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8 ott 2012

Lo spazio bianco - Valeria Parrella


«Il fatto è che mia figlia Irene stava morendo, o stava nascendo, non ho capito bene. [...] Non avevo mai conosciuto la sua presenza e ora mi toccava un’assenza che non sapevo riconoscere.»

Succede a volte che un imprevisto interrompa il corso normale della vita: un accidente si mette di traverso, e d'un tratto il tempo si biforca. Alla drammatica rapidità dell'istante si affianca un tempo diverso, dilatato e fermo: il tempo dell'attesa. «Io non sono buona ad aspettare, - dice Maria, la protagonista di questo romanzo. - Non sento curiosità nel dubbio, né fascino nella speranza. Aspettare senza sapere è stata la piú grande incapacità della mia vita».
Maria insegna italiano in una scuola serale di Napoli, legge Dante e Leopardi a giganteschi camionisti che faticano a infilarsi nei banchi.
Una sera, tornando a casa, un dolore rotondo e forte la precipita nella sala d'aspetto di un ospedale: «Quelli sono medici, signò, che vi possono rispondere?»
Narrata con una voce ribelle che pure sa trovare i toni dell'indulgenza, una storia che inizia come un destino di solitudine personale e piano piano si trasforma in un caldo coro di scoperte, volti e incontri. Tanto che a Maria sembra quasi che siano la vita e la città a farle da compagne.
Un libro bruciante, profondo, luminoso.

Dicono che...


Parliamo oggi di un bellissimo libro, lo spazio bianco di Valeria Parrella. Questo è il suo primo romanzo, sì, ma ciò non deve trarvi in inganno, non si tratta della sua opera d’esordio. Alle sue spalle la Parrella porta con se Mosca più balena (Minimum Fax, 2003, Premio Campiello opera prima), Per Grazia Ricevuta (Minimum fax, 2005, finalista Premio Strega, Premio Renato Fucini, Premio Zerilli-Marimò) e Il Verdetto (Bompiani, 2007). Ma torniamo al nostro libro, la penna giovane e dissacrante si sente (L’autrice è del 1974), ma le righe veloci da cui è composto non limitano affatto la sua profondità. 

Maria fa l’insegnante in una scuola serale dove convergono camionisti, donne ed uomini dell’est e tutti coloro che hanno bisogno della terza media. Una sera come le altre un dolore alla pancia la conduce al pronto soccorso dove, dovrà partorire. Sua figlia, Irene, è prematura di tre mesi, e comincerà ad essere nutrita con sondini e flebo. E’ così che Maria comincerà a vivere in una straziante attesa (di circa 40 giorni N.d.A.), come lei stesso dice: << Il fatto è che mia figlia stava morendo, o stava nascendo, non ho capito bene… >> . Ed in questo fluttuare, Maria conosce le altre madri nel reparto di terapia intensiva, tra donne accoltellate dal marito dopo il parto a donne che riescono ad introdurre segretamente cibarie nel reparto. Ed in questa agonia Maria continua ad occuparsi dei suoi studenti, sia tenendosi in contatto con Fabrizio, l’altro insegnante, sia andando lei stessa a lezione. 

Assistiamo ai suoi confronti con i dottori, a quel loro modo di rispondere alle domande con altre domande, e nell’aggressività di Maria riconosciamo quelle donne dalla scorza dura che forse solo Napoli può preparare. Napoli, che fa da sfondo, viene citata in poche pennellate, ma sono comunque piene di carattere, piene di quel valore che la città ha sempre negli scritti della Parrella. Il libro inizia con Maria in una condizione di solitudine, depressa, triste. Tuttavia in questo cammino conosce persone, e piano piano, è il suo stesso dolore a farsi portavoce di felicità, felicità che però è sempre finemente intesa, mai declamata stucchevolmente. 

Con gli eventi che travolgono Maria si intersecano i suoi ricordi, la sua infanzia, i suoi genitori, le sue esperienze, regina fra queste l’abbandono del padre di Irene, scappato appena saputo della gravidanza. 

Alla fine Irene uscirà dalla terapia intensiva, e il libro ci lascia solo immaginare come sarà dopo la vita di Maria. 

Tutto in questo romanzo è perfettamente bilanciato, la Parrella non scivola mai, si legge benissimo e ti tira dentro nella storia, te la fa vivere (tra l’altro pare che la stessa Parrella l’abbia vissuta davvero, la vicenda). 

Vi chiederete a cosa allude il titolo, beh, questo lo scoprirete voi quando lo leggerete, tra gli ultimissimi righi. Ho scoperto tra l’altro che proprio in questi mesi uscirà il film omonimo Lo Spazio Bianco proprio tratto dal romanzo. Ho visto che come attrice a interpretare Maria ci sarà Margherita Buy, c’era da aspettarselo, e vedremo alla regia Francesca Comencini e il film sarà prodotto da Domenico Procacci per Fandango, in collaborazione con la Rai e la Regione Campania.

Io...

Ero in ospedale quando ho letto questo libro. Tre ore: l’ho divorato. Guardavo in cagnesco i medici che mi si avvicinavano: «Quelli sono medici, signò, che vi possono rispondere?». E soprattutto mi immedesimavo in Maria, nelle sue sensazioni, nel suo dolore, nella sua rabbia. E’ stato facile, per una situazione simile personale che ho vissuto, purtroppo molto più dolorosa. Ma quella facilità ha fatto sì che le parole che leggevo potessero passare attraverso il filtro dell’esperienza, per giungere dritto dove nasce l’emozione. Non leggetelo se avete quarant’anni e siete in attesa di un figlio: può essere devastante.

Lo spazio bianco

Io leggevo. La testa si era esercitata così, a fidarsi solo di se stessa. E allora ritornava nell’equivoco di bastarsi da sola ogni volta che si sentiva tradita dalla realtà. Però stavolta non riuscivo a leggere: c’era una buca a ogni parola scritta bene, inciampavo nei righi di qualunque romanzo, con un’agitazione profonda.

Era un uomo elegante che mi era passato nella vita recitando frasi molto belle. E la bellezza si era poi rivelata essere l’unico valore che avevano. Tutto quello che avevamo costruito insieme, era stato uno specchio che rifletteva le nostre solitudini, quelle solitudini in cui ti ritrovi a quarant’anni, quando si è placata l’ansia di fare tutto, e si può cominciare a prendere fiato. Non era stato un grande amore, era stato solo distratto. E anche io, che ce ne ho messo di tempo per capirlo, per non telefonargli più, per vederlo andare via, piccolo uomo come era venuto.

Fosse stato un aborto avrei aspettato il raschiamento, fosse stata una bambina l’avrei tenuta in braccio. Io non avevo altre categorie a disposizione. [...] Non ho neppure capito bene se Irene mi mancava, la notte. Non avevo mai conosciuto la sua presenza e ora mi toccava un’assenza che non sapevo riconoscere. La cercavo in come me la sarei immaginata e non potevo. Non potevo guardare la parete della camera da letto e proiettarci l’immagine di una culla, finchè il suo unico spazio era dentro la terapia intensiva. Io non avevo immagini.

E Irene non c’era. Lei non era nessuno, era un feto sgusciato, un corpo nudo il cui cuore batteva centottanta volte in un minuto, la cui faccia era così piccola che nessuno avrebbe potuto intuirne i lineamenti. Era una forma senza immagine, un atto vivente che dietro di sé non aveva nessuna idea platonica a sorreggerlo, l’individuo che non arriva da nessun paradigma. E io non ero sua madre, non ero una madre, io ero un buco vuoto che ogni mattina prendeva una metropolitana per l’ospedale e che quando usciva passava da un cinese take away perchè non c’era più ragione di cucinare. Che aveva dimenticato in una borsa qualunque un libro sul laicismo, e che ogni due ore e trenta minuti si alzava dal divanetto della sala di attesa e si trascinava verso l’incubatrice in un modo che agli altri pareva comprensibile e anche doveroso. Invece io mi alzavo e andavo in un modo appannato e vago, come quelle foche che seguono i cadaveri dei loro figli uccisi dai bracconieri.

-Tutto sommato abbiamo avuto un culo enorme.
-Mina ma perchè?
-Eh, le altre mamme si sono dovute accontentare dell’ecografia: noi stiamo vedendo tutto dal vivo.

Mi sembrava che gli altri si lasciassero scorrere mentre io ero come uno scoglio che dava intralcio alla corrente e da esso con odio si lasciava corrodere. Sono stata questa inutile fatica, e questa fatica non si è mai sciolta.

Misuravo i giorni che passavano con la lunghezza della mano di Irene, stretta su una delle mie falangi.

Quando rialzai gli occhi dal microfono mi accorsi che quelli della psicologa erano umidi. In genere gli psicologi sorridono, e quel sorriso è funzionale, significa che la tragedia enorme che gli stai srotolando davanti in fondo non è così enorme come sembra. Quando uno psicologo piange forse vuol dire che sta partecipando, ma sicuramente non è rassicurante.

Non sono buona ad aspettare. Aspettare senza sapere è stata la più grande incapacità della mia vita. Nell'attesa ho avuto lo spazio per costruire enormi impalcature di significato, e dieci minuti dopo farle crollare, per mia stessa mano. Poi riprendere da un punto qualunque, correggere il tiro di qualche centimetro per rendere la costruzione immaginata più solida. Vederla crollare di nuovo. Ho speso svariati fine settimana della mia vita in quest'opera, e pur riconoscendola, non ho mai saputo distrarmi. Ho sentito la tragedia dell'attesa arrivare da lontano, da una telefonata, da un viaggio, da una mail, da una notte di sesso, da un ospedale. Ho scelto dal mio arsenale di dischi la musica che incalzasse l'angoscia, quella per stemperarla, poi più che piangere: per sfinimento mi addormentavo. Nell'attesa ho sempre fatto sogni chiari, di epoche che non ho dovuto conoscere né attraversare, il sogno è stato il tempo speso meglio, e una volta sveglia il dolore era decuplicato. Io non so aspettare e non voglio farlon nell'attesa i mostri prendono forma e si ingigantiscono, mangiano le ore per crescere e mangiarmi. Non sento curiositá nel dubbio, nè fascino nella speranza, fossi stata Eraclea, non mi sarei fermata al bivio.

Non si può essere diretti nella delusione, bisogna giocare di sponda.

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