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18 apr 2012

Oblivion


Murder_by_XPeaceXLoveXRawrX.jpg
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Capitolo 1


Caterina guardava avanti a sè, fisso nel vuoto, verso la parete verdina della sala d'attesa dell'ospedale. Studiava il muro nelle sue imperfezioni, le piccole croste di pittura scivolate via da qualche parte e ramazzate lontano dal punto in cui erano cadute, l'intonaco che spuntava di qui e di là, i buchi che rivelavano il punto dove una volta erano attaccati cartelli e avvisi, strisce nere che immaginava essere l’impronta di barelle sbadatamente trascinate nel corridoio e sbattute contro il muro.

La testa le girava come una trottola. Non riusciva a recuperare un punto di coscienza, vicino nel tempo, al quale potersi aggrappare per ricordare. Le era rimasto nelle orecchie il trillo insistente del cellulare mentre era sotto la doccia, che si interrompeva per qualche secondo quando cadeva la comunicazione, per poi riprendere più acuto e rimbombante dopo che aveva smesso. Si era vista nello specchio del bagno appena uscita dalla doccia: un volto trasfigurato e quasi sconosciuto, un corpo secco e nudo che si catapultava verso la mensola per afferrare quell'oggetto infernale per i suoi timpani, mentre cercava di reggere un equilibrio reso instabile da tutto l’alcool che aveva in corpo. Si era sentita ripetere ad alta voce le parole del suo interlocutore, che la invitava ripetutamente e con voce sempre più alterata per la sua mancata comprensione, a recarsi il prima possibile in ospedale, perchè era successo qualcosa a sua figlia.

Anita, piccola Anita. L'ultima immagine di lei che aveva in mente era mentre saliva sul suo Land Rover con il tutú bianco ed i capelli raccolti sulla testa da un filo di finte perle bianche. Le scendevano un po’ scompigliati ai lati e sulla fronte, perchè aveva fatto tutto di fretta e da sola, visto che quella che giocava a farle da madre non era stata in grado di aiutarla ed erano, come al solito, in ritardo.


Caterina si era ubriacata anche quel giorno. L'ultimo ricordo nitido risaliva alle undici di quella mattina, quando aveva telefonato a Giorgio, per confermargli che si sarebbero visti quel pomeriggio, come tutti i giovedí, quando Anita aveva le sue tre ore di danza.

Vide davanti a sè il viso di Giorgio, dieci anni più giovane di lei, conosciuto in una delle sue soste disperate in un bar, in un giorno in cui suo marito aveva fatto sparire da casa, per l'ennesima volta, perfino la più minuscola goccia di alcool dal piccolo bar del salone e lei aveva esaurito la sua serie di minuscole bottiglie di emergenza, che nascondeva nel suo cassetto segreto. Giorgio le si era avvicinato con il suo sorriso intrigante e due occhi verdi che l'avevano subito intrappolata. Nello spazio di una bottiglia di Cointreau si era ritrovata nella sua camera da letto a fare l'amore con lui e da allora, da quattro anni, ne aveva fatto il suo amante fisso. Non le importava cosa facesse quando non era con lei, non aveva prospettive o aspettative nè su di lui, nè sul loro rapporto e non gli chiedeva altro che di essere sempre disponibile il giovedì, in cambio dell'affitto mensile di trecento euro per quella stamberga dove viveva e dove si trovavano a far l’amore. Caterina sapeva che era un rapporto squallido, eppure non riusciva a rinunciare a lui. Per lei rappresentava l’unico spazio in cui riusciva a sentirsi viva, lontano da Filippo, l’uomo che aveva sposato, ma che era ben lontano da essere per lei un marito, che la disprezzava per quel suo vizio del bere e non l’amava più oramai da molti anni; e lontano da Anita, che l’aveva sempre respinta come madre, e più cresceva, più si allontanava da lei.

Anche quel giovedì avrebbe dovuto vedere Giorgio e lei aveva iniziato a prepararsi fin dalle undici, bevendo la sua doppia dose di Cointreau. All'ora di pranzo era andata a prendere Anita a scuola, le aveva chiesto di arrangiarsi a cucinare e fare i compiti e di essere pronta a uscire per le tre. Era stato tutto come al solito, ma poi qualcosa era andato storto, e non riusciva proprio a ricordare cosa... Aveva quel flash stampato in fronte, ricordava uno stato di inquietudine verso Anita, senza riuscire ad associare null'altro e poi in lei c'era il vuoto. Aveva bevuto molto, molto più del solito, e non riusciva nemmeno a ricordare se alla fine fosse andata da Giorgio oppure no. Recuperava i suoi ricordi nella doccia, alle cinque e mezza, ma nulla di più.

Una porta si aprì alla sua sinistra e ne uscì una donna in camice bianco. "Dott.ssa Bianca Giordano, Medico Legale" lesse sul cartellino appooggiato su due piccole tette perfette che spuntavano dritte ed appuntite dal camice, sbottonato fino al seno. Sembrava un angelo, se non fosse che Caterina odiava le donne come lei, con i capelli biondi sempre perfettamente mechati e pettinati, la pelle abbronzata da un viaggio in qualche paradiso caraibico, magari in barca a vela, gli occhi azzurri e profondi, il naso francese, la bocca rosea ed i denti bianchi, il corpo reso tonico e muscoloso da ore di palestra. Sembrava che la stesse perfino guardando con aria di sufficienza e disprezzo, che la stesse giudicando per il suo aspetto sciatto, il suo fiato incendiario, il suo sguardo perso nel vuoto della sua solitudine interiore. Voleva urlarle «Ma chi cazzo ti credi di essere, brutta stronza?». Ma c’era di mezzo Anita e scese a compromessi con se stessa per tacere e ascoltare da brava bambina, nonostante si sentisse, per qualche strana ragione che non comprendeva, sporca brutta e cattiva.

«La signora Del Bono?» le disse la dottoressa.
«Sì, sono io.» si sentì rispondere con tono formale.
«Venga, mi segua.»

Seguì l’angelo in una stanzetta appena indietro rispetto alla sala d’attesa, cercando di mantenere l’equilibrio mentre camminava, per non farsi accorgere del suo stato. Entrarono e si sedettero. Caterina guardò in giro i muri ammuffiti e pieni di libri dai titoli incomprensibili. Iniziò a mangiucchiarsi le unghie, mentre la dottoressa recuperava un fascicolo da una barella appoggiata al muro e piena di cartelle cliniche.

«Lei è la mamma di Anita?»
«No.»
«Mi scusi, ma non è la signora Del Bono?»
«Sì, ma non sono la mamma di Anita. La mamma di Anita è morta quando lei aveva un anno. Io ho sposato suo padre circa sette anni fa.»
«Signora, non mi piace tergiversare, nemmeno quando le notizie sono così difficili da comunicare.»
«Cos’ha Anita? Cosa le è successo? Nessuno mi ha voluto dire nulla. Ho chiamato mio marito, è all’estero in questi giorni. Sta rientrando, ma capisce bene che vuole sapere anche lui qualcosa...»
«Anita è morta.»
«Mo... morta? Cosa è successo?» La testa iniziò a rotearle. Vedeva l’immagine della dottoressa a tratti appannarsi e le orecchie le fischiavano come fossero sirene di navi da crociera. Sentiva la voce lontana della dottoressa che la chiamava e insisteva a chiederle se stesse bene. Poi si sentì afferrare e stendere per terra, mentre quelle stesse mani poi le sollevavano i piedi. Con la testa a terra, lentamente la vista le tornò e di fronte a sé vide il soffitto annerito e la luce che trafiggeva spade nei suoi occhi. Cercò di rialzarsi, ma una mano la trattenne giù, poi chiuse gli occhi e sentì del movimento intorno a sé, delle mani la sollevavano e l’appoggiavano su qualcosa più morbido del pavimento, forse un lettino o una barella. Quindi si addormentò.

Al suo risveglio, il soffitto era sempre lo stesso. Girò gli occhi per la stanza e scorse la donna, l’angelo, chinata sul computer a scrivere qualcosa. Provò ad alzarsi, ma la donna si accorse del movimento e la invitò a restare sdraiata. Si avvicinò a lei e le si sedette accanto.

«E’ svenuta. E’ normale. Stia tranquilla.»

Le ultime parole della donna risuonarono nelle sue orecchie. “Anita è morta”.
«Mi dica di Anita, la prego.»

E’ vero, la odiava quella mocciosetta che la faceva dannare tutto il giorno con le sue smancerie da perfetta damina. Eppure sentiva che in qualche parte del suo cuore le voleva bene e in quel momento le tornarono alla mente le prime sere passate insieme a lei, a raccontarle favole, a ridere e giocare con le mani, immaginando che fossero pupazzi dispettosi.

«Anita è stata trovata dietro la scuola di danza che frequentava. Era già morta quando l’hanno trovata. Le hanno fracassato il cranio. Non sappiamo cosa sia successo, la polizia è qui fuori che vorrebbe parlarle.»
Caterina percepì tutto l’alcool che aveva ingurgitato venir su lungo l’esofago, e i liquidi acidi sgorgarono improvvisamente dalla sua bocca, senza che potesse fare nulla per impedirglielo. Prese in pieno il suo angelo, che si ritrasse da lei, mentre il suo sguardo pieno di orrore  ripercorreva in lungo il camice prima immacolato ed ora chiazzato di verde. La dottoressa la guardò sprezzante, farfugliando un falso «Non si preoccupi», mentre si toglieva il camice restando con un reggiseno nero di pizzo, proprio davanti a lei.
«Mi spiace. Mi spiace... » farfugliò Caterina.
La dottoressa uscì dalla stanza senza dire nulla. Caterina si levò sul letto e afferrò un rotolo di carta, iniziando lentamente a pulirsi. Era umiliata, ma nella sua mente c’era Anita. Era il suo visino che le compariva davanti, così come la ricordava in quell’unica immagine del pomeriggio che le era rimasta. La sua testolina scompigliata. Lei non aveva voluto aiutarla: si stava facendo bella per Giorgio e non aveva tempo. Lei l’aveva sgridata: era in ritardo come al solito, ma aveva addossato alla piccola la colpa del ritardo e l’aveva mortificata. Ma non riusciva a ricordare altro che il suo musino sullo specchietto retrovisore dell’auto, con le lacrime a stento trattenute dagli occhi e il broncio. Uccisa. In quel modo. Cosa era successo e chi le poteva volerle così male da farlo?
Dopo un paio d’ore nelle quali aveva visto infermieri e dottori passare e ripassare nel lungo corridoio, la dottoressa l’aveva chiamata per il riconoscimento del corpo di Anita. Era stato tremendo, rivedere quel viso che la sua mente ricordava, in una espressione che non aveva mai visto su di lei. Era stato agghiacciante, osservare il suo corpicino che di solito vedeva danzare e correre, giacere ora immobile e nudo su quel tavolo di marmo, alla mercé di medici che intendevano sezionarlo e studiarlo centimetro per centimetro. Si immaginava che fosse come in CSI, nei telefilm che guardava di tanto in tanto e non riusciva a capacitarsi che quel corpo fosse di Anita. Non era nemmeno riuscita a parlare. Aveva fatto un cenno affermativo con la testa e se n’era uscita, per sedersi di nuovo, immobile, con lo sguardo fisso sulla parete verdina, della quale oramai riconosceva ogni singola fessura, seduta composta su quelle sedie, in attesa di qualcosa. La polizia? Filippo? Non ricordava. Sapeva solo che le avevano detto di aspettare.

Capitolo 2


Erano passate ancora due ore e Caterina era sempre ferma sulla sedia. L’effetto dell’alcool era oramai del tutto svanito e la sua coscienza realizzava attimo dopo attimo l’atroce verità che le avevano rivelato. Sentiva il bisogno di bere, solo un bicchiere, quel tanto che bastava a farle tornare in circolo quel liquido miracoloso che riusciva ad annullare la realtà e a sollevarla appena più in su del mondo nel quale era costretta a vivere.

Si alzò e andò al bar dell’ospedale, lasciando un appunto sulla sedia. Ma al bar non vendevano alcoolici e così decise di tornare un attimo a casa, solo un attimo. Tanto per Anita non c’era più nulla da fare e medici e polizia potevano andare a farsi fottere, per quel che le interessava. Appena uscita dall’ospedale, si accese una sigaretta e si fermò. Respirò il fumo a pieni polmoni e poi si diresse verso il parcheggio dei taxi. Un uomo l’affiancò e le mostrò un distintivo della polizia. “Merda!” pensò Caterina, tirando una boccata dopo l’altra, pensando che se avesse avuto quell’idea solo cinque minuti prima, ora sarebbe stata tranquilla in un taxi, a pochi minuti dalla meta. Poi gli sorrise.

«E’ lei la signora Del Bono?» le chiese gentilmente il poliziotto.
«Sì.» rispose Caterina, tirando ancora una boccata.
«Deve seguirmi. Il Commissario vuole parlarle.»
«Sono ore che aspetto. Ho bisogno di andare a casa. Non possiamo vederci dopo?»  rispose alterata Caterina.
«Mi spiace signora. Deve seguirmi. Non ci vorrà molto.» e l’uomo la invitò a seguirla.
«E sia!» si arrese Caterina.

Quando entrò nella stanza dove il Commissario l’aspettava, Caterina ebbe quasi un altro conato di vomito per la puzza di sudore, fumo e chiuso che le penetrò le narici. L’uomo era giovane, pelato e grasso. La pelle del viso gli si raggrinziva sul collo e gli occhi piccoli, incavati in quella massa di lardo, si fissarono addosso a lei, inchiodandola sullo stipite della porta. La sua voce la scosse:
« Prego, si accomodi signora Del Bono.»

Persino la voce era grassa e roca, tipica del fumatore incallito da quaranta sigarette al giorno. Caterina non si fece scrupoli.

«Stavo andando a casa, dopo aver aspettato qui molte ore. Posso avere una sigaretta ed un bicchiere di Cointreau, Commissario? » gli chiese guardandolo dritto negli occhi, con tono di sfida. “Provaci, a dirmi di no” pensava.

«Nessun problema per la sigaretta. Per il Cointreau mi spiace, ma non ne abbiamo. Siamo in un ospedale, l’unica cosa che posso recuperarle è un po’ di etere. Mi spiace, signora Del Bono. Queste ore devono essere terribili per lei. »

Il Commissario voleva arrivare al dunque. Caterina si sedette, prese una sigaretta dal pacchetto del Commissario, l’accese e lo guardò negli occhi.

« La dottoressa Giordano le ha parlato, mi ha detto... le ha raccontato quello che è successo ad Anita.» iniziò il Commissario.
«Sì, Commissario. Avete scoperto qualcosa? Mio marito sta rientrando, vorrebbe essere aggiornato. Sarebbe molto irritato se arrivasse qui e voi non aveste ancora scoperto nulla.»
«Stiamo facendo il possibile. Per ora sappiamo solo le cause della morte, ma non abbiamo idea di chi le abbia fatto questo. Lei cosa mi dice? »
«Io l’ho lasciata a danza. Alla solita ora. Poi sono tornata a casa e alle cinque e mezza circa mi hanno chiamato dall’ospedale. Non so altro... »
«A che ora l’ha lasciata?»

Caterina iniziò a volare per la camera con lo sguardo. Non si aspettava quelle domande e la sua mente navigava ancora nel buio su ciò che aveva fatto il pomeriggio.
«Ha lezione alle tre. Minuto più... minuto meno... Non ricordo. Eravamo in ritardo, come al solito, perchè lei impiega sempre un mucchio di tempo per prepararsi. L’ho lasciata davanti all’ingresso della scuola. Poi sono andata via. » Mentì Caterina e sentì gli occhi dell’uomo fissi su di lei, nello stesso istante in cui ebbe finito di parlare.

«Non ha aspettato che entrasse, dunque? » le chiese l’uomo e Caterina sentì quasi un rimprovero nella sua voce. “Una brava madre aspetta che la figlia entri... o l’accompagna direttamente dentro, non la sbatte fuori dall’auto per scappare dall’amante in fretta in furia come te, sgualdrina” si disse, cercando di celare l’emozione che le stava nascendo dentro.

«No, avevo fretta. »
«Ma non doveva tornare a casa? Cosa aveva da fare? »
«Mi scusi? Ma è un interrogatorio? Devo chiamare un avvocato? » chiese risentita Caterina.
«Stiamo solo cercando di capirci qualcosa in questa brutta storia, signora. Se non intende collaborare nessun problema, ma certo non mi aspettavo questo atteggiamento da una madre che ha appena perso sua figlia in questo modo. »
«Mi scusi... è che avevo da fare a casa. Dovevo fare un paio di telefonate per un lavoro che sto portando avanti, avevo fretta e oggi... no, non ho aspettato. »
«E sarebbe tornata a prenderla... »
«Alle sei, sei e mezza. Più o meno. Finisce danza alle sei, ma poi fa la doccia e prima delle sei e mezza non esce... » Pensò un attimo e si corresse:  «…usciva.  »
«Ha qualche sospetto su chi possa essere stato? »
«No, io... no. Mio Dio, era una bambina di dieci anni... »
«Vorrei si focalizzasse sul tragitto da casa alla scuola di danza e sul momento in cui l’ha lasciata... particolari insignificanti ci potrebbero essere utili. Ricorda qualcosa? »
«Nulla, tutto come al solito. »

Caterina iniziava ad innervosirsi e nel frattempo cercava un barlume nella sua coscienza, una immagine piccola che potesse aiutarla, una parola, una frase, un rumore che illuminasse il buio totale di quelle ore.

«E’ sicura signora? Guardi che potrebbe essere importante. Proviamo a ricostruire da quando lei è uscita di casa. Che ora era? »
«Non lo so, glielo ho detto. Poco prima delle tre, non ricordo. » “Dio mio, quando finisce?”
«E’ uscita prima lei? Ha tirato fuori la macchina ed ha aspettato Anita, oppure è uscita prima Anita e poi siete andate insieme alla macchina? Dove si trovava la macchina? »
“Dio mio, quante domande, quante domande” «Ecco... sono uscita io, ho lasciato le chiavi ad Anita e le ho detto di chiudere... »
«Fate sempre così? »
«Sì, quando siamo in ritardo... Io tiro fuori dal box l’auto e lei chiude casa e mi raggiunge. »
«Quando ha tirato fuori l’auto ha notato qualcuno in giro? »
«No, nessuno. A quell’ora il viale di casa è abbastanza deserto. »
«E’ una bella giornata. Strano che non ci fossero bambini a giocare fuori. Conosco la zona, ci sono molti parchi, possibile che non ci fossero nemmeno mamme o bambini in giro? »
«Non lo so... non ricordo... »
«E Anita è salita in macchina, giusto? »
«Ssì, è salita in macchina. »
«Come era vestita? »
«Aveva il tutù, i capelli tirati in su... »
«Portava con sé una borsa? »
«No nulla... »
«Ma non ha detto che faceva la doccia? »
«Ssi, ssì, aveva la borsa, ssì »
«Non abbiamo trovato nessuna borsa nè nella scuola, nè sul luogo dove è stata ritrovata. Cosa conteneva la borsa? »
«Eh... l’accappatoio, l’occorrente per la doccia... »
«E’ sicura che l’avesse con sé e non l’avesse lasciata in macchina? »
«Non ricordo... »
«Ma una madre controlla, giusto?, se la figlia ha tutto, quando la lascia... »
«A... avevo fretta. Avevo fretta e non ho controllato. »
«Aveva fretta, quindi l’ha lasciata lì senza accompagnarla dentro e non ha controllato se avesse o meno la borsa. E’ così? »
«Sì, è così. »
«E l’ha salutata. »
«Ssì, mi scusi, dove vuole arrivare? »
«Signora Del Bono, qualcuno l’ha vista litigare con sua figlia davanti alla scuola. Ci hanno detto che Anita non voleva scendere dalla macchina e piangeva. Allora lei è scesa e l’ha tirata fuori dall’auto, trascinandola verso l’ingresso. Ci vuole spiegare cosa è successo esattamente tra lei e sua figlia? »
«Io... posso avere del Cointreau, per favore? »
«Signora, mi spiace. Risponda. »
«Un solo bicchiere... » implorò.
«Risponda, per favore. » l’incalzò l’uomo.
«Non ricordo! » urlò Caterina. «Non ricordo nulla. Ero completamente ubriaca e non ricordo nulla. Ricordo solo che è entrata in auto e poi non ricordo più nulla. »
«Lei non è andata a casa subito. L’hanno vista rientrare alle cinque del pomeriggio. Cosa ha fatto dalle tre alle cinque? »
«Mio Dio, mi state accusando di aver ucciso mia figlia, Commissario? »
«Non la stiamo accusando di nulla. » Si fermò un secondo.Un fottuto secondo.Poi continuò: «…Per ora. Mi può dire dov’è stata dopo aver lasciato Anita? »
«Commissario, ero ubriaca. Non ricordo nulla. Mi faccia andare a casa. La prego. »

Il Commissario la guardò. Caterina sentì su di sé la sua pietà, e si alzò, desiderosa di uscire da quel buco di stanza dove quell’uomo l’aveva denudata del suo segreto più umiliante.
«Signora Del Bono, se dopo aver riposato ricordasse qualcosa, la prego di chiamarmi subito, a qualsiasi ora. » le disse il Commissario, consegnandole il suo biglietto da visita.

Caterina uscì dall’ospedale, accese una sigaretta e tirò una boccata dietro l’altra finchè non la finì. Gettò a terra il mozzicone, spegnendolo con la punta della scarpa e si infilò nel primo taxi libero. Appena a casa si precipitò in camera da letto, entrò nella cabina armadio e rovistò dietro al mobile delle scarpe. Afferrò una bottiglia di Cointreau e scese in sala. Si sedette sul divano e, come in un rituale religioso, svitò lentamente il tappo, sentì il profumo solleticarle le narici e appoggiò le labbra al collo della bottiglia, appoggiando lentamente la schiena alla spalliera del divano. Sollevò piano la bottiglia. Quando il liquido iniziò a scenderle lungo la gola, sentì un brivido correrle lungo la schiena. Rimase attaccata al freddo vetro, lasciando che il liquore le scendesse nello stomaco. Poteva sentirne il calore avvilupparle le interiora. Quindi si stese, e si addormentò.

La bottiglia le scivolò lentamente di mano, depositandosi per terra.
Qualche goccia del liquore bianco e profumato si depose sul pavimento, poi si fermò.
Caterina ne aveva bevuto a sufficienza, perchè il liquido rimasto potesse, in quella posizione, rimanere all’interno della bottiglia.

Capitolo 3

«Caterina, svegliati.»

La voce possente di Filippo la scosse dal sonno profondo in cui era rimasta tramortita.
«Perchè non sei in ospedale? Dove è Anita? Ho provato a chiamarti un sacco di volte, dovevo immaginarlo che eri di nuovo a ubriacarti. Dove è Anita?»

L’uomo l’aveva tirata su a forza, ma le sue gambe non reggevano e la sua testa ciondolava da destra a sinistra. Il sonno faceva il resto. Caterina era tra le braccia di Filippo e non rispondeva.

«Dio mio, in che stato sei ridotta...»

Filippo la trascinò su per le scale, la spogliò e la infilò nella vasca. Quindi aprì il rubinetto dell’acqua fredda ed il contatto con l’acqua ghiacciata fu una scossa per la pelle di Caterina.
Aprì gli occhi nel terrore. Non capiva nè dove fosse nè cosa stesse succedendo ed infine vide gli occhid del marito, sprezzanti, che la giudicavano. Si era seduto sul water e la guardava, nuda, sotto l’acqua fredda, mentre cercava di fermarla, alzando la mano verso quella che pensava fosse la direzione del rubinetto.

«Caterina, che cazzo è successo? Dove è Anita?»

Caterina lo guardava e non parlava. Non sapeva come dirglielo, nè aveva la forza per parlare. Il fatto che Caterina lo guardasse e rimanesse in silenzio lo irritò. Filippo si alzò, la prese con forza e la trascinò fuori dalla vasca. La portò in camera da letto e la spinse a forza sul materasso. Caterina lo guardava terrorizzata. Non riusciva ad immaginare di cosa potesse essere capace quell’uomo, in quel momento.

«E’ mia figlia, capisci? Anita è mia figlia? Vuoi dirmi che è successo?»

Caterina provò ad aprire la bocca, si sforzò di emettere fiato, ma aveva bisogno di bere per riprendersi. Ogni poro della sua pelle desiderava quel goccio di alcool che era sicura l’avrebbe rimessa in sesto e le avrebbe consentito di parlare.

«Caterina, ti prego. Dimmi dov’è. Poi ti lascio in pace.»

«E’ mm... morta.»
Le parole le erano sgorgate fuori più per paura, che per pietà verso quell’uomo disperato che aveva di fronte. Lo vide raggerlarsi, guardarla impietrito e fermarsi davanti a lei, immobile, come una statua di ghiaccio. I muscoli della faccia tesi, gli occhi che scintillavano fuoco, le mani strette in un pugno che temeva potesse sfogarsi contro di lei.

Quando riprese il controllo di se stesso, Filippo le chiese:
«Dov’è?»
«In oo... ospedale. Al Fatebenefratelli.»

Lo vide uscire dalla stanza e solo allora il suo corpo si rilassò. Iniziò a sentire freddo, la pelle bagnata le si intirizzì addosso. Si rese conto di essere nuda. Si rese conto di essere debole. Si rese conto di essere fragile. Ma non riusciva a piangere. Non riusciva a muoversi e i denti iniziarono a batterle in bocca senza che potesse controllarli. Il petto le sussultava senza tregua. Iniziò a piangere, sempre immobile, nuda sul letto, impotente verso se stessa, inutile verso il mondo.

Chiuse gli occhi e l’immagine le si compose davanti, colore dopo colore.

Vide Anita, ferma in macchina che si rifiutava di scendere. Non aveva preso le scarpe. Nella fretta se l’era dimenticate a casa. “Voglio tornare a casa” urlava. “Voglio tornare a casa. Da quello ci vai un’altra volta. Portami a casa, sennò dico tutto a papà”. Anita sapeva. Dunque Anita sapeva di lei e di Giorgio. Da quanto tempo sapeva? Da quanto tempo racchiudeva quel segreto nel piccolo cuore? Ma non poteva dire nulla a Filippo. Filippo l’avrebbe cacciata via di casa, così come l’aveva accolta quando era sola e le aveva regalato una famiglia, una casa ed un lavoro. Quella piccola strega non poteva rovinare tutto. No. Non poteva. Era scesa dalla macchina, aveva aperto la portiera posteriore e le aveva urlato che per quella volta avrebbe fatto senza. Che lei era stufa delle sue piccole prepotenze. Che era solo una bambina cattiva. Che avrebbe distrutto la sua vita se avesse detto qualcosa a Filippo. Che lei aveva bisogno di Giorgio, sì, le aveva detto proprio così. Che aveva bisogno di Giorgio perchè lui la faceva sentire desiderata e amata, non come Filippo, che la trattava come un soprammobile da mostrare alle cene con gli amici, che le imponeva di tirar su una figlia che era stata viziata dal primo giorno che era nata, che le imponeva la presenza di quella streghetta con il viso della moglie morta, che per lei era un incubo, qualcuno al quale le si chiedeva di somigliare, ma che sapeva non avrebbe mai eguagliato. Ma lei era di tutt’altra pasta, a lei piaceva la passione, piaceva sentirsi viva, non un soprammobile e Giorgio la faceva sentire viva. “Sgualdrinella” le aveva detto. L’aveva tirata giù dalla macchina e l’aveva trascinata per il braccio fino all’ingresso della scuola e poichè lei continuava a piangere e a urlare, le aveva dato uno schiaffo. Ma Anita era caduta, su uno scalino, aveva battuto la testa. E non rispondeva più. E lei era ubriaca e non se n’era resa conto subito. Pensava che le stesse semplicemente facendo perdere altro tempo. E lei voleva andare da Giorgio, tra le sue braccia. Non voleva stare lì. Allora l’aveva presa e l’aveva trascinata sul retro. Non vedeva nessuno in giro. Non se ne sarebbe accorto nessuno e quando fosse andata via, allora Anita si sarebbe alzata e sarebbe entrata alla scuola di danza. Era bastarda dentro quella ragazzina. Faceva sempre così, anche al nido, anche all’asilo. L’accompagnava e lei piangeva e poi appena usciva la vedeva dalla finestra che rideva con le amiche.

E all’improvviso il suo viso sullo scalino le tornò in mente. E solo allora si rese conto.
«Mio Dio... io... io l’ho... io l’ho uccisa...»

Rimase a lungo, impietrita di fronte a quel pensiero e a quel ricordo. Non sentiva più freddo. Non battevano più i suoi denti. Non sentiva più nemmeno un centimetro della sua pelle. Rimase lì almeno due ore. Ferma a guardare il soffitto, pensando a come fosse diverso da quello dell’ospedale. Questo che aveva davanti era ben pitturato, colorato di azzurro, come il cielo. Sapeva ancora di pittura, poteva sentirne ancora il profumo penetrarle le narici e allargarle il polmoni. Ricordava il giorno che erano venuti i pittori. Era allegra. Aveva scelto la tinta ed era rimasta a guardarli, mentre mano dopo mano le coloravano il cielo che di notte avrebbe dormito sopra di lei.

Fu in un attimo, quando il carillon dalla camera di Anita prese a suonare il mezzogiorno, che Caterina si rese conto del tempo passato. Filippo non era rientrato. Era sola. Sola con la sua ossessione. Sola con il volto di Anita spento da quello schiaffo. Ma non aveva più paura, oramai.

Si alzò, si fece una doccia, si rassettò i capelli e si vestì. Ordinò il bagno ed il letto e scese. Quando vide il divano disfatto e la bottiglia di Cointreau per terra, ebbe l’istinto di finirne il contenuto, ma si impose di non farlo. No! Non in quel momento. Rassettò il divano, raccolse la bottiglia ed asciugò con uno strofinaccio preso dalla cucina il liquido riverso sul pavimento. Sistemò tutto, andò in cucina, gettò la bottiglia, mise a posto lo strofinaccio e si lavò le mani.

Quindi si recò nello studio di Filippo. Si guardò in giro e si soffermò sulle foto. Guardò il suo viso da sposa ragazzina, la sua mano in quella di Filippo. Quante speranze. Quanta gioia. Vide la piccola Anita tra di loro, felice.

Si mosse lentamente nella stanza, guardando i libri e i soprammobili del marito. Si meravigliò quasi di non trovarsi tra di loro, ferma, statua immobile cristallizzata e sempre perfetta. No, lei non era nè perfetta, nè immobile. Sentiva dentro di sé la maledizione di una passione che l’aveva tormentata a lungo, subito dopo il matrimonio, quando aveva iniziato a sentirsi in gabbia, quando restare tra quelle mura le era cominciato a sembrare peggio di una prigionia. Aveva iniziato a disprezzare Filippo, a non sopportare la vicinanza di Anita, che man mano che cresceva somigliava sempre di più a sua madre, ricordandole così la perfezione, alla quale lei non sarebbe mai potuta arrivare. Sarebbe mai riuscita a dimenticare? Avrebbe mai trovato l’oblio?

Si avvicinò alla scrivania. Sfiorò il legno lucido e perfetto e si sentì sporca e imperfetta. Tirò l’anello del cassetto, con lo sguardo fiero e alto, e affondò la mano. Afferrò il freddo metallo della pistola, la caricò e la puntò alla tempia.

Mentre la canna fredda le ghiacciava la tempia, guardò verso la finestra, in un punto del cielo indefinito, dove sapeva, con certezza, che una donna rideva di lei. E istintivamente portò lo sguardo verso il basso, oltre il pavimento e sentì le fiamme dell’inferno che l’avrebbero avvolta, per sempre. Sentì il suo dito sul grilletto. Poi si sciolse nell’oblio.

“L'inferno non ha limiti e non è circoscritto | In un unico luogo; perché dov'è l'inferno, lì noi sempre saremo. „ Christopher Marlowe

1 commento:

  1. E' un continuo crescendo...ogni nuovo lavoro riserva emozioni e piaceri più intensi e completi. Graffia dentro e lascia il segno...Tanto da non vedere l'ora di leggerne ancora.

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