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7 ott 2012

Castelli di rabbia - Alessandro Baricco


La strana intimità di quelle due rotaie. La certezza di non incontrarsi mai. L’ostinazione con cui continuano a corrersi di fianco. Gli ricorda qualcosa, tutto questo.

Dicono di lui...

Quando un giorno qualcuno scriverà una storia della letteratura italiana di fine secolo, e come sempre accade con il passare del tempo saranno sopite le polemiche, estinte le piccinerie e le acrimonie, perdonate le immodestie, svaporate le invidie che si agitano nel mondo delle lettere, quel qualcuno dovrebbe accorgersi che il torinese Alessandro Baricco ha squarciato come un fulmine il cielo stantio della cultura italiana dell’ultimo decennio del ’900, e tributargli il dovuto riconoscimento, fosse solo per aver scritto un libro come Castelli di rabbia, indipendentemente dalla sua produzione successiva.


Di solito Baricco lo si ama o lo si odia, non ci sono vie di mezzo: c’è chi stravede per la sua letteratura e chi la disprezza, chi lo ritiene un divo delle lettere e chi lo relega nella paccottiglia della pseudoletteratura postmoderna fatta di niente. Qui giocano molto i sentimenti, le visioni del mondo, i paesaggi delle proprie emozioni, e anche parecchia supponenza: ho sentito affermare che la scrittura di Baricco è insulsa, ma chi lo diceva come metro di paragone letterario poteva vantare, sì e no, appena le antologie scolastiche; altri dotti sedotti dallo stile accattivante si sgolano in peana celebrativi del più originale scrittore italiano, senza aver mai letto, per esempio, Marinetti o Gadda. È qualcosa che si agita in pancia, insomma, a dire l’ultima parola, a decretare il podio nell’Olimpo degli Scrittori. Per la gente di mestiere ci sono altre implicazioni, non sempre limpide…

[...]Durante un’intervista, il vanitoso (a ragion veduta) e peraltro ancora ingenuo Alessandro Baricco, alla domanda (poco originale): perché hai scritto questo libro, se ne esce candidamente con questa risposta (molto originale): perché era il libro che volevo leggere e non trovavo da nessuna parte. Complimenti.

Eppure, immediata antipatia a parte, questa risposta contiene già tutta la cifra dell’autore: Baricco viaggia a frequenze letterarie piuttosto alte per la media italiana, comunica l’idea che la letteratura dovrebbe essere qualcosa di travolgente e appassionante, un incanto, una materia da sogno come sapevano lavorarla Flaubert, Salinger, Gadda, Dickens, Conrad, Céline, tanto per citare alcuni dei suoi autori preferiti, e tuttavia nuova, mai fatta prima, svelando anche il dato, indiscutibile, che una simile letteratura nell’Italia di allora non c’è (e forse non c’è nemmeno oggi). All’epoca ciò che causò un certo fastidio non fu tanto la superbia di tale atteggiamento (peraltro piuttosto diffusa nel mondo delle lettere) quanto il fatto che un intero modo di scrivere e di interpretare la letteratura venisse colato a picco da un esordiente di trentatre anni, un signor nessuno a quei tempi, con un romanzo inimitabile che raggiunse subito la cinquina finalista del Premio Campiello 1991.

Tante cose che si dicono sul conto di Baricco, alcune vere e altre pure malignità, sul fatto che lui sia un animale da palcoscenico, che sia diventato qualcuno solo grazie alla televisione, che sia un abile affabulatore, più un comunicatore che uno scrittore, e così via, rapportate all’epoca non reggono: niente tv, qualcosa alla radio, qualche articolo di critica musicale, uno studio difficilissimo (per chi non ha dimestichezza con il linguaggio filosofico e con le architetture musicali) su Rossini, e perciò passato inosservato. Tutto qui.

Castelli di rabbia, scritto presumibilmente tra il 1988 e il 1990 (calcolo mio e del tutto opinabile), è talmente innovativo che l’editore inizialmente ha qualche dubbio sull’opportunità commerciale del testo: il libro è bello, gli dice, ma lo leggeranno pochi. Se Baricco fosse stato un giovane di belle speranze, che senza nessun aggancio spedisce per posta il suo manoscritto all’editore aspettando fiducioso una risposta, avremmo corso il rischio di non conoscere mai la sua opera. Ma Baricco l’aggancio ce l’ha. Cito da un’intervista rilasciata al Corriere della Sera nel 2003: “A decidere di pubblicare Castelli di rabbia fu Gianandrea Piccioli, ma il mio capo in Rizzoli era Giovanni Ungarelli (…)”. Può avere sbagliato termine (difficile però, conoscendolo), ma uno che parla di un “suo capo”, mi vien da pensare, con quella persona ha già un rapporto di lavoro (editor? correttore di bozze?). Comunque sia, Baricco conosce Ungarelli e Ungarelli conosce Baricco, e in Rizzoli lo stimano al punto di decidere la pubblicazione del romanzo nonostante tutto: improvviso e inaspettato successo, di critica e di pubblico.

Eppure Castelli di rabbia non è il libro di maggior successo di Alessandro Baricco. Da una statistica, per quanto datata ma che racchiude i risultati raggiunti in un decennio, leggo che mentre Oceano mare è arrivato a 650.000 copie vendute, Seta a 730.000, Castelli di rabbia si attesta solo (solo…) su 465.000 copie (dati del 2002). Fatte salve nuove e più aggiornate statistiche commerciali, le cifre possono suggerire qualche indizio sulla successiva dinamica delle opere di Baricco, sempre di valore ma in qualche modo addolcite, rettificate, smussate di quelle asperità stilistiche e strutturali, ma anche di quelle esagerazioni dovute allo sperimentalismo entusiasta di un giovane scrittore, che possono intimorire o irritare i lettori. Che Alessandro Baricco sia particolarmente attento ai gusti e alle aspettative del pubblico, lo si può ricavare anche da un suo Barnum, dove a proposito di “cannibali” e affini, dice più o meno: se il mondo delle lettere diventerà questo, ci adatteremo, però di notte giù in cantina a leggere Melville (sarebbe interessante approfondire il rapporto nostalgia del passato-curiosità del nuovo nella poetica di Baricco).

E dunque, Castelli di rabbia. Leggere questo romanzo è una vera soddisfazione intellettuale difficilmente comparabile. La preziosità e la freschezza della scrittura ti prende e non ti porta propriamente da nessuna parte, nel senso che ti fa viaggiare in un paesaggio multiforme dove vedi tutto senza mai chiederti dove tu stia andando. In altre parole il romanzo, è questa una delle sue caratteristiche innovative, non ha un fine e nemmeno una fine propriamente detta (c’è chi sostiene che Baricco sbaglia tutti i finali dei suoi romanzi: in realtà credo che quel tipo di finale/non finale sia voluto, come le frasi senza punto e incompiute che si trovano nelle sue pagine), non è teleologico, non ci vuole dire niente di definitivo. Immaginate che anziché narrare una storia secondo la sua linearità naturale, si trascuri la sequenza logica, cronologica e teleologica dei fatti e si racconti del tizio che fabbricò un oggetto, delle implicazioni esistenziali e filosofiche relative al fatto che siano state inventate certe macchine, con qualche digressione storica stile monografia, si lascino irrompere sconosciuti (non-personaggi) che raccontano qualcos’altro, si inseriscano battute spiritose, pezzi di comicità, dialoghi spezzati, dialoghi spiazzanti, monologhi non interpellati, ripetizioni di ritmo, il silenzio abbagliante di spazi e pagine bianche, aforismi incongrui, voci imperfette, materiali eterogenei, anche grafici, che si inseguono fino a cadere là dove devono cadere, svelando una traccia, un indizio, un’ipotesi, o forse soltanto l’illusione di aver compreso una direzione, per poi virare e spingersi altrove, mantenendo tuttavia una rotta invisibile, tale per cui la trama della fatalità letteraria c’è ma non si vede, e tutto è soltanto paesaggio. Ecco, Castelli di rabbia è più o meno così.

Il collante di questa polifonia o polilogia è il linguaggio, la voce narrante dell’autore che uniforma nell’espressione il tutto, però attraverso una pluralità di registri formali non caratterizzanti i personaggi, peraltro allegorici (cfr. Alessandro Scarsella, Alessandro Baricco): l’analfabeta si esprime come l’istruito, lo straniero come il nativo, ma lo fa ora con il registro lirico, ora con quello aulico, ora con quello volgare, ora con quello teatrale, senza preavviso, senza cioè introdurre il contesto del dialogo e senza finalità descrittiva o esplicativa della narrazione.

Baricco non ha inventato i singoli componenti formali dell’opera (rinvenibili separatamente in una vasta gamma di autori, soprattutto stranieri, dalla pagina bianca di Sterne all’onomastica astrusa alla Dickens, fino a certe asintatticità di Céline e alla famosa barra / che ricorda Derrida, benché Baricco la usi come ulteriore e nuovo segno di punteggiatura – di partitura musicale quasi – e non come distinzione-rivelazione di disseminazione semantica), ha inventato un nuovo modo di assemblarli, e qui sta la sua genialità creativa, la capacità di rievocare atmosfere ottocentesche ricostruite con il montaggio di un film americano (cfr. Fernanda Pivano, L’ultima parola: America, prefazione a Castelli di rabbia) e di emozionare il lettore come nessun revival ottocentesco e nessuna americanata potrebbero mai fare.

Qui c’è tanto talento, passione e sapienza: non so quantificare il volume di libri letti da Baricco prima di mettersi a scrivere, certo che la sua laurea in Filosofia Estetica con tesi su Adorno deve avergli fornito parecchio materiale di indagine, vale a dire tecniche e trucchi del mestiere.

Eppure le caratteristiche che fanno di Castelli di rabbia una novità preziosa, una vetta di abilità e di sofisticata talentuosità nella palude degli anni Ottanta, sono le stesse che leggono e interpretano il cambiamento della cultura, determinando la morte del letterario consolidato nella tradizione italiana e spalancando le porte ad una nuova narrativa (postmoderna?)[...]
Dopo un romanzo come questo, nulla, in letteratura, potrà più essere come prima.

Mauro Del Bianco

E’ strano come alle volte non ci sia proprio nulla da dire...

Di Baricco ho conosciuto prima di tutto le frasi di Castelli di rabbia, quelle che ti arrivano come un pugno in faccia, ti sconquassano lo stomaco e senti dentro di te, tue parole per le tue emozioni. 
Ammetto di avere comprato questo libro essenzialmente per questo motivo e le ho ritrovate tutte e qualcuna in più. 
Ma il contesto di quelle frasi era tutt’altro rispetto a quello che avevo immaginato: la storia quasi buffa di un uomo che insegue il sogno di far viaggiare una locomotiva per duecento chilometri... 
Eppure queste pagine mi hanno lasciato qualcosa di indefinibile dentro, una strana dolcezza, una strana disillusione, l’idea di un amore diverso e la certezza che l’essere normali, in fondo, non è sinonimo di infelicità. 
Lo stile è altrettanto eccezionale in alcuni punti, sorprende e ti schiaffeggia anch’esso, forse più dei contenuti.
“Di solito Baricco lo si ama o lo si odia, non ci sono vie di mezzo”? A me Baricco è piaciuto.

Castelli di rabbia...

“Un giorno Dio disegnò la bocca di Jun Rail. E’ lì che gli venne quell’idea stramba del peccato.”
Così fa il destino: potrebbe filar via invisibile e invece brucia dietro di sé, qua e là, alcuni istanti, fra i mille di una vita. Nella notte del ricordo, ardono quelli, disegnando la via di fuga della sorte. Fuochi solitari, buoni per darsi una ragione, una qualsiasi.

Perchè è così che ti frega la vita. Ti piglia quando hai ancora l’anima addormentata e ti semina dentro un’immagine, o un odore, o un suono che poi non te lo togli più. E quella lì era la felicità. Lo scopri dopo, quand’è troppo tardi. E già sei, per sempre, un esule: a migliaia di chilometri da quella immagine, da quel suono, da quell’odore. Alla deriva.

Semplicemente, senza che un solo angolo del suo volto si muovesse, e assolutamente in silenzio, iniziò a piangere, in quel modo che è un modo bellissimo, un segreto di pochi, piangono solo con gli occhi, come bicchieri pieni fino all’orlo di tristezza, e impassibili mentre quella goccia di troppo alla fine li vince e scivola giù dai bordi, seguita poi da mille altre, e immobili se ne stanno lì mentre gli cola addosso la loro minuta disfatta. Così piangeva Jun.

C’è la luce, tutt’intorno, della sera. Il sole ti piglia di fianco, quand’è così, un modo più gentile, si coricano le ombre a dismisura, è un modo che ha dentro qualcosa di affettuoso – ciò forse spiega com’è che, in generale, sia più facile pensarsi buoni, la sera – quand’invece a mezzogiorno si potrebbe anche ammazzare o peggio: pensare di ammazzare, o peggio: accorgersi che si potrebbe anche essere capaci di pensare di ammazzare. O peggio: farsi ammazzare.

I desideri sono la cosa più importante che abbiamo e non si può prenderli in giro più di tanto. Così, alle volte, vale la pena di non dormire pur di stare dietro a un proprio desiderio. Si fa la schifezza e poi la si paga. E solo questo è davvero importante: che quando arriva il momento di pagare uno non pensi di scappare e stia lì, dignitosamente, a pagare. Questo è l’importante.
Scrivere una cosa significa possederla – illusione verso cui inclina una non significante parte di umanità. Pensò a centinaia di pagine zeppe di parole e sentì che il mondo gli faceva molto meno paura.

Il sesso cancella fette di vita che uno nemmeno si immagina. Sarà anche stupido, ma la gente si stringe con quello strano furore un po’ panico e la vita ne esce stropicciata come un bigliettino stretto in un pugno, nascosto con una mossa nervosa di paura. Un po’ per caso, un po’ per fortuna, spariscono nelle pieghe di quella vita appallottolata mozziconi di tempo dolorosi, o vigliacchi, o mai capiti.

Così mi gira l’anima dentro, triturandosi gli attimi e gli anni – perversa rotazione onnipotente – chissà se c’è un modo per fermarla, chissà se è fermarla che si deve – chissà se è proprio scritto che debba fare male così. [...] Venga qualcuno e silenziosamente la fermi, l’ammutolisca in un angolo di vittoriosa quiete, la sciolga per sempre nel fango di una vita qualunque da scontare in un tempo senza ormai più ore – o la faccia finita in un attimo senza memoria – in un attimo – la faccia finita.

Un libro aperto è sempre la certificazione della presenza di un vile – gli occhi inchiodati su quelle righe per non farsi rubare lo sguardo dal bruciore del mondo. [...] La più raffinata delle ritirate, questa è la verità. Una sporcheria. Però: dolcissima. [...] Chi può capire qualcosa della dolcezza se non ha mai chinato la propria vita, tutta quanta, sulla prima riga della prima pagina di un libro? No, quella è la sola e più dolce custodia di ogni paura – un libro che inizia.
Gli saliva dentro una tristezza antica e sapeva che non doveva lasciarla arrivare dove avrebbe cominciato a far male davvero.

E’ strano come alle volte non ci sia proprio nulla da dire...

Il fatto è che certe volte si ha dentro quella stanchezza brutta, così, passa la voglia di continuare, di resistere... viene quella confusione in testa, e quella stanchezza... così non è bello, poi, quando arriva la notte, non è proprio il momento per starsene lì nel buio, da soli... proprio non ci vorrebbe quella storia della notte...

Quel che di bello c’è nella vita è sempre un segreto... per me è stato così... le cose che si sanno sono le cose normali, o le cose brutte, ma poi ci sono dei segreti, ed è lì che si va a nascondere la felicità.

La sera, come tutte le sere, venne la sera. Non c’è niente da fare: quella è una cosa che non guarda in faccia nessuno. Succede e basta. Non importa che razza di giorno arriva a spegnere. Magari era stato un giorno eccezionale, ma non cambia nulla. Arriva e lo spegne. Amen. Così anche quella sera, come tutte le sere, venne la sera.

Crepita, la vita, brucia istanti feroci e negli occhi passa anche solo a venti metri da lì, non è che un’immagine come un’altra, senza suono e senza storia.

Comunque non sarebbe successo se uscendo non fosse passato proprio davanti a quello specchio, così che dovette fermarsi e tornare indietro, per mettersi davanti allo specchio, immobile. E guardarsi.

Lascia che bruci, quella candela, non spegnerla, per favore. Se mi vuoi bene non spegnerla.

Però... Però quando la gente ti dirà che hai sbagliato... e avrai errori dappertutto dietro la schiena, fottitene. Ricordatene. Devi fottertene. Tutte le bocce di cristallo che avrai rotto erano solo vita....non sono quelli gli errori..... quella è vita... e la vita vera magari è proprio quella che si spacca, quella vita su cento che alla fine si spacca..... io questo l'ho capito, che il mondo è pieno di gente che gira con in tasca le sue piccole biglie di vetro....le sue piccole tristi biglie infrangibili..... e allora tu non smetterla mai di soffiare nelle tue sfere di cristallo..... sono belle, a me è piaciuto guardarle, per tutto il tempo che ti sono stato vicino... ci si vede dentro tanta di quella roba..... è una cosa che ti mette l'allegria addosso... non smetterla mai..... e se un giorno scoppieranno anche quella sarà vita, a modo suo..... meravigliosa vita.

Ci sono navi che si sono incagliate nei posti più assurdi. Una vita si può ben incagliare in una faccia qualunque.

Dev’essere così, questa cosa dei figli, pensò Horeau: nascono con dentro quello che, nei padri, la vita ha lasciato a metà.

La strana intimità di quelle due rotaie. La certezza di non incontrarsi mai. L’ostinazione con cui continuano a corrersi di fianco. Gli ricorda qualcosa, tutto questo.

E’ sempre qualche meraviglioso silenzio che porge alla vita il minuscolo o enorme boato di ciò che poi diventerà inamovibile ricordo. Così.

Alla fine c’è sempre un mare dove sfociare, per qualsiasi fiume.

Dove la vita brucia davvero la morte è niente – non c’è null’altro contro la morte – solo quello – far bruciare la vita davvero.

Ognuno ha il mondo che si merita. Io forse ho capito che il mio è questo qua. Ha di strano che è normale. Mai visto niente del genere, a Quinnipak. Ma forse proprio per questo, io ci sto bene. A Quinnipak si ha negli occhi l’infinito. Qui, quando proprio guardi lontano, guardi negli occhi di tuo figlio. Ed è diverso. Non so come fartelo capire, ma qui si vive al riparo. E non è una cosa spregevole. E’ bello. E poi chi l’ha detto che si deve proprio vivere allo scoperto, sempre sporti sul cornicione delle cose, a cercare l’impossibile, a spiare tutte le scappatoie per sgusciare via dalla realtà? E’ proprio obbligatorio essere eccezionali? Io non lo so. Ma mi tengo stretta questa vita mia e non mi vergogno di niente: nemmeno delle mie sovrascarpe. C’è una dignità immensa, nella gente, quando si porta addosso le proprie paure, senza barare, come medaglie della propria mediocrità. E io sono uno di quelli. Si guardava sempre l’infinito, a Quinnipak, insieme a te. Ma qui non c’è l’infinito. E così guardiamo le cose, e questo ci basta. Ogni tanto, nei momenti più impensati, siamo felici.

Accadono cose che sono domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde.

Addio Dann. Addio, piccolo signor Rail, che mi hai insegnato la vita. Avevi ragione tu: non siamo morti. Non è possibile morire vicino a te. [...] Adesso sono io che vado lontano. E non sarà vicino a te che morirò. Addio mio piccolo signore che sognavi i treni e sapevi dov’era l’infinito. Tutto quel che c’era io l’ho visto, guardando te. E sono stata ovunque, stando con te. E’ una cosa che non riuscirò a spiegare mai a nessuno. Ma è così. Me la porterò dietro, e sarà il mio segreto più bello. Addio, Dann. Non pensarmi se non ridendo. Addio.

Ma quando ti viene quella voglia pazzesca di piangere, che proprio ti strizza tutto, che non la riesci a fermare, allora non c'è verso di spiccicare una sola parola, non esce più niente, ti torna tutto indietro, tutto dentro, ingoiato da quei dannati singhiozzi, naufragato nel silenzio di quelle stupide lacrime. Maledizione. Con tutto quello che uno vorrebbe dire... e invece niente, non esce fuori niente. Si può essere fatti peggio di così?

Per uno che sta andando in galera, vedere una freccia che porta altrove dev’essere come guardare in faccia l’infinito.

Lo stile

DUE - Cap.4

Un uomo, come un pendolo, che corre instancabile avanti e indietro dalla casa alla strada.
Sotto il diluvio, un uomo, come un pendolo impazzito, corre avanti e indietro dalla casa alla strada.
Nella notte, sotto il diluvio, un uomo, come un pendolo impazzito, esce di corsa dalla sua casa, si ferma in mezzo alla strada, poi torna precipitosamente dentro casa, e di nuovo corre fuori, e di nuovo si scaracolla in casa, e sembra che non la smetterà mai.
Nella notte, sotto il diluvio, un uomo, come un pendolo impazzito e fradicio, esce di corsa dalla sua casa, si ferma in mezzo alla strada, insegue qualcosa nell'aria e nell'acqua tutt'intorno, poi torna precipitosamente dentro casa, e di nuovo corre fuori, e di nuovo si scaracolla in casa, e sembra che non la smetterà mai, come se fosse stregato dai rintocchi della campana che in quel momento violano il buio e si sciolgono nell'aria liquida dell'infinito acquazzone.
Undici rintocchi.
Uno sull'altro.
Lo stesso suono, per undici volte.
Ogni rintocco come se fosse l'unico.
Undici onde di suono.
E in mezzo un tempo innumerabile.
Undici.
Uno dopo l'altro.
Sassi di bronzo nell'acqua della notte.
Undici suoni impermeabili gettati nel marcio dellanotte.
Erano undici rintocchi, schioccati nel diluvio dallacampana che vigilava la notte.
Fu il primo - già il primo - a prendere a tradimento l'anima di Pekish, e a bruciarla.

TRE – Cap.2

(gli spazi sono voluti e sono molto più ampi nel libro. Questo brano occupa 6 pagine)

Adagio. Adagio come se stessi camminando su una ragnatela.



Adagio.



Come un tarlo.




Si continuava a chiedere se mai lo avrebbe perdonato.





621. Demoni. Angeli andati a male. Però bellissimi.

Il muschio. Ecco: il muschio.






Comunque non sarebbe successo se uscendo non fosse passato proprio davanti a quello specchio, così che dovette fermarsi e tornare indietro, per mettersi davanti allo specchio, immobile. E guardarsi.






...su per le labbra di Jun...







Era proprio di sera. Il sole, basso sulle colline, coricava le ombre a dismisura. E si mise a piovere, così, d'improvviso. Magia.






Gli scese giù l'angoscia nell'anima come un sorso di acquavite giù per la gola... impazzì tutto d'un fiato... non come quelli che lo fanno un po' per volta...









Lascia che bruci, quella candela, non spegnerla, per favore. Se mi vuoi bene non spegnerla.

Il signor Rail è partito. Il signor Rail tornerà.





Si ricordava tutto ma non il nome. Si ricordava anche il profumo che aveva. Ma il nome no.

... che se a uno glielo chiedessero, di che colore è il cristallo, questo vaso di cristallo ad esempio, di che colore è, e lui dovesse proprio rispondere, rispondere con il nome di un colore...

Ma quella era l'ultima frase del libro.






Una lettera che uno aspetta da anni e poi un giorno arriva.

E poi alla fine posare la testa sul cuscino per...

Corre, Pit, pieno di lacrime, corre a perdifiato, il ragazzino, gridando “Il vecchio Andersson, il vecchio Andersson”, grida e corre, pieno di lacrime.

Quando ti alzi e tutto il mondo è ghiacciato, e tutti gli alberi del mondo ghiacciati, e tutti i rami di tutti gli alberi del mondo ghiacciati.
Milioni di aghi di ghiaccio che filano la gelida coperta sotto cui poi...




L’ho sentito benissimo. Era un grido, quello.

TRE – Cap.2


Il vecchio Anderson morì con il cuore spaccato, quella notte stessa, mormorando una sola, esatta, parola: “Merda”.
  
con il cuore spaccato, quella notte stessa, mormorando una sola, esatta, parola: “Merda”.

quella notte stessa, mormorando una sola, esatta, parola: “Merda”.

 mormorando una sola, esatta, parola: “Merda”.

una sola, esatta, parola.

una sola.

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