mi guardavo in giro ed osservavo le persone che entravano ed uscivano dal bar. Mi regalavo un po’ di emozioni lasciando libera la mia fantasia, fino alle otto e mezzo, quando dovevo chiudere qualsiasi cosa io stessi facendo, per rientrare nella quotidiana verità. L’unica regola che mi ero imposto, era che non dovevo avere censure: la mente volava, la fantasia la sosteneva, la realtà si arrendeva a tutte le possibilità.

Fu in una di quelle pause che mi concedevo, che la vidi per la prima volta, e a quella volta molte altre seguirono, per circa un anno intero.


Ricordo bene ogni particolare di quel suo primo ingresso nel bar. Era il 2009. Erano le sette e un quarto di un freddo lunedì di inizio anno, il 5 gennaio per l’esattezza. La porta del bar si aprì ed io alzai gli occhi dal giornale, quasi istintivamente, come facevo di solito, un po’ per il brusco soffio di freddo che si infilava nel locale, un po’ per curiosare tra gli avventori. Di solito riabbassavo gli occhi subito dopo, soprattutto quando la persona non attirava in alcun modo il mio interesse.

Quella volta no. Rimasi abbagliato dai suoi capelli  lunghi e biondi e dagli occhi dei quali in quel momento non riuscii a distinguere nettamente il colore, intuendone solo una sfumatura tra il verde smeraldo e l’azzurro scuro. Era stretta in un cappottino nero di alpaca, con una cinta che le segnava la vita sottile. Con un gesto elegante sciolse la cinta e si sbottonò il cappotto e vidi che sotto indossava un tailleur nero con una gonna corta, appena sopra il ginocchio. Due gambe magre ma tornite scivolavano fino ad un paio di scarpe nere, erte sopra un tacco che misurava circa dieci centimetri. Bell’esemplare femminile, in forma nonostante l’età, che immaginai essere vicina ai quarantacinque, qualche anno più giovane di me. Ma più che il corpo sinuoso ed il viso angelico, furono i suoi occhi a catturarmi ed il modo in cui muoveva le mani. Gli occhi erano profondamente tristi, nonostante un sorriso incerto stazionasse sul suo viso, nel tentativo di depistare un distratto osservatore. Non riuscivano a fingere serenità: qualcosa in lei la scuoteva fortemente dentro e a me incuriosiva scoprire cosa fosse. Le sue mani accompagnavano quella inquietitudine ad ogni suo gesto, sembrava quasi non le appartenessero, una suppellettile inutile e fastidiosa della quale avrebbe volentieri fatto a meno. Questo non lo notai subito, ma con il tempo, quando ebbi modo di osservarla meglio e più da vicino.

Quella mattina, la signora, che chiamerò Elsa, ma della quale ignoro completamente il nome, bevve solo un caffé ed uscì dal bar, circa cinque minuti dopo che era entrata, cioè alle sette e venti. Io rimasi inchiodato alla porta del bar ed i miei pensieri scivolarono sotto di essa insieme a lei, mentre la mia fantasia fuoriusciva dai limiti ad essa imposti e immaginava di lei e della sua vita.

Scrissi un bel racconto, quel giorno, che parlava di una piccola strega che rubava l’anima ad un vecchio barbone, incontrato per caso all’uscita di un bar. Il barbone ero io e l’anima se l’era presa nell’esatto istante in cui i miei occhi si erano appoggiati ai suoi.

Fu la prima volta che la mia fantasia non stette ai patti e alle otto e mezza in punto, quando ero pronto per rimetterla nel taschino insieme alla mia penna ed al mio taccuino, per cominciare la mia ordinaria giornata, essa fece le bizze e decise che voleva rimanere fuori a trastullarsi con il più bel pensiero che potesse avere. Fu un disastro! Al lavoro non riuscivo a concentrarmi; a casa mia moglie mi disse che sembravo lontano, come tra le nuvole; le mie figlie mi presero in giro perchè dovevano ripetere più volte le domande prima che le comprendessi davvero e potessi rispondere. Quella notte andai a letto con il desiderio che la mattina dopo arrivasse presto. Dormii poco e la mattina già alle cinque e mezzo ero pronto ad uscire. Dormivano tutti a casa, perciò non mi feci problemi ed uscii prima lo stesso, decidendo che per quella mattina avrei liberato la mia mente per mezz’ora in più.

Alle sette e un quarto in punto, una folata di vento freddo mi riscaldò il cuore. Soffermai gli occhi sul giornale per qualche secondo, timoroso di alzare gli occhi e trovare qualche impostore, al posto di colei che avevo sognato e desiderato di rivedere tutta la notte. Poi mi decisi e il suo volto mi rapì: stava guardando proprio me e distolse lo sguardo solo per il tempo minimo indispensabile a parlare con il cameriere, e chiedergli se poteva sedersi ad un tavolino sul retro del locale. Mi guardai intorno e l’unico tavolino libero era proprio quello accanto al mio. Il mio cuore sorrise e probabilmente anche i miei occhi, perchè lei mi guardò e mi salutò, chiedendo scusa per aver importunato la mia solitudine.

Elsa si sedette ed aprì un quadernetto dove iniziò a scrivere. Ogni tanto si fermava a bere un sorso di the e poi riprendeva. A tratti alzava lo sguardo verso il soffitto o lo girava intorno e tutte le volte che lo faceva, incrociava i miei occhi sperduti in lei. Pensai che dal suo punto di vista la cosa potesse essere anche un po’ antipatica, ma ciò non mi impedì di continuare ad osservare mentre scriveva, con la mano veloce sul foglio bianco, impugnando una penna stilografica dall’inchiostro nero. I suoi occhi concentrati su quella carta svolazzavano tra le parole e la bocca a tratti ripeteva le lettere che magicamente apparivano componendosi elegantemente dal pennino. Sembrava un’immagine di altri tempi e più la osservavo, più lo stomaco mi si attorcigliava dentro ed il cuore pulsava forte. La mente cercava frasi non stupide da rivolgerle, ma Elsa sembrava circondata da un’aura talmente ricca di perfezione, che qualsiasi cosa io avessi detto, l’avrebbe macchiata di fango. Così decisi di star zitto, quella mattina e molte altre che seguirono.

Elsa divenne la mia ossessione. Il suo pensiero straripò dai confini che ero sempre riuscito ad imporre alla mia fantasia e iniziò ad occupare ogni istante delle mie giornate, violando la censura della mia razionalità. La mattina mi perdevo nella sua bellezza e la stavo a guardare ininterrottamente. Facevo finta di leggere il giornale. Facevo finta di bere più caffé. Osservavo ogni particolare di lei: l’eleganza con la quale la sua mano si muoveva sulla carta e poi all’improvviso si arrestava, si staccava e accarezzava il manico della tazza da the. Seguivo la sua bocca mentre si appoggiava con cautela alla porcellana bollente e desideravo essere io quella porcellana perchè lei potesse appoggiare le sue labbra su di me e percepire la passione che mi turbava. Osservavo il suo corpo appoggiato al tavolo, seguivo il profilo dei suoi seni, scendevo lungo la sua vita stretta e mi fermavo ad abbracciarla. Poi gli occhi si adagiavano sui suoi stretti fianchi e le mani immaginavano di sfiorare le sue gambe. Quando si alzava per andare via, puntualmente alle otto, i miei occhi la imploravano di restare, di rivolgermi uno sguardo. Ma lei, ogni giorno, si alzava, mi guardava mentre si infilava il cappotto, e sorrideva, senza dire nulla, senza aspettarsi nemmeno che io dicessi qualcosa.

Io non avevo il coraggio di parlarle per primo, accettavo la sua discrezione ed il suo tatto nell’avvicinarmi e la rispettavo, standomene seduto a guardarla con gli occhi di un cerbiatto innamorato. Di giorno, quando ero al lavoro, capitava spesso che uscissi per andare al bar e vedere se per caso si trovasse lì. Ma non la incontrai mai. La sera i miei pensieri erano per lei e la notte mi addormentavo sognando di poter essere Peter Pan, volare sopra i cieli della mia città, spalancare le finestre di tutte le case, alla ricerca disperata della mia Wendy-Elsa.

Non trovai mai il coraggio di fermarla, di parlarle, di farle capire quello che provavo per lei. In fondo, cosa avrei potuto offrirle, una vita normale? No, lei non la meritava. Lei meritava qualcosa di speciale, una passione fuori dal comune che sì, in quell’ora e mezza io mi sentivo nel pieno potere di darle, ma dopo? Lei avrebbe condizionato tutta la mia vita ben oltre quell’ora ed io potevo offrirle soltanto un posto da amante, e l’idea mi raccapricciava. Lei aveva diritto a tutto ciò che nella vita reale io avrei dovuto negarle e così, forzosamente, rimasi fermo come uno scolaretto, disperato, al mio posto.

Resistetti ogni giorno alla tentazione di porre la mia mano sulla sua per fermarla. Mi facevo forza per distogliere il mio sguardo dal suo nello stesso istante nel quale mi abberevavo, impunemente e crudelmente, alla sua bellezza e mi immergevo nella inconsolabile tristezza di quegli occhi. Ero un principe senza reame, che guardava la sua principessa specchiarsi nel lago ed evita di respirare perchè nemmeno un piccolo soffio scheggi la superficie dell’acqua che riflette il suo viso.

Poi un giorno Elsa non entrò più. Quel giorno l’attesi con ansia, pensai si potesse essere ammalata e così ritardai a preoccuparmi di una settimana. Poi il mio cuore mi suggerì l’intima certezza che non l’avrei più rivista e dovetti farmi forza per nascondere quel dolore profondo che sentivo, misto al rimorso incessante per non averle nemmeno parlato, per non averle chiesto mai neanche il suo nome. Per poter almeno farla echeggiare ancor nella mia mente, la nominai Elsa, nome ebraico che deriva da El, Dio, e  sheba, sette, simbolo della perfezione. La perfezione della sua maestà.

Da qualche mese ho cambiato lavoro. Non sopportavo più di entrare in quel bar e di aggirarmi in quei luoghi dove avevo vissuto quell’intenso amore puro con lei. Elsa era diventata la mia ossessione, avevo iniziato a desiderarla al punto che la mia vita stava uscendo totalmente dalla quotidianità ed io non potevo permettermi di distruggere quello che in tanti anni avevo costruito. Mi si spezzava il cuore, e tentai in ogni modo di dimenticarla, senza riuscirci.

Oggi l’ho rivista. Il tormento che sembrava soffocato è tornato, prepotente. Sono qui che mi chiedo come possa il destino essere così beffardo e farmela ritrovare dopo che sono scappato da lei due volte, per preservare la mia ordinaria vita.

I nostri occhi si sono incrociati per strada, si sono persi in un attimo di felicità. So che anche lei è stata felice per quel solo istante.  Ora so che quello che io ho provato è condiviso da lei. So che anche per lei deve essere stato difficile resistere alla tentazione di avvicinarsi, di accostarsi alla mia anima. So che sarebbe stato devastante, perchè quando incontri un’anima così, uno spirito che ti infiamma appena incroci la sua vita, nulla, davvero nulla, resta più come prima.

Prima o poi, in questa vita o altrove, saremo liberi di vivere l’immensità che ci siamo scambiati negli occhi con un solo sguardo. Non mi resta che sperare che allora, solo allora, il destino mi conceda di incontrarla ancora. El Sheba.

1 commento: